L’antidoto alla fuga delle notizie è il buon giornalismo

Gli alunni della media Sylos di Bitonto realizzano "Il giornale in classe" con Primo piano, sottolineando il ruolo di alcune figure femminili nella crescita della società

L’impiego del quotidiano nell’insegnamento scolastico è, ormai da decenni, una realtà pedagogica e didattica consolidata. All’operazione del ‘Quotidiano in classe’ è stata assegnata nel tempo un posto di rilievo. Soprattutto nella scuola media, dove la fascia d’età dei discenti non ha confini netti né con le ultime classi della scuola primaria né con le prime della secondaria superiore, tale attività può stimolare il dibattito su argomenti di attualità magari già approfonditi in aula; argomenti che toccano inevitabilmente il mondo vivo intorno a noi. E di cui il quotidiano è specchio e parte.

Al centro, in foto, il vicedirettore del Primo piano, Pier Girolamo Larovere, risponde alle domande degli studenti durante un incontro a scuola

Un tempo, le precedenti generazioni preferivano acquistare giornali per rimanere aggiornati su ciò che accadeva nel mondo intorno a loro – chi non ricorda con un pizzico di non troppo velata nostalgia le pile di quotidiani conservate nelle case dei genitori o dei nonni quando eravamo bambini? Recarsi in edicola ogni mattina per acquistare copie cartacee era una vera e propria abitudine, un rito laico. Tuttavia, con lo sviluppo di Internet e della tecnologia negli ultimi anni, il giornale cartaceo sembra perdere sempre più attrattività presso i giovani. Avendo sul cellulare tantissime fonti di informazione, per la Generazione Z la carta stampata è quasi superflua.

È comune pensare che i ragazzi di oggi abbiano perso interesse nel sapere cosa accade attorno a loro, ma non è affatto vero. Semplicemente hanno adottato un modo innovativo per informarsi. Vale a dire, attraverso i social media. Piattaforme come TikTok, Twitter e Instagram sono veicoli formidabili per rimanere aggiornati sulle ultime notizie. Sebbene il giornalismo tradizionale abbia indubbiamente accusato una forte crisi negli ultimi anni, non è affatto un mestiere in via d’estinzione. Anzi, se fatto bene, preciso, coscienzioso, esauriente svolge pur sempre, indipendentemente dall’evoluzione tecnologica, una funzione sociale di enorme importanza data la sua storica funzione di manutenzione civile.

Avvicinare gli studenti al mondo dell’informazione, linfa vitale per l’educazione civica, e prepararli ad una lettura più consapevole del quotidiano al fine di acquisire una visione sempre più chiara e approfondita della realtà, è stato l’obiettivo principale del progetto Il giornale in classe promosso da Primo Piano con le classi seconde della Scuola Media Statale “Carmine Sylos” di Bitonto per il tramite del vice direttore Pier Girolamo Larovere.

Fuoco prospettico del progetto, supportato con vivo interesse ed entusiasmo dalla dirigente scolastica prof.ssa Filomena Bruno, dalla referente prof.ssa Angela Santa Mattia, e incoraggiato dalle docenti Anna Rosa Ungaro, Annalisa Noviello, Grazia Marrone, Daniela Fioriello, Bettina Giorgio, Concetta Napoli, Annapaola Colavito, Rosangela Depalo, Teresa Ungaro, Antonia Saulle e Rossana Castellano, è stato il racconto inedito della storia del territorio bitontino e barese attraverso le figure di singoli donne le quali, attraverso un lungo cammino di percorsi, scelte, sconfitte e affermazioni negli ambiti più disparati hanno dedicato una parte della propria esistenza battendosi per la realizzazione di un ideale. Un’occasione per approfondire la conoscenza storica del nostro territorio andando oltre quell’approccio sociale e culturale orientato principalmente al maschile che, nel corso dei secoli, ha caratterizzato la nostra storia. E un viatico eccezionale per consolidare le proprie radici, per sedimentare le consapevolezze e fuoriuscire dalle narrazioni e dai luoghi comuni sulla donna quale “angelo del focolare” che ostacola la rivalutazione stessa delle donne nella nostra società.

