La “divina patria” agli Oscar con due giovani senegalesi

Per ironia della sorte, sarà "Io Capitano" di Garrone a concorrere per l'Italia dell'era Meloni, con le ambigue scelte sui migranti e i conti mai chiusi col Ventennio

Nell’Italia di Giorgia Meloni, la “divina patria” verrà rappresentata ai 96esimi Academy Awards da un film con protagonisti due giovani senegalesi, tutto recitato in lingua wolof e senza doppiaggio. Un’ironica pena del contrappasso per cui si deve ringraziare Matteo Garrone, che stavolta, grazie alla transizione della sezione alla quale il film ambisce – avvenuta qualche anno fa – da “film in lingua straniera” a “film internazionale”, può davvero sognare la cinquina degli Oscar, al riparo da spiacevoli inconvenienti come quello capitato nel 2005 con Private di Saverio Costanzo: candidato dall’Italia per il prestigioso riconoscimento, ma rifiutato dall’Academy perché non recitato in lingua italiana.

Con Io Capitano, il regista romano mette in scena un ennesimo – dopo il maldestro Pinocchio – viaggio di “disobbedienza” rispetto ai consigli della propria famiglia. Stavolta protagonisti sono due giovani cugini – gli emergenti Seydou Sarr e Moustapha Fall, da cui Garrone tira fuori il meglio – che condividono paure, gioie e dolore, accogliendo in sé tutte le emozioni contrastanti che un’epopea così totalizzante suscita nell’animo di chi la compie. La loro casa, il Senegal, è rappresentata nel film come un luogo di luce, colmo di colori e di affetti, in un pieno di energia che dà avvio al loro viaggio verso l’Italia, che lentamente scolorisce a mano a mano che i due protagonisti si allontanano da quel villaggio da cui tutto è cominciato. Io Capitano diventa così la storia dell’ingenuità di chi ha tutta la vita davanti e la voglia di costruirsela seguendo i propri sogni e le proprie ambizioni, schiacciata dalla tragica realtà che conosciamo dall’altro lato dello schermo, fatta di corruzione, violenze, mafia, prigionia.

La motivazione per la quale i due giovani del film vogliono intraprendere il loro viaggio non è stavolta politica, umanitaria o climatica: semmai, in senso più esteso, è “ambientale”. Il loro viaggio non nasce dalla disperazione, ma da un desiderio che il proprio paese di provenienza non può soddisfare: quello di andare in Italia convinti che l’Italia potrà capire la loro musica. Si va in Italia, sostanzialmente, perché lo si vuole, non perché si è costretti da qualcuno o qualcosa. “Perché un musicista italiano che vuole andare a respirare l’aria di Berlino può farlo e noi no?”, sembrano chiedere implicitamente i due. Nel pubblico unico e globale, di YouTube, di Instagram, di TikTok, che i protagonisti utilizzano quotidianamente, si alza la voce di chi chiede così la possibilità di creare e non solo di consumare e fruire.

Così, viene da pensare, che anziché allungare sadicamente il tempo di reclusione nei Cpr a 18 mesi, invece di offrire motovedette alle guardie costiere dei paesi africani per ricacciare i migranti nei centri di detenzione – incrementando quindi le difficoltà e i rischi che determinano poi il ricatto delle locali criminalità organizzate e la richiesta sempre maggiore di soldi in cambio di “protezione” – e invece di immaginare di costruire isole sulla falsariga di quella australiana di Narau (come proposto dall’on. Biancofiore), se prima di qualsiasi altra cosa rendessimo semplice e lineare il loro viaggio e il disbrigo delle pratiche burocratiche legate ai loro permessi di soggiorno potremmo finalmente sanare la disuguaglianza di una libera circolazione che non è tale per tutti e ledere gli interessi di almeno due lati della sovrastruttura triangolare che condiziona questi movimenti illegali (in assenza di alternative legali): quelli di chi intasca 5000 dollari a migrante (in Africa) e quelli di chi sfrutta la condizione di clandestinità per ottenere manodopera a basso costo (in Italia).

