Dagli abissi della passione al riscatto, Tannhäuser è un eroe romatico

La regia di Uwe Eric Laufenberg conserva intatta, nonostante il gusto moderno, l'ispirazione originale dell'opera di Wagner, in scena nei giorni scorsi al Petruzzelli

Un’indagine introspettiva che scandaglia e si addentra nei meandri della psiche. Una lenta e lacerante capitolazione nella voragine, da cui intravedere la fioca e lontana luce del riscatto anelando alla redenzione e alla misericordia.

Brancola nel buio sotto l’egida di Venere l’eroe romantico Tannhäuser, protagonista dell’omonima opera di Richard Wagner, composta tra il 1842 e il 1845, in scena al Teatro Petruzzelli. Ebbro di musica, poesia e di un vino pretto che lo rende completamente asservito alla dea e al corteggio di ancelle e satiri, intento ad officiare i riti orgiastici, il trovatore wagneriano sceglie di tornare allo status di un tempo quando soleva distinguersi per la bellezza del suo canto d’arme e d’amore, ma ne constata l’impossibilità. Venere lo attanaglia costringendolo a tributare in suo onore il culto a lei dedicato, che nell’originale libretto d’opera gli adepti officiano sul Venusberg, il monte protetto dalla dea, ma che nella rivisitazione registica di Uwe Eric Laufenberg compiono in un probabile e moderno night club, dove tra bagordi e dissolutezza si consumano rapporti carnali di ogni tipo su divanetti neri o sullo splendido pavimento a cementine floreali.

Un notevole scarto rispetto alla tradizione percepibile nell’allestimento scenico minimalista tendente al noir a cura di Rolf Glittenberg, importato dal Hessisches Staatstheater Wiesbaden, che esalta – oltre alla grandezza dei singoli e dei comprimari – la nuda sensualità di corpi bramosi di saziare appetiti sessuali.

Su Tannhäuser, interpretato  nel tempio della musica barese da Aaron Cawley e Heiko Börner nella replica, si abbatte  il “male oscuro”, quella condizione di tempestosa e convulsa inettitudine propria delle creature fuoriuscite dalla penna di scrittori romantici, le quali si dibattono tra volontà di agire per esprimere al meglio la loro potenza e l’amara presa di coscienza di quel senso di inadeguatezza e irrequietezza che li contraddistingue. Il poeta prova infatti a distaccarsi dagli istinti libidinosi soffiati da Venere, la bellissima Jordanka Milkova, preferendo intonare un canto per la Madonna – collocata in una teca di vetro su fondale verdeggiante quasi rievocante l’altura boscosa sacra alla dea – ma più tardi ne pagherà il fio.

Dalle voluttà della dea al candore verginale di Maria: è da qui che si dispiegano le pagine più struggenti del dramma avvolte da una cupa partitura musicale che predilige al fremito dei violini il tramestio degli ottoni dell’orchestra del teatro, diretta dal maestro Michael Güttler, trovando però nell’arpa di Ilaria Bergamin il giusto connubio tra archi e fiati. La conversione di Tannhäuser, ravvisabile nella volontà di intraprendere un percorso di fede e di rettitudine morale rivolto all’espiazione dei peccati, favorisce una riflessione sul concetto di amore, senza dubbio motore universale di tutte le vicende umane, su cui i Greci indagano attraverso una molteplicità di termini.

In effetti nel capolavoro wagneriano convergono almeno tre tipi di amore, che si potrebbero indicare con tre sostantivi mutuati dalla lingua greca: l’eros, la pulsione carnale, la sete lussuriosa ed incolmabile della fisicità, che Venere impartisce a menadi e satiri; la philìa, cioè la filantropica benevolenza assimilabile al sentimento dell’amicizia; l’agàpe intesa come amore puro e incondizionato, mezzo di elevazione spirituale che conduce alla contemplazione e al congiungimento con Dio. E se sul primo lemma si è abbondantemente disquisito, sui restanti occorre chiarire in quale snodo del dramma si palesano.

Sul finire del primo atto, compaiono Wolfram, Walther, Biterolf, Reimar e Heinrich, vecchi compagni d’arme di Tannhäuser, accompagnati dal Langravio di Turingia Hermann. Questi consolano Tannhäuser esortandolo a dimenticare tutti i dissapori e ad unirsi nuovamente a loro. La philìa è racchiusa nelle parole di conforto pronunciate dai cinque poeti e nella fiducia  mostrata nei confronti del pentito. Una fiducia  presto sgretolatasi in alcuni di loro dopo la tenzone poetica disputata nella fortezza della Wartburg, dove il trovatore – cinto da un mantello bianco recante sul petto una croce vistosa – anziché tessere le lodi dell’amor cortese caro alla cultura cristiana invoca furente Venere che attua così la sua vendetta. Tuttavia c’è chi ritiene che per Tannhäuser possa ancora aprirsi una via verso la salvezza: è lo sguardo compassionevole del sontuoso baritono tedesco Birger Radde, nei panni di Wolfram, che incoraggia il poeta fino al triste epilogo pur amando la stessa donna. E per quella donna Tannhäuser decide di recarsi a Roma per ottenere l’intercessione del papa. Egli è accompagnato dalle possenti voci del coro, disposto sulla scena in uno stuolo di pellegrini che supportano il protagonista nella decisione presa.

Poi l’agàpe, il più alto sentimento di quelli finora elencati, scevro da contaminazioni corporali. Un amore che poggia sul valore della pudicizia. Sulla cultura del pudore e della castità si costruiscono le fondamenta del rapporto tra il poeta ed Elisabeth (Betsy Horne/ Elena Bezgodkova), la nipote del Langravio di Turingia Hermann (Young Doo Park) disposta a sacrificare la sua vita alla Madonna a patto che il suo amato ottenga il perdono dal papa. Di lì a poco il suo funerale, durante il quale il poeta tenta disperatamente di gettarsi sul suo corpo: Elisabeth ha riscattato con la vita la punizione inferta a Tannhäuser che, logorato dal dolore, esala l’ultimo respiro. Ella è chiave di salvezza, viatico per la redenzione e remissione dei peccati, mediatrice tra la sfera umana e quella divina, foriera del messaggio di misericordia che Dio ha inviato alle sue genti tramite suo figlio Gesù.

Allora sull’enorme croce, posta su una fiancata dell’allestimento scenico come testimonianza inequivocabile di una fede imperitura, aleggiano i bagliori di una luce che si irradia sempre più vivida con qualche nuvola di fumo: grazie al perdono di Dio, Tannhäuser è ormai salvo. Il pastorale del papa è miracolosamente fiorito. E nel giubilo finale irrompe il clamore dei pellegrini, parole che in italiano suonano più o meno così: “lode al miracolo della grazia. Il mondo ottiene la redenzione”.

Le foto di questo articolo sono di Clarissa Lapolla