Concretamente, le attività si sono articolate nel seguente modo. Un incontro a scuola di due ore per ciascuna classe, nel quale gli alunni sono stati introdotti al mondo dell’informazione e del giornalismo cartaceo e online, ed è stato illustrato metodologicamente come si legge e come si realizza un giornale nelle sue più diverse articolazioni (quotidiano, settimanale, mensile, periodico); distribuiti a ciascun alunno quotidiani di diverso orientamento editoriale, il vice direttore ha proposto un’attività consistente nella lettura, analisi, comprensione e sintesi scritta del pezzo giornalistico assegnato.

Durante il secondo incontro, sempre di due ore, presso la redazione del giornale, accompagnati dalle loro docenti e suddivisi in gruppi differenti in quanto a livello di competenze ma omogenei nel numero, gli studenti si sono cimentati in un’esperienza pratico-laboratoriale che gli ha visti protagonisti assoluti nel: simulare un lavoro redazionale sperimentando l’organizzazione del giornale nella classica ripartizione in cronaca nera, rosa, culturale, politica, sportiva, ecc.; intervistare personaggi di ambito locale, conversando con loro a partire dalle tematiche precedentemente affrontate in classe e producendo un elaborato dal taglio giornalistico che ha saputo coniugare la corretta comunicazione dei dati con la loro accurata rappresentazione.

Vi proponiamo, nel seguito, la cronaca delle varie attività svolte dagli studenti delle classi 2^A, 2^B, 2^C, 2^D, 2^E, 2^F, 2^G, 2^H, 2^I, 2^L i quali, con passione, impegno e partecipazione hanno sperimentato, come piccoli detective curiosi, un lavoro di squadra affascinante, di scoperta e di frontiera. Tutte le attività proposte hanno garantito una progressiva calibratura delle difficoltà rispetto all’obiettivo generale, alle esigenze specifiche e alla situazione della classe. Se è vero che i più giovani leggono poco allora è assolutamente necessario che i quotidiani (ri)entrino nelle scuole. E che i giornalisti stessi tornino tra i banchi per tenere il passo con la società fluida e dinamica dell’era internettiana. Il giornale, infondo, è diario della collettività. E sta alla scuola leggerlo e saperlo leggere.

CLASSE 2^D

Con la classe 2^D è stato intrapreso il seguente percorso tematico: le donne e la scienza. Mediante lo studio di due figure femminili (la fisica tedesca Lisa Meitner, la quale, emigrata negli Stati Uniti, collaborò al progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica; Grazia Elisa Acquafredda,prima donna bitontina laureata in discipline scientifiche, fu inviata come farmacista sul fronte per curare i soldati italiani feriti o mutilati durante la Prima guerra mondiale), gli studenti hanno conosciuto il coraggio e la determinazione di due scienziate le quali sfidarono, con coraggio e determinazione, lo stereotipo che presentava (e presenta) la ricerca scientifica come un’attività tipicamente maschile e, ciononostante, non si lasciarono dissuadere dall’intraprendere la carriera di biologa e medica.

 

In un primo incontro teorico a scuola è stata fatta un’introduzione generale al mondo del giornalismo cartaceo e online ed è stato illustrato metodologicamente come si legge ma anche come si realizza un giornale nelle sue più diverse articolazioni (quotidiano, settimanale, mensile, periodico). Un secondo incontro presso la redazione di Primo Piano, ha visto gli alunni, accompagnati dalla prof.ssa Anna T. Ungaro, impegnarsi nello svolgimento di attività laboratoriali mirate che hanno consentito l’acquisizione, l’incremento e il recupero di specifiche abilità linguistiche. In particolare, gli alunni hanno simulato un lavoro redazionale sperimentando l’organizzazione in settori di competenza attraverso la suddivisione classica dei servizi giornalistici (cronaca nera, rosa, culturale, politica, sportiva).

CLASSE 2^G

Insieme agli studenti della classe 2^G e alla prof.ssa Grazia Marrone si è focalizzata l’attenzione sul binomio donne e istruzione. Ripercorrendo la vicenda di Sonja Kovalevskaja, prima donna in Europa ad aver ottenuto (ovviamente con lode) un dottorato in matematica nonché la prima ad ottenere la libera docenza presso l’università di Stoccolma, e di Anna De Renzio, prima bitontina laureata in materie umanistiche presso l’università di Padova, gli alunni hanno compreso quanto lo studio sia stato un buon investimento per le donne, le quali hanno così potuto riscattarsi sia in termini di formazione che di accesso in posti chiave della società.

