Se la mano destra nasconde cosa fa alla sinistra, il disastro è assicurato

La scoperta del patto "segreto" tra governo e Arcelor Mittal svela la realtà di un'azienda, l'ex Ilva, al tracollo com'era forse nei "piani" del colosso franco-indiano

Può il socio pubblico, controllato dal ministero dell’Economia, di una società strategica come l’ex Ilva di Taranto essere all’oscuro di un accordo firmato tra il governo e il socio privato della stessa azienda? E non essere nemmeno a conoscenza dei conti, sempre più disastrosi, tanto da far temere per la continuità aziendale? Un qualsiasi passante risponderebbe di no, ma è esattamente quanto avvenuto – almeno negli ultimi 40 giorni – dentro Acciaierie d’Italia (AdI) la holding che controlla il gruppo siderurgico, partecipata da Invitalia (38%) e ArcelorMittal (62%). Lo si capisce leggendo la lettera, pubblicata dal Fatto Quotidiano, che l’amministratore delegato di Invitalia, Bernardo Mattarella, ha inviato al presidente di AdI Franco Bernabè (dimissionario), all’amministratrice delegata dello stesso gruppo Lucia Morselli, nonché alla stessa società e Ad ArcelorMittal.

      

L’esecutivo, per mano del ministro degli Affari Ue, Raffaele Fitto, ha infatti firmato un memorandum d’intesa con ArcelorMittal, tenuto segreto e di cui ha negato l’esistenza a chi ne chiedeva conto. Il testo è stato depositato il 17 ottobre in un consiglio di amministrazione di Acciaierie d’Italia. Notizia che ha fatto infuriare l’amministratore delegato Mattarella, che ha messo per iscritto tutta il suo disappunto nei confronti dell’amministratrice di AdI, Lucia Morselli (voluta fortemente da Mittal) accusandola di avergli tenuto nascosto l’accordo e la situazione disastrosa del gruppo.

I sindacati parlano di “inganno del governo”, mentre l’esecutivo tenta di giustificarsi chiarendo che l’intesa non è ancora definitiva. Il motivo di tanta segretezza, però, lo si scopre analizzando il contenuto del testo: il piano, con orizzonte al 2030, costa di 4,6 miliardi, dei quali Fitto s’impegna a metterne poco più della metà. Il resto non arriverà dal socio privato, ovvero Mittal, ma dalla stessa AdI, di cui lo stato è azionista, come già spiegato, attraverso Invitalia.

Quindi il governo e il socio privato trattano, si accordano e il socio pubblico non ne è a conoscenza. Ma non è finita. Mattarella sottolinea anche che “si è potuto constatare che sarebbero stati redatti e consegnati documenti programmatici citati nel memorandum senza che gli stessi, ancora una volta, fossero messi a disposizione o precedentemente comunicati e condivisi con il consiglio di amministrazione della holding e con Invitalia, nella sua qualità di socio pubblico chiamato a contribuire allo sviluppo della società”.

Diventano così lampanti i retroscena che da anni vedono il presidente Bernabè, espressione di Invitalia nel cda di Acciaierie d’Italia, ai ferri corti con l’ad Morselli che agirebbe indisturbata nella gestione della società. E, alla luce di tutto questo, sorprendono sempre meno le parole che lo stesso Bernabè ha espresso la scorsa settimana in commissione Attività produttive spiegando le ragioni che lo hanno spinto a rimettere il proprio mandato nelle mani del governo.

La situazione parla da sé. “All’interno della fabbrica non c’è più niente, non ci sono i pezzi di ricambio, vengono presi i pezzi da alcune macchine ferme e montati su altre che stanno in produzione, c’è poca sicurezza”, hanno raccontato alcuni lavoratori al Manifesto. “Ormai siamo diventati lavoratori stagionali, quando c’è il lavoro ti chiamano, altrimenti ti dicono di stare in cassa integrazione”, proseguono. È l’incertezza, l’assenza di futuro, la parola d’ordine. Il sospetto che in molti ventilavano fin dall’acquisizione del colosso franco-indiano adesso non sembra più un’ipotesi del complotto ma un’ipotesi credibile: ArcelorMittal ha rilevato l’Ilva solo per controllare che nessuno ne ostacolasse l’inevitabile trapasso, potendo così eliminare un ingombrante competitor dal mercato e allo stesso tempo “rubare” il portafoglio clienti?

Di fatto, ha spiegato Bernabè, Ilva usa la liquidità di cassa per finanziare l’attività operativa, riducendo a ogni giro la produzione: quest’anno non dovrebbe superare le tre milioni di tonnellate di acciaio, record negativo di sempre. Il tracollo è iniziato nel 2020, quando Mittal ha consolidato dal bilancio l’ex Ilva, che non ha più potuto attingere ai finanziamenti del colosso. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, aveva studiato la salita in maggioranza dello Stato, ma il piano è stato bocciato da Palazzo Chigi, che ha affidato il dossier al ministro Fitto, favorevole all’accordo con Mittal che è stato adesso raggiunto in tutta segretezza.

Bernabè ha battagliato per mesi con Morselli, scelta da Mittal tre anni fa per fare la guerra all’esecutivo, anche per la realizzazione del piano di decarbonizzazione che il governo ha affidato a Dri, la società pubblica (presieduta sempre dal manager) che deve produrre il “preridotto” per colare acciaio nei forni elettrici senza bruciare carbone. Costa 5 miliardi, ma ne ha già perso uno di finanziamento previsto dal Pnrr, stralciato da Fitto con la motivazione che la scadenza di giugno 2026 non poteva essere rispettata e con la promessa di trovare una soluzione alternativa. La soluzione, leggendo adesso l’accordo, pare essere quella di confermare la richiesta di finanziamento nell’ambito del Repower Eu, il nuovo capitolo energetico del Pnrr che l’Italia ha inviato in Ue (senza però menzionare Ilva). Problema: la scadenza prevista da Repower Eu è la stessa di prima. Infatti il ministro assicura che “in caso di inammissibilità di detto programma, il finanziamento del piano avverrà con fondi pubblici europei in materia di Sviluppo e coesione”, cioè il fondo Fsc.

La situazione sembra comunque compromessa e Mattarella continua a chiedere dettagli con urgenza. Sullo sfondo, inoltre, vi è la spada di Damocle di un procedimento azionato davanti alla Corte di Giustizia europea, che dovrà esprimersi a breve sul ricorso presentato dall’associazione Genitori Tarantini in relazione alla legittimità di alcune norme della legislazione speciale cosiddetta Salva Ilva. Cioè sul merito di una decina di decreti legge che, dal 2012 ad oggi, sono serviti unicamente a perdere tempo e a concedere vantaggi a chi inquinava.

Le foto dell’Ilva di Uliano Lucas sono tratte da Realta’ del lavoro nel mezzogiorno d’Italia (Tommaso Musolini Editore, Torino, 1980)