Creature solitarie e inquietanti che, annaspando tra le onde della vita, riemergono sulla battigia di un’esistenza in tumulto. Operatività ancestrale che aggrega e tesse relazioni, spolverando silhoutte ataviche di animali sopravvissuti a catastrofi imminenti o trascorse. Nella ricca produzione artistica di Angela Rapio rintracciamo una riflessione sul rapporto simbiotico tra esseri viventi, che pur dominati, tentano una via di affrancamento dalla supremazia oppressiva dell’uomo.
Creature libere di evolversi, operare, migrare, sopravvivere, senza vincoli, cappi, costrizioni. Creature che celano anime leggere quanto faticosamente profonde, tanto da segnare l’eco del loro passaggio. L’abilità tecnica, oltremodo sopraffina, che lavora su stratificazioni di carta disposta come sedimentazione temporale, memoria, vissuti, acuisce il senso di accumulo. Così come le parole, vergate con cura antica, omettono la sintassi e si librano nel vuoto come tracce di infinito, in un rapporto epidermico, quasi sensuale, con l’opera in divenire.
Un procedimento ponderato, pianificato con cura lenticolare. L’artista, infatti, procede per cicli, fasce di esperienza e intuizioni che annodano o sciolgono i fili di un intreccio tanto tortuoso quanto evidente, foglio dopo foglio, soffio dopo soffio.
Creature fragili al tocco, sostenute nella volumetria di un canto che accarezza e commuove. E tra quegli strati esili si celano stati d’animo inquieti, che appartengono al tempo che indomito scorre e segna il dolore che affonda.
Ogni lembo di pelle lascia spiare la rinascita e vola via accogliendo un nuovo corso o facendo emergere un passato che batte dentro. Il senso del transitare, del resistere, del rigenerarsi ha sempre attratto l’artista bitontina, che vira sempre verso gli anfratti dell’anima. Un’anima mundi che governa e osserva. Uno scavo a picco negli abissi remoti dell’inespresso, tra le pieghe oscure del non detto, di cui ogni essere vivente conserva parte in sé, da cui ombra o barbaglio possono sempre riaffiorare. Ma bisogna prepararsi ad un ascolto temerario quanto doloroso. Perché dar voce e forma a quegli spettri che serpeggiano tra i dedali estremi del nostro essere fa vacillare anche gli impavidi.
Per delineare un quadro più completo del suo lavoro, abbiamo chiesto all’artista di approfondire il suo rapporto con l’arte intesa come progetto e idea. Ad offrire l’occasione, la recente mostra Narrazioni, allestita a Bitonto negli ambienti del Torrione Angioino.
Angela, nelle tue opere ci sono riferimenti autobiografici?
Sono nata da una famiglia di agricoltori e olivicoltori. L’esperienza dell’arte coincide da sempre col mio essere al mondo in questa terra carsica di ulivi prossima al mare, in cui sono nata e in cui vivo ancora. Ho cominciato disegnando foglie di ulivo, marchio del mio luogo d’origine, racchiuse in un uovo che idealmente diventa uno scrigno per conservare i miei ricordi e le mie radici. Raffiguro sezioni di vari scrigni per riportare alla luce atmosfere e sensazioni con le quali sono cresciuta. Così inizio una serie di opere dal nome “Egg”. Più tardi procedo con il ciclo “Carte fossili” in seguito a grandi dolori che hanno attraversato la mia vita. Queste opere si presentano come grandi ferite che la stratificazione delle carte ha sedimentato e metabolizzato nel tempo. Successivamente, con la serie dei “Boschi”, mi sono addentrata nella parte più buia che mi abita, in un viaggio esperienziale, per capire meglio il percorso di vita, mio e di mia figlia ancora adolescente in partenza per l’America. Negli ultimi anni ho lavorato sugli animali in un ciclo chiamato “Anima lì”.