Rispetto al passato, oggi sono sempre di più le italiane diplomate e laureate. Eppure continuano a essere più svantaggiate sia nell’accesso al mondo del lavoro e a livello salariale sia più semplicemente nella scelta del percorso di studi. Modelli e stereotipi sul ruolo della donna nella società sono duri a morire. Da qui si evince l’importanza dell’educazione: è a partire dalla scuola che bisogna contrastare gli stereotipi di genere, puntando a un’istruzione il più possibile inclusiva, che metta sullo stesso piano uomini e donne. Una nobile missione per sconfiggere le discriminazioni e i retaggi culturali del passato.

In un incontro iniziale incentrato sull’analisi del quotidiano non solo come contenitore di informazioni e di idee ma anche come oggetto materiale con le sue concrete modalità di produzione, ci si è posti come obiettivo avvicinare gli studenti al mondo dell’informazione e prepararli ad una lettura più consapevole delle notizie e dei gerghi settoriali in cui esse si dipanano. Nell’incontro successivo, giunti in redazione, il luogo fisico dove si svolge il lavoro giornalistico, gli alunni hanno svolto un’esercitazione concreta e operativa incentrata su lettura e comprensione di un testo giornalistico e sua rielaborazione mediante la sintesi, l’ampliamento, la riscrittura, il confronto e l’integrazione fra articoli di diverso argomento.

CLASSE 2^L

In occasione di due stimolanti incontri, gli studenti della classe 2^I, coordinati dalla prof.ssa Daniela Fioriello, hanno non solo appreso alcune importanti nozioni sul mondo del giornalismo cartaceo e on line, ma hanno anche approfondito un argomento molto singolare, ovvero il legame fra le donne e la medicina. Dapprima sono stati guidati alla scoperta della controversa vicenda di una nota virologa italiana, Ilaria Capua, costretta a lasciare l’Italia per poter proseguire le sue ricerche sulle infezioni virali degli animali che possono essere trasmesse agli uomini.

Successivamente, gli alunni hanno perfezionato e ampliato il tema trattato con il vice direttore di Primo Piano Pier Girolamo Larovere scrivendo un testo giornalistico dal taglio storico-culturale. L’articolo che segue è l’esito di un lavoro di ricerca interessante e ben documentato sulla condizione della donna e i suoi rapporti con la medicina nel Medioevo.

Fu proprio il Medioevo il periodo storico in cui le donne, da sempre considerate inferiori agli uomini, cominciarono a vedere uno spiraglio di luce nella loro buia condizione, potendo studiare ed esercitare la professione di medico. Già in età antica, a Salerno fu inaugurata una Scuola Medica rinomata in tutta Europa per aver ospitato, fin dalla sua apertura, molte studiose donne: a quei tempi, infatti, le donne erano ammesse unicamente a ruoli che prevedevano la nascita e la cura dei bambini, dunque ostetrica e puericultrice; tramandavano, inoltre, le loro conoscenze di madre in figlia o all’interno di cerchie ristrette, ma non potevano accedere ad insegnamenti accademici, né tanto meno potevano avere licenze per l’esercizio della professione.

Presso la Scuola Medica Salernitana, invece, le donne non solo erano inserite all’interno dell’organizzazione medica, ma erano anche tenute in grande considerazione dai medici e dalla comunità. Studiose, autrici di saggi su vari aspetti della scienza medica, dalle descrizioni anatomiche a quelle sulle malattie più diffuse, fino alle diete alimentari, furono anche attive nella pratica medica e chirurgica. Tra le più importanti personalità della Scuola Medica Salernitana ci furono Trotula de Ruggiero, che si dedicò soprattutto allo studio delle malattie e dei disturbi delle donne, ma anche una bitontina Margerita de Ruga.

