E’ stata la caduta generale della morale e la dilagante corruzione ad allontanare una parte consistente dei cittadini dal voto? O, ancora, l’incapacità dei partiti di elaborare una proposta credibile per affrontare le tante crisi dei nostri tempi? Sono gli interrogativi, insieme a tanti altri, a cui ha cercato di offrire delle risposte il convegno internazionale Crisi dei partiti di massa e nuove appartenenze dal 1979 a oggi, organizzato all’università di Bari dal prof. Carlo Spagnolo, docente di Storia contemporanea e presidente della Società Italiana per la Storia Contemporanea dell’Area di Lingua Tedesca (Siscalt), in collaborazione con l’Istituto Storico Germanico di Roma, l’Institut für Zeitgeschichte, la Hanns Seidel Stiftung di Monaco e la Fondazione Giuseppe Di Vagno.
Domande alle quali, in realtà, dovrebbero cercare di rispondere non solo gli storici, i sociologi e gli studiosi dell’età contemporanea ma anche i partiti stessi, afflitti da una profonda crisi di identità ma, soprattutto, completamente estranei ad ogni percorso di autocritica e di riflessione, che solo può ridare la speranza di tornare ad essere attrattivi nei confronti degli elettori e quindi di offrire una nuova, reale chance alla partecipazione attiva dei cittadini alla vita democratica del paese.

D’altra parte, c’è da considerare anche il ruolo degli intellettuali, considerati con una certa retorica i “fari della società”, completamente inerte in un paese in cui lo stato della cultura e della politica è in condizioni drammatiche. Motivo per il quale, il contributo che può dare al dibattito sui temi in questione e alla strategia per uscire dall’attuale crisi, un’iniziativa come quella realizzata dall’ateneo barese, risulta particolarmente utile.
Il sociologo Carlo Trigilia, già ministro per la Coesione territoriale nel governo Letta, tra i primi ad intervenire, pone l’accento sulla crescita delle disuguaglianze a partire dagli anni ’80. Un fenomeno le cui cause sono molteplici: dalla riduzione del welfare alla liberalizzazione dei mercati al declino del fordismo. Ma come già denunciato in un articolo pubblicato su Domani (leggi qui), Trigilia individua nella mancanza di circolazione di nuove idee “il male forse più insidioso delle democrazie contemporanee”. Alla fine del convegno, dopo aver ascoltato le molteplici voci che vi hanno partecipato, troveremo una risposta anche a questa domanda.
Dietmar Süß, docente all’universität Augsburg, sottolinea come debba essere la democrazia a creare le condizioni per la partecipazione dei cittadini e come il capitalismo sia, in realtà, un problema per la democrazia. Capitalismo che, com’è noto, si è “evoluto” in un neoliberismo sfrenato che non poggia più su un sistema di globalizzazione, ancora in piedi, nonostante sia stato dichiarato morto più e più volte. Aggiungiamo, dunque, un altro interrogativo al quale rispondere, sollecitati dalle suggestioni del convegno: si può davvero parlare di capitalismo democratico? O quello tra capitalismo e democrazia è un matrimonio forzato? E in questo matrimonio, qual è il ruolo dello stato?

A questo proposito George Diez, su Die Zeit suggerisce di aprire un dibattito su cosa debba essere lo stato in generale ma soprattutto in Germania, considerando il grave stato di crisi in cui il paese versa. Con “gli anni duemila – precisa Diez – caratterizzati dalle riforme neoliberiste del mercato del lavoro volute da Schröder. Misure che hanno impresso una forte spinta all’economia tedesca, ma allo stesso tempo provocato divisioni permanenti. Gli anni dieci del nuovo millennio sono stati un periodo di grande crescita economica, in cui però sono state ignorate le questioni dell’ingiustizia sociale e di una più equa distribuzione della ricchezza.”
Abbiamo chiesto, dunque, al professor Süß se lo stato, anche in Italia, sia funzionale a questa forzata unione tra capitalismo e democrazia; se sia, cioè, funzionale al mantenimento del sistema liberale. E la risposta è che non possiamo più parlare di destatalizzazione come per gli anni 2007 e 2008. Lo stato svolge, dunque, un ruolo dirimente nel sistema nel quale i partiti sono entrati in crisi e, soprattutto, nella gestione del mercato. E questo non è da poco in un’analisi con la quale cerchiamo di capire verso quale realtà stiamo andando e attraverso cosa passeranno o passano le decisioni che prima passavano per i partiti.
Consideriamo anche, a questo proposito, l’assetto personalistico che un partito può assumere e la gravità che ciò comporta per la vita stessa dei partiti e per la partecipazione dei cittadini. Marc Lazar, docente di Storia e Sociologia politica all’Institut d’études politiques de Paris, spiega nel suo intervento come Emmanuel Macron con Renaissance, un partito di natura liquida, come quello dei nostri pentastellati, abbia costruito un consenso volatile intorno alla propria immagine. Ciò non può che farci pensare anche al caso emblematico, e ancora poco analizzato nella letteratura di carattere politico, di ciò che è stato e che è ancora per noi in Italia il berlusconismo. Lazar spiega come questo genere di “partecipazione politica” sia, in realtà, una non partecipazione, un semplice consenso che si manifesta con un click online. E se parliamo di partecipazione volatile, allora dobbiamo anche chiederci chi “sta” concretamente sul territorio? Perchè questo genere di grandi partiti con partecipazione liquida lasciano i territori vuoti e si concentrano sulla comunicazione online e in tv. E se il territorio resta sguarnito, da chi vengono ascoltate le persone e i loro bisogni? Chi si occupa dei cittadini che versano in uno stato di disagio materiale? O della loro solitudine? O della loro alienazione?