Anche questo ciclo, per quanto dedicato al mondo animale, nasce dalla tua esperienza personale…
Come suggerisce il titolo ho voluto ridare agli animali ritratti quell’anima del mondo che prima possedevano ed esprimevano e che ora gli umani hanno sottratto, rinchiudendoli in allevamenti intensivi, rendendoli così oggetti utili al loro fabbisogno, privandoli di ogni dignità. Essenziale per me il ricordo, da piccola, delle galline nel cortile di casa dei miei genitori, e non solo nella nostra casa, libere di scorazzare di qua e di là, come anche le mucche e le capre del lattaio il quale ogni giorno distribuiva in tutto il paese con vanto e amore il latte da lui prodotto. Gli uccelli migratori scandivano le stagioni; era bello vedere stormi di rondinelle in primavera. Il cambiamento climatico e l’urbanizzazione selvaggia hanno confuso i loro percorsi e sottratto le loro dimore. Le api e le formiche mi hanno sempre attratto per la loro capacità organizzativa e ho sempre pensato che potevano essere degli ottimi esempi, per questa umanità disgregata, da imitare.
Da dove provengono gli stimoli espressivi più significativi della tua ricerca artistica?
Mio padre era un grande cultore dell’ulivo e amante della natura; sosteneva che gli alberi bisognava trattarli come esseri umani, prestargli molta cura e parlargli perché essi sono in grado di ascoltare. Ed era vero. Le terre dell’agro di Bitonto di mio padre erano così rigogliose da sembrare orgogliose della loro bellezza. In un certo qual modo, papà mi ha coinvolto in quel sentimento di comunione con la natura in cui tutti gli esseri viventi sono legati da un’anima universale, l’anima del mondo. Ancora oggi, lavoro a stretto contatto con la natura viva, tra terra e cielo, con le sue molteplici e mutanti forme vegetali, animali, antropomorfe che orientano, influenzano ed ispirano l’osservazione e l’immaginazione, l’azione performativa del gesto estetico.
Come nasce e come si evolve il tuo ultimo progetto?
Anima lì, il mio ultimo progetto, è un ciclo di opere pittoriche e plastiche create durante la pandemia, tempo di separatezza e solitudine che ha spinto la mia produzione artistica ad una riflessione sul rapporto tra “viventi”. Un invito alla responsabilità umana e alla cura, alla creazione di legami e dimore, ad un nuovo modo di essere vivi, guardando al mondo delle api, formiche, sciami alati, galline in “quinto stato” schierate ed ancora mucche, tori, capre e uccelli. Animali di terra, di acqua e di cielo, sono ancora al centro della visione, in forma di “reperti”, tracce fossili, creature sopravvissute a cosmiche catastrofi. Testimoni muti di un’offesa radicale da parte dell’uomo. E’ un guardare alla possibilità e nel contempo al rischio di ripercorrere la strada dell’estinzione. Ogni animale è un contenitore dell’anima del mondo, ed è come se parlasse e chiedesse attenzione, ascolto, una nuova consapevolezza.
Ritieni che oggi l’arte sia più interessata alla dimensione privata o a quella sociale?
Penso che l’arte si esprima socialmente in molti casi. Per quanto mi riguarda, parto dal mio vissuto ma non riesco a non essere coinvolta dalla realtà in cui si vivie. Come artista sento il dovere di documentare la frattura fra uomo e natura ma anche sollecitare ad una riflessione critica sulla possibilità di una cura condivisa del pianeta, dei territori che abitiamo e di tutto ciò che in essi vive. Per me le due dimensioni private e sociale non dovrebbero essere scisse, l’una dovrebbe influenzare l’altra.
Hai nuovi progetti in corso?
Ho cominciato a lavorare, anche se a rilento, su alcune idee che sono ancora in ebollizione, I mesi passati sono stati importanti per riflettere e per ricaricarmi, in vista di nuove produzione. L’estate costituisce un periodo di “pausa”, di sedimentazione creativa dei pensieri, necessaria ad una ripartenza nel segno di una progettualità grazie a cui raggiungere nuovi e ancor più interessanti traguardi.
Nelle foto, alcuni lavori di Angela Rapio, in mostra al Torrione di Bitonto