 

Vissuta nel XIV secolo, quest’ultima svolse la professione di medico chirurgo, come si evince da un elenco di 24 chirurghe presenti nel Regno di Napoli fra XIII e XIV secolo. Margherita ottenne prima il Diploma dottorale in Filosofia all’Università di Salerno, poi nel 1422 le fu riconosciuta ufficialmente dal Collegio Medico salernitano la licenza ad esercitare la professione medica. Secondo le disposizioni dell’imperatore Federico II, la licenza si otteneva al termine di un percorso di cinque anni di studio ed un anno di pratica. L’attestato ufficiale, rilasciato dalla maggiore Istituzione europea, era un riconoscimento professionale importante, pertanto la notizia della professionalità di Margherita si diffuse in tutta l’Italia meridionale ed a Bitonto accorsero pazienti con diverse patologie che richiedevano le cure della nostra illustre concittadina.

CLASSE 2^F

In occasione della Giornata della Memoria, si è ritenuto quanto mai opportuno dedicare un focus tematico alla tragedia del genocidio (Olocausto) del popolo ebraico. Chi altri meglio di Liliana Segre, internata ad Aushwitz e sopravvissuta alla barbarie dei campi di sterminio nazisti, potrebbe rappresentare una testimonianza più autentica e soprattutto vivente dell’immenso dolore e sofferenza patita da quei “sommersi e salvati” di cui, tra i primi, iniziò a parlare Primo Levi? Ascoltando la narrazione in prima persona dell’attuale senatrice a vita, culminata nella sua ultima testimonianza pubblica a Rondine, piccolo borgo in provincia di Arezzo, davanti a centinaia di studenti italiani e stranieri il 9 ottobre del 2020, gli studenti della classe 2^F hanno compreso quanto la memoria, se capace di suscitare una partecipazione autentica, sentita, profonda, sia capace di creare un legame di valori tra le generazioni. E che un paese senza memoria è cieco, ingiusto, preda di pregiudizi.

Nell’incontro in redazione, logica conseguenza di quello svolto precedentemente in classe, il vice direttore Pier Girolamo Larovere ha proposto agli studenti l’analisi di un articolo scritto dal nostro redattore Davide Sette che ricorda l’esperienza indimenticabile dell’incontro a Roma con Edith Bruck, tra le più limpide e convincenti testimoni del genocidio degli ebrei, la quale in libri, poesie e conversazioni pubbliche ha raccontato di quando i nazifascisti la trascinarono via con la forza insieme a tutta sua la famiglia. L’aspetto più significativo dell’esercizio laboratoriale è consistito proprio nello smontaggio del pezzo nelle sue componenti essenziali (lead, body, and) che mettono a fuoco il rapporto tra il fatto/notizia e il contesto di ricezione dello stesso.

Lavorare nella fabbrica del cioccolato? Roba da leccarsi i baffi!

La pasticcera Elisa Acquafredda svela i segreti dell’arte dolciaria e il duro lavoro dietro le quinte, fra tradizione e innovazione.

Coordinati dalla prof.ssa Annalisa Noviello, gli studenti della 2^E hanno affrontato il tema della ristorazione, con riferimento esplicito a professioniste specializzate nella realizzazione di prodotti di pasticceria e di caffè. Segnatamente, la figure femminili suggerite dal vice direttore Pier Girolamo Larovere sono state: la botanica Barbara McClintock la quale, con le sue ricerche sui chicchi di mais, rivoluzionò l’impianto della genetica e della biologia novecentesche osservandone al microscopio i cromosomi;e la bitontina Teresa Valerio, donna di modeste ambizioni culturali ma risoluta, la quale inaugurò a Bitonto la stagione della ristorazione aprendo una bottega di caffè nei pressi della Chiesa di San Giorgio, specializzandosi come dolciaia nel catering matrimoniale.

Visto che da sempre questo settore rappresenta uno dei punti di forza a Bitonto, poiché offre una vasta gamma di prelibatezze artigianali adatte ad ogni palato, agli alunni è stata data l’opportunità di interfacciarsi con una “addetta ai lavori” che da molti anni delizia i clienti soddisfacendone appieno il palato. Parliamo di Elisa Acquafredda, titolare dell’omonima pasticceria situata presso via Ammiraglio Vacca. Nell’intervista avvenuta presso la redazione di Primo Piano, l’ospite ha raccontato l’ampio ventaglio e le varie sfaccettature che caratterizzano la tradizione pasticcera di famiglia.