Ma sappiamo che non ci sono le condizioni politiche (non solo a livello nazionale, ma anche europeo), e che forse non c’è neanche la predisposizione benevola di tutta la popolazione italiana a questo genere di soluzioni. Ed è per questo che il film di Garrone gioca intelligentemente sull’impossibilità dello spettatore di partecipare interamente alla felicità, anche se momentanea, dei protagonisti del suo racconto: li vediamo felici per aver scampato un pericolo, per aver incontrato un nuovo amico sulla strada, per aver trovato un posto sicuro dove passare la notte, ma non riusciamo mai davvero a godere anche noi di quegli attimi di sollievo. Fugaci momenti di serenità, che i due attori rendono dolcissimi e teneri, che non trovano mai una completa aderenza dello spettatore, che già sa – a differenza loro – le insidie e le minacce che aspettano i due ragazzi nella tappa successiva del viaggio. Che già sa che, in un ipotetico seguito della loro storia ambientato in Italia, il loro destino non coinciderebbe con quello da loro immaginato, voluto, desiderato prima di lasciare il Senegal.

Questo scarto emotivo incolmabile trova il suo apice in un finale (un primo piano che rivela il cambiamento del personaggio sulla sua faccia, esattamente come accadeva in Dogman) che per i protagonisti ha il gusto della vittoria, mentre per chi guarda è solo un’illusione destinata ad infrangersi appena si riaccendono le luci in sala. Un epilogo di clamorosa bellezza (e complessità) che ancora di più rende evidente quanto sia stata giusta l’assegnazione, da parte della giuria della Mostra del Cinema di Venezia, del premio per la miglior regia a Garrone. Fin dagli inizi, il suo cinema ha trovato infatti la più grande forza nel peculiare metodo di lavorazione scelto per realizzare i film, girati sempre in ordine cronologico, cambiati all’occorrenza, in corso d’opera, in base alla reale traiettoria dei personaggi – alle sue deviazioni rispetto alla sceneggiatura – e di chi li deve mettere in scena sullo schermo. Tenendo conto, quindi, anche di come cambia nel tempo la percezione degli attori rispetto ai loro ruoli.

I due giovani attori senegalesi col regista Matteo Garrone

La loro evoluzione, pur essendo messa nero su bianco nel copione, sembra avere una coerenza impossibile da raggiungere se non in un film di Garrone, che spesso sceglie di tenere all’oscuro i propri attori (specialmente quelli non professionisti, come in questo caso) del quadro complessivo, di fornire loro indicazioni di volta in volta, dandogli il privilegio di potersi stupire dello svolgimento della storia e delle svolte narrative che magari non si aspettavano di dover affrontare. Ed è proprio grazie a questo peculiare metodo di lavorazione e ad un incredibile intuito da regista (che non deve scegliere solo le inquadrature, ma anche dirigere gli attori affinché possano esprimere il massimo delle loro possibilità) che l’odissea di Io Capitano può risultare allo spettatore così coinvolgente emotivamente.

Ancora di più il successo di Garrone all’ultimo festival di Venezia deve renderci felici, se si pensa al film che quest’anno ha inaugurato la Mostra: quel Comandante di Edoardo de Angelis, in cui Pierfrancesco Favino, nei panni del militare fascista Salvatore Todaro, afferma perentoriamente – e un po’ comicamente – una presunta superiorità italiana, che suona come un’oscena assoluzione, collettiva e a prescindere, di un popolo che i conti col Ventennio non è mai riuscito a farli davvero. Un popolo che, come ha ricordato recentemente il prof. Tomaso Montanari, non è nemmeno stato capace di istituire una giornata di pentimento e memoria per l’oltre mezzo milione di morti che abbiamo fatto in Africa nelle nostre guerre coloniali (liberali e fasciste).

Nella foto in alto Seydou Sarr e Moustapha Fall, protagonisti del film di Matteo Garrone