Dalla Puglia alla Sicilia, le donne che lavorano sono la metà dell’Europa

Il confronto con i paesi dell’area euro e resto d’Italia mostra una grave disparità della condizione femminile al sud, fenomeno che il Pnrr difficilmente potrà invertire

Il Sud Italia fanalino di coda in Europa per quanto riguarda il lavoro femminile, con Puglia, Campania, Calabria e Sicilia nelle ultime quattro posizioni. È il dato che emerge dai rilevamenti di Eurostat nel 2022. In Sicilia, che è appunto all’ultimo posto nella Ue, lo scorso anno solo il 30,5% delle donne tra i 15 e i 64 anni lavorava (era il 29,1 nel 2021) a fronte del 64,8% medio dell’area euro. Appena più su la Campania (30,6%) e la Calabria (31,8%), che inseguono la Puglia, con l’occupazione femminile al 35,4%. L’area in cui si registra l’occupazione femminile più alta in Italia resta la provincia di Bolzano, con il 69% delle donne al lavoro, in aumento rispetto al 63,7% registrato nel 2021.

Un dato confermato anche dalla Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno: nel sud appena il 35,3% delle madri con figli in età prescolare lavora rispetto al 64% del centro-nord, anche a causa della carenza di posti disponibili negli asili nido, degli elevati costi di accesso al servizio, della scarsa diffusione del tempo pieno nelle scuole dell’infanzia. Complessivamente, a livello nazionale, il tasso di occupazione delle donne italiane con figli in età prescolare è particolarmente contenuto (53,9% contro il 60,5% delle madri con figli da 6 a 17 anni). Nel Mezzogiorno è al 40,8% per le mamme con figli in età scolare.

Si tratta di un problema strutturale che tira giù tutta l’economia nazionale e che ha ripercussioni sull’intero sistema-paese. Secondo l’ultima relazione annuale della Banca d’Italia, infatti, in base allo scenario delle più recenti proiezioni demografiche Istat, il calo del numero di attivi si dimezzerebbe se il tasso di partecipazione femminile al mondo del lavoro convergesse entro i prossimi dieci anni al livello medio dell’Unione europea registrato nel 2022. Su questi, impietosi dati di Eurostat è intervenuto Marco Sarracino, responsabile Sud e Coesione del Pd: “Un dato drammatico che dovrebbe spingere il governo, e in particolar modo il ministro Fitto, a una sterzata e a invertire la rotta sul Pnrr che, lo ricordiamo, è stato pensato e voluto con l’obiettivo principale di contrastare le diseguaglianze”.

È la stessa Svimez ad aver segnalato proprio nei giorni scorsi alcune criticità da correggere tempestivamente. Se il basso tasso di occupazione femminile al sud è causato anche dalla carenza di servizi per l’infanzia (nelle regioni meridionali la maternità riduce il tasso di occupazione delle donne di oltre un terzo), l’efficacia del Pnrr sulle differenze tra regioni a livello scolastico è tutta da dimostrare. «I criteri ministeriali di riparto delle risorse non hanno tenuto conto dell’eterogeneità interna alle singole regioni in termini di fabbisogni di investimenti», spiegano i ricercatori. Fallire l’obiettivo avrebbe conseguenze molto gravi su di una situazione già di per sé compromessa.

L’assenza di mense scolastiche, ad esempio, limita la possibilità di offrire il tempo pieno. Meno del 25% degli alunni meridionali della primaria frequenta scuole dotate di mensa (contro circa il 60% nel Centro-Nord); meno del 32% dei bambini nel caso delle scuole dell’infanzia (contro circa il 59% nel Centro-Nord). Le situazioni più deficitarie in Sicilia e Campania, con percentuali inferiori al 15%, mentre l’Emilia Romagna raggiunge il 66,8%, la Liguria il 69,6%.

Il Mezzogiorno soffre inoltre di gravi carenze nella prima infanzia: le regioni più distanti dai Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) dei posti autorizzati da raggiungere entro il 2027 (il 33% della popolazione di età compresa tra 3 e 36 mesi) sono Campania (6,5%), Sicilia (8,2%), Calabria (9%) e Molise (9,3%). Il progressivo disinvestimento dalla scuola ha interessato soprattutto il meridione: tra il 2008 e il 2020, la spesa per investimenti si è ridotta di oltre il 20% al Sud contro il 18% del Centro-Nord. Nel 2020 al sud risultano investimenti pubblici per studente pari a 185 euro, contro i 300 del centro-nord.

Venendo invece al Pnrr, le risorse disponibili sono pari a 11,28 miliardi. Sebbene “la quota sud” sia stata rispettata, «gli enti territoriali delle tre regioni più popolose (Campania, Sicilia e Puglia) hanno avuto accesso a risorse pro capite per infrastrutture scolastiche inferiori alla media italiana, nonostante le marcate carenze nelle dotazioni infrastrutturali», si legge nella relazione. «La mancata mappatura iniziale dei fabbisogni si è riflessa in un’allocazione delle risorse che ha penalizzato alcune realtà meridionali; per le risorse assegnate attraverso bandi, risultano differenze tra province non correlate al fabbisogno infrastrutturale».

Ma come correggere la rotta? Una soluzione, secondo Svimez, potrebbe essere quella di «superare i bandi competitivi, che penalizzano le realtà con minore capacità amministrativa, attraverso una identificazione ex ante degli interventi sulla base dei fabbisogni reali; la riprogrammazione delle risorse per la coesione che consenta di completare, dopo il 2026, il percorso di riduzione e superamento dei divari territoriali con le risorse europee del Fesr e con il Fondo per lo sviluppo e la coesione».

In alto e nel testo, alcune foto di Federico Patellani tratte dal Museo fotografia contemporanea