Come e perché è diventata pasticciera?

È una passione che coltivo e inseguo fin da piccola, provenendo da una famiglia per tradizione dedita alla ristorazione e ai piaceri della gola. Fu mio nonno, per primo, ad inaugurare il bar Isola bella. L’attività è passata poi in eredità a mio padre. Fu sua l’idea di rinnovare il bar in pasticceria, vedendo crescere l’attività e, soprattutto, conquistando a piccoli passi la fiducia di tanti clienti. L’esperienza di imbrattare le mani con pasta da zucchero e panna, col tempo è diventata un lavoro stabile, non prima di aver conseguito il diploma presso la ragioneria. Oltre alla conoscenza di nuove tecniche di lavorazione e all’uso di ingredienti diversi, ho acquisito le basi fondamentali del mestiere, arrivando a gestire in autonomia il laboratorio grazie anche alla grande fiducia che negli anni mi è stata data.

Quale episodio in particolare l’ha convinta a cimentarsi in questa professione?

Avere fin da subito le mani in pasta, mentre aiutavo mio padre a realizzare dolci e manicaretti la domenica, è stata una fortuna perché mi ha permesso di mettere in pratica ciò che imparavo, all’inizio solo guardando. Da allora, la mia curiosità non si è mai fermata così come il desiderio di cimentarmi in nuovi sfide che mi permettessero di ampliare il mio bagaglio di conoscenze.

Ma quando, esattamente, la famiglia Acquafredda apre i battenti in città?

La pasticceria è stata fondata nel 1976, precisamente il 29 settembre, da mio padre Michele Acquafredda, il quale, nel 2006, ha lasciato la gestione del laboratorio a me e mio fratello. La sua brillante capacità gli permetteva di integrare la produzione di dolci tradizionali, come i mostaccioli della nonna, a una corretta combinazione dei sapori che coinvolgeva tutti i sensi e che era in grado di evocare un’esplosione di emozioni a ogni morso.

Quanta passione e dedizione occorrono per fare un buon dolce?

La preparazione di un dolce non richiede solo passione ma anche, e soprattutto, tempo da dedicarvi. Il mio settore è un mondo dolce e, al tempo stesso, passatemi il termine, una dolce prigione. Nel senso che si lavora h24, soprattutto in occasione delle festività per venire incontro alle richieste sempre più esigenti dei clienti.

Qual è il suo dolce preferito?

È un paradosso ma non ho un dolce preferito, con il mio lavoro assaggio sempre tutto. Ogni giorno mi piace assaggiare tanti cioccolatini, soprattutto quelli alla gianduia e al pistacchio. Adesso, per l’appunto, la nostra attività si sta orientando molto sulla produzione di cioccolateria per creare dolcetti che siano come dei bocconcini ancora più sfiziosi.

E quale le piace di più preparare?

Il tiramisù, perché semplice ma ricco e gustoso. Prediligo anche i mostaccioli lievitati col vino cotto, la farina, lo zucchero, la cannella e i chiodi di Garofano.

Qual è la torta più gigante che l’è stata commissionata?

Quella per il mio matrimonio (ride). Mio padre vi pose sulla base un castello reale circondato da dieci torri. Sebbene gli sia costato diverse ore di lavoro, la sua gioia nel vedermi felice in quel giorno così speciale fu davvero immensa. Trattandosi di un’operazione molto complessa e articolata, ci avvalemmo della collaborazione di altri pasticceri cittadini per la creazione della torta.

È brava anche in cucina?

Credo che la preparazione di piatti salati sia oggettivamente più facile e semplice da mangiare. Nel preparare un dolce c’è spazio solo per lo zucchero, il sale serve molto poco, e la mia passione è appunto preparare esclusivamente dolcezze. Modestamente mi ritengo una discreta cuoca e devo dire che anche mio marito se la cava abbastanza.

Elisa Acquafredda dialoga con Pier Girolamo Larovere e gli studenti della 2^ E

Oggi che c’è molta cucina in tv e sui social, come mira a promuovere il suo lavoro? Tra gli influencer che spopolano sulla rete ha qualche punto di riferimento?

Negli ultimi anni il boom di programmi di cucina e cake designer in tv ha portato sicuramente alla diffusione di più informazione e una maggiore conoscenza degli ingredienti, delle materie prime, della loro lavorazione e delle particolari tecniche di decorazione. Il lato negativo di tutto questo è che il cliente si è abituato ad una realtà televisiva che, ovviamente, ha tempistiche diverse e mostra una perfezione che, nella realtà, necessita di preparazioni più lunghe che non vengono trasmesse in diretta. Nemmeno sui social. Questa disponibilità immediata di novità rischia inoltre, a mio avviso, di eliminare l’effetto sorpresa. Credo che oggi stupire un cliente sia diventato un po’ più difficile che nel passato. La persona che ammiro di più nell’ambito del mio mestiere è sicuramente Iginio Massari, alla cui tecnica mi sono ispirata per preparare una crostata a forma di cuore a San Valentino.

Frequenta corsi di aggiornamento?

Per chi insegue la propria passione, il lavoro non è difficile. Ma farlo bene è arduo, ci vogliono preparazione, studio, applicazione, virtù indispensabili per un professionista attento alla qualità di ogni singolo ingrediente. Il nostro mestiere si è evoluto tantissimo e non basta più rimanere chiusi in un laboratorio se si vuole crescere professionalmente e raggiungere alti livelli. Il segreto è Migliorarsi continuamente per evitare così il rischio di fossilizzarsi rimanendo indietro mentre il mondo della pasticceria cambia e si evolve.

Quale consiglio darebbe ai ragazzi di oggi?

Direi la stessa cosa per chi volesse diventare agricoltore o imbianchino: avere voglia di imparare il più possibile dai propri maestri e acquisire una conoscenza approfondita del mestiere. Allo stesso tempo, però, dovreste curare anche altri aspetti della propria formazione divenuti altrettanto importanti, come la conoscenza dell’inglese e dell’imprenditoria. Puntare alla crescita e al miglioramento continui, per evitare così il rischio di fossilizzarsi rimanendo indietro mentre il mondo della pasticceria cambia e si evolve.

La parola che più rappresenta la pasticceria Acquafredda è equilibrio. Nelle creazioni di Elisa e di suo fratello si possono rintracciare, infatti, il grande rispetto per la tradizione artigiana e la continua ricerca dell’eccellenza. Il segreto è puntare sull’equilibrio tra tradizione e ricerca, mettersi in gioco per reinterpretare e reinterpretarsi, andando anche incontro a nuove esigenze ed abitudini. Perché la tradizione non va abbandonata se parliamo di preparazione, di tecniche e di ricette classiche. E bisogna certo innovare su altri aspetti, come la presentazione, l’immagine e la misura.

Ripartire dalla musica per educarci a una società migliore

Il recupero della tradizione bandistica pugliese, nella testimonianza del maestro Vito Vittorio Desantis dell’Associazione Davide Delle Cese.

C’è stato un tempo in cui le donne in Italia non avevano alcuna capacità giuridica. Con la Grande Guerra cominciarono a uscire dal tradizionale ruolo dell’accudimento famigliare poiché, con gli uomini al fronte, cominciarono a prenderne il posto nelle attività lavorative pubbliche e private, scoprendo in sé stesse capacità e risorse umane di autonomia che erano state sempre soffocate o rimosse. Ma il fascismo, giunto al potere, disperse subito questi venti di cambiamento nella feroce radicalizzazione della sottomissione della donna: madre per vocazione obbediente e serviente.

La donna “angelo del focolare” e “regina della casa” che vive per l’altro. Accudente per sua “essenza” in casa. Durante il regime mussoliniano le donne furono completamente penalizzate ed escluse dalla vita pubblica, figurarsi dalla politica ritenuta, allora come in parte anche oggi, ‘affare da uomini’. L’idea che una donna potesse avere un ruolo pubblico e politico – nel senso di interesse per la sociale nella sua interezza – non era cosa facile da digerire.

In quel contesto emerse, determinata ma umile, la figura di Ines Delle Cese. Bitontina di nascita, figlia di uno dei più grandi direttori della banda di Bitonto, una volta conseguita la maturità classica, insegnò per alcuni anni prima di dedicarsi interamente all’impegno sociale. Prendendo in cura i figli di altre madri, allargò la sfera della famiglia alla società intera. E lