Una delle molteplici difficoltà in cui può incappare un regista che intenda misurarsi con il teatro del passato, qualunque sia la sua epoca, è il testo, il copione. Cosa fare quando ci si trova di fronte a una tragedia greca o all’Amleto? Un regista che si rispetti, o uno sceneggiatore, deve lasciare tutto com’è, ogni frase, ogni riferimento anche astorico, oppure deve puntare ad una modernizzazione? Espungere i riferimenti a Pericle e l’odio nei confronti degli spartani, di cui la tragedia e la commedia greca sono gremiti, oppure lasciare tutte le invettive contro la corte di Francia, che riempiono certi testi di Voltaire?
Non sono domande cui si può rispondere facilmente, ma potremmo arrivare ad un compromesso e dire che non bisognerebbe mai tradire il testo di partenza, ma neppure dimenticare che i tempi sono cambiati.
Per poter mantenere questo instabile equilibrio tra fedeltà e innovazione è necessario conoscere molto bene il testo di partenza e avere chiaro in mente il messaggio che si vuol trasmettere al pubblico. Un obiettivo che Emanuele Porzia è riuscito a cogliere nel suo ultimo spettacolo Atti unici. Ha recuperato due brevi testi teatrali di Luigi Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca e Sogno (ma forse no), scritti entrambi tra il ’28 e il ’29, quindi durante il fascismo, e li ha adattati al contesto moderno.
Operazione non facile perché, per quanto Pirandello faccia delle commedie di maniera, quindi d’argomento sociale e prive di riferimenti storici, esse sono il ritratto di un’epoca ben lontana dalla nostra. Può capitare di trovare una descrizione non proprio lusinghiera del genere femminile e anche una rappresentazione del rapporto uomo-donna che oggi definiremmo problematico o, addirittura, tossico. Non mancano gli insulti né tanto meno le bastonate, e spesso può capitare che questi mariti gelosi si trasformino in tanti Otello. Ma alla fine, si sa, erano altri tempi, neppure tanto lontani per certi versi.
Quindi, la prima fruttuosa operazione consiste nello snellire il testo e privarlo dei termini e contenuti più misogini, senza tuttavia tradire l’intento originario. Per esempio, ne L’uomo col fiore in bocca, il protagonista è un vecchio che prova una rabbia cieca nei confronti della moglie e che inizia ad insultarla pesantemente ad un certo punto della messa in scena. Se lo fa è perché l’uomo sta per morire e non accetta che la moglie, una donna molto più giovane di lui, voglia invecchiare e morire insieme a lui. È infuriato perché vorrebbe che si godesse la vita e che non la sprecasse appresso ad un vecchio come lui. Ma, per quanto le urli contro, la donna comunque seguiterà a stargli accanto, subendo il suo tono acrimonioso e i suoi modi di fare burberi. È un’operazione, quindi, che va fatta con intelligenza.
La coppia Ines Froio – Emanuele Porzia, già ben collaudata dopo anni di lavoro insieme, ha interpretato nella prima pièce due uomini per poi, nella seconda, vestire i panni di una coppia di innamorati. I riferimenti alla morte, simboleggiata da quel fiore in bocca, e le riflessioni sulla fine di un amore tra due persone diverse per censo ed età hanno tenuto il pubblico con il fiato sospeso, nonostante il luogo prescelto per lo spettacolo. Si trattava, infatti, del piano interrato della Cartoleria del Corso, a Bitonto. In un contesto quasi familiare, privo di apparecchiature sofisticate o di luci, i due attori hanno trascinato il pubblico in una dimensione altra, in storie poco conosciute dagli spettatori. La scarsità di mezzi ha consentito al duo di sperimentare la potenza del teatro epico, nel quale la parola si fa evocazione, e di mettere in scena uno spettacolo sulla scia del teatro dell’assurdo, nel quale l’azione può svolgersi senza i consueti movimenti scenici degli attori. Infatti, ne L’uomo col fiore in bocca, i due erano seduti l’uno di fronte all’altro e si limitavano a pochi e necessari gesti.
Inoltre, la scarsa illuminazione – resa da un paio di lampade disposte o al centro di un tavolino o ai lati – consentiva al pubblico un’immersione totale nelle vicende. Gli spettatori hanno perso di vista i contorni delle pareti e avvertito in maniera molto più forte le emozioni, specie la sensazione di claustrofobia che provavano i personaggi stessi nel momento in cui non riuscivano a sfuggire ai loro problemi, alle loro vite e alla fine di tutte le cose, cioè alla morte. Personaggi che – come scrisse Pirandello nel suo testo teatrale più famoso, Sei personaggi in cerca d’autore – “vivono eterni, perché ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità“.
Realizzare uno spettacolo in un posto diverso dal solito è un’idea novecentesca e appartiene al teatro sperimentale del secolo scorso. Pirandello diceva che il palcoscenico è un luogo in cui si gioca a fare sul serio. Quindi, perché non “fare sul serio” anche in strada come avrebbero voluto quei folli del Living Theatre, una compagnia teatrale newyorkese che ha cambiato il nostro modo di concepire il teatro? Il resista ha, invece, voluto rifarsi a Dacia Maraini e al suo “teatro di cantina”, un teatro che può essere portato in scena ovunque, perfino nel sottoscala di una cartoleria.
Al di là del notevole lavoro fatto sul testo, è stata molto interessante la regia di Emanuele, nonché le interpretazioni dei due attori, una coppia affiatata e credibile che speriamo di rivedere presto insieme.
La prova provata di come non servano grandi mezzi, luci stroboscopiche ed effetti speciali, per mettere su uno spettacolo di qualità. Ci vogliono soprattutto talento e una grande e incontenibile passione, nonché la determinazione tipica di quei giovani che si sono visti privati di qualunque svago durante il lockdown e sono consapevoli di non dover perdere altro tempo per realizzare i loro sogni. Una lezione di teatro (e di vita) che di certo il pubblico di Atti Unici non dimenticherà tanto facilmente.
Nelle foto (di Alessia Di Rella) Ines Froio ed Emanuele Porzia interpreti della pièce “Atti Unici”