L’insostenibile assenza di Milan Kundera

Il modo per evitare di congedarsi dal grande scrittore cecoslovacco, è adottarne lo sguardo spietatamente sincero ma anche compassionevole sulla vita e gli uomini

Nel corso del Novecento è stato assai vivo, tra le personalità più autorevoli della letteratura e della cultura, il dibattito su chi fosse l’intellettuale e su che ruolo avrebbe dovuto occupare nella società del tempo. Ci si domandava, in particolare, se fosse giusto comportarsi alla stregua di Italo Calvino e guardare dall’alto gli eventi, come quel Cosimo del Barone rampante che osservava tutto quello che succedeva intorno a lui dai rami degli alberi, oppure come Pier Paolo Pasolini ed essere parte attiva degli avvenimenti. Se provassimo ad inserire Milan Kundera tra queste due figure avremmo il perfetto intellettuale: colui che sa essere imparziale, senza evitare di addentrarsi anche nei fatti più oscuri del presente.

Milan Kundera (Photo by Micheline PELLETIER/Gamma-Rapho via Getty Images)

Non è un mistero, infatti, che Kundera nel 1975 fosse stato costretto a trasferirsi in Francia – dov’è vissuto fino alla sua morte – a causa dei suoi accesi contrasti con il partito comunista cecoslovacco, contro cui non ha mancato di scagliarsi accanitamente nel corso della sua lunga vita. Mi viene in mente lo scandalo che suscitò il suo primo romanzo, Lo scherzo, pubblicato nel 1967 e subito annoverato tra i libri proibiti. Terminava quell’anno la cosiddetta Primavera di Praga, periodo durante il quale l’allora leader politico, Alexander Dubček, aveva tentato di smorzare alcuni toni del comunismo, introducendo un socialismo che definiva “dal volto umano”. Tentativo che fu considerato un attacco all’Unione Sovietica, che in quegli anni teneva le redini dell’Europa orientale, e che fu frenato con l’uso della forza: i carri armati fecero irruzione tra le strade della capitale.

Kundera aveva descritto in questa sua opera prima un uomo, membro del partito comunista, che aveva scritto una cartolina contro il regime, senza neppure credere fino in fondo alle sue parole. Si trattava di uno scherzo, per l’appunto, ma di quegli scherzi fatali che hanno conseguenze determinanti sulla vita di una persona. Il racconto è, inoltre in prima persona, espediente narrativo che Kundera userà assai di rado, ma che conferiva alla vicenda una nota tra il drammatico e l’incredulo. Vi è una parte del romanzo esplicativa in tal senso, perché ci permette di capire il sentimento che alimentava lo scrittore in quegli anni, quando veniva additato come sovversivo da coloro che un attimo prima considerava suoi compagni e che l’avrebbero, invece, allontanato dal partito comunista a cui era iscritto proprio per quelle sue idee filodemocratiche.

In questa parte si legge, tra l’altro: “Quella strana convinzione che le vicende che mi capitano abbiano un senso ulteriore, significhino qualcosa; che la vita con le sue vicende racconti qualcosa di sé, ci sveli gradatamente qualche suo segreto, stia davanti a noi come un rebus il cui senso è necessario decifrare, e le vicende che viviamo siano la mitologia della nostra vita e in questa mitologia stia la chiave della verità, e del mistero. Si tratta forse di un inganno? È possibile, è addirittura probabile, ma non riesco a sbarazzarmi del bisogno di decifrare continuamente la mia vita“.

E mentre questa critica feroce al governo veniva messa al bando in patria, intanto Lo scherzo circolava in Francia con la prefazione di Louis Aragon, ottenendo grandi consensi e diffondendo il nome di uno degli scrittori più influenti della seconda metà del Novecento. Uno dei più coraggiosi e brillanti, cui la Cecoslovacchia revocò la cittadinanza nel ’79, in seguito alla pubblicazione del secondo romanzo, Il riso e l’oblio, nel quale si scagliava con maggiore acrimonia nei confronti del comunismo e della fine di un sogno cui aveva creduto insieme a tanti altri intellettuali. Un mondo in cui tutti fossero uguali, senza classi, senza una cattiva ripartizione delle ricchezze, senza prevaricazioni. Quel mondo, che doveva essere più giusto, si tramutava in un inferno in terra a causa del regime. 

Piuttosto che un apolide e un esiliato, Kundera si considerava cittadino del mondo e, da grande scrittore qual era e sarebbe diventato, chiese asilo alla sua patria letteraria, lì dove i suoi due primi romanzi stavano trovando lettori e lettrici accaniti, e occupavano le vetrine delle più grandi librerie della capitale. A Parigi ricominciò la sua storia e qui ottenne nel 1981 la cittadinanza. Dirà in quell’occasione che “la Francia è diventata la patria dei miei libri, e io ho seguito il cammino dei miei libri”. Solo nel 2019, la Cecoslovacchia vorrà riparare al torto fatto al suo più grande scrittore dopo Franz Kafka, scusandosi pubblicamente e richiamandolo nella sua patria natia, facendo circolare progressivamente i tanti libri che Kundera scrisse in Francia, con fatica, in una lingua che non conosceva e non parlava.

Il suo primo e più grande successo letterario, però, è certamente L’insostenibile leggerezza dell’essere, da cui fu tratto un film di enorme successo che portò sempre più lettori a confrontarsi con un libro divisivo, che voleva essere uno schiaffo in faccia alle acquitrinose opinioni del tempo sull’amore e sulle relazioni. Pochi scrittori, infatti, hanno parlato in termini così cinici, eppure tanto disarmanti, delle relazioni umane. Pochissimi hanno messo in crisi quei sistemi di valori tanto consolidati con lo stesso ardire di questo cieco parigino. Un uomo che, per giunta, non ha avuto relazioni tanto frenetiche come quelle che racconta, ma che è stato in grado, comunque, di scombussolare e sconcertare i bigotti, e di raccontare l’uomo moderno come raramente è stato fatto. Forse, solo Philip Roth ha usato un tale stoico e realistico cinismo, ma senza quel tocco delicato di Kundera, la simpatia e la compassione di chi sa che l’uomo è un povero attore che, parafrasando Shakespeare, si agita e si pavoneggia sul palcoscenico e di cui, poi, non si sa più nulla.

Adesso noi lettori moderni, che siamo cresciuti leggendo Gli amori ridicoli o La vita è altrove, che ci siamo misurati con i molteplici riferimenti letterari di questo grande scrittore, che abbiamo decodificato la sua scrittura tanto colta e forbita, che abbiamo avuto la fortuna di farci guidare dalla sua penna austera e incantata, come possiamo fare a meno di una guida del genere? Specie in un presente che ci appare sempre più oscuro, dove possiamo trovare uno scrittore che ci insegni ad accettare la nostra natura, comica quanto drammatica? Si tratta di quesiti destinati a rimanere senza risposta. Fortuna che nel libro L’immortalità, uno dei più belli, Kundera ci aiuta a lasciarlo andare. Perché, anche se è morto, di lui ci resterà sempre ciò che ha scritto. E questi grandi libri sono fortunatamente fatti per resistere alle prove del tempo e per ispirare le future generazioni.