I partiti di sinistra in Europa vogliono ancora, come si dice spesso, partire dal basso? Bisogna sempre distinguere, come spiega Lazar, il macro dal microterritorio quando si cerca di analizzare un fenomeno storico, sociologico e politico. Insomma, non possiamo generalizzare: i paesi del Nord Europa, come spiega Trigilia, mostrano ancora una spiccata aderenza al modello della sinistra radicale perché in quei paesi si è riusciti a mantenere condizioni realmente democratiche, rispettose della condizione operaia. È dunque, ancora possibile immaginare una politica diversa, anche nello scenario di alienazione che viviamo, e dibattiti e riflessioni come quelli messi in campo dall’ateneo barese, che nascono dalla reale voglia di fare ricerca scientifica, di interrogarsi sul futuro, di trovare delle risposte e incrementare la comprensione profonda del presente, assumendo una consapevolezza attiva della contemporaneità. “Consapevolezza che – come scriveva Giorgio Pasquali – non nuoce mai.”

Ed è un grosso errore non arrischiarsi a ragionare del presente solo perché si tratta del tempo presente: la prudenza sterile non può essere un’opzione nei tempi che stiamo attraversando. È necessario capire che l’incapacità di esistere sul territorio da parte dei partiti non è solo dovuta ad una caduta morale, ad una diffusa corruzione, alla fine delle ideologie (se davvero possiamo parlare di fine delle ideologie) o agli effetti dell’iperglobalizzazione, ma anche ad una straziante mancanza di consapevolezza umana e politica dei cittadini e di chi invece si ritrova nelle istituzioni a produrre una politica sterile.
Ascoltando le molteplici voci che si sono susseguite, è apparso naturale richiamare il pensiero di Neil Vallely, ricercatore economico e politico di Otago in Nuova Zelanda, nel suo libro Vite rubate. Discorrendo sul concetto di neoliberismo (termine adoperato il più delle volte in maniera “faziosa” ma certamente non da Vallely, che ne determina il significato nell’espressione: sistema neoliberista inteso come “condizione futilitaria”) Vallely scrive: “il vero campo di battaglia oggi non è tra capitalisti e lavoratori, o tra governi e cittadini ma tra noi stessi e l’immagine che abbiamo di noi stessi, data la tendenza a considerare le relazioni umane alla stregua di un mercato. Le enormi disuguaglianze sistemiche della nostra epoca vengono infatti riconcettualizzate come carenze personali, fallimenti nella nostra capacità di accumulare efficacemente capitale umano.” Dunque “il male forse più insidioso delle democrazie contemporanee” è probabilmente la mancanza di consapevolezza dei propri diritti e dei propri bisogni.

Il concetto di bisogno viene desacralizzato da tempi che vanno molto più indietro rispetto alla contemporaneità che cerchiamo di analizzare, ma la narrazione neoliberista che vuole i fallimenti personali come imputabili solo ed esclusivamente alla propria incapacità di uscire da condizioni di disagio sociale, economico e psicofisico è il problema forse principale con cui dobbiamo fare i conti. Se i partiti di sinistra cominciassero realmente ad occupare i territori e ad occuparsi di rendere le persone consapevoli della loro conditio politica, senza lasciare alla destra estrema la funzione apotropaica che ormai ricopre, riusciremmo anche in Italia a ricreare le condizioni per una partecipazione collettiva dei cittadini realmente attiva. Certo, muoversi sulle macerie vivissime del berlusconismo non è semplice, ma nessun partito liberale, volatile, a grande adesione “popolare” potrà mai soddisfare un reale bisogno. Al massimo potrà solo intercettare degli interessi.
“There is always hope” si legge su una delle opere più famose di Bansky (Girl with Balloon) e che non a caso è stata scelta come sfondo per questo convegno “faro” in un mare di liberal futilitarismo. Oltre alla speranza, però, c’è anche un reale fuoco che, come diceva Mangunwijaya, anche se non si vede, già divampa e che aspetta solo di essere incanalato nel modo giusto: occasioni come queste possono davvero contribuire a farlo.
Nella foto in alto, Girl with Balloon di Bansky con la scritta “There is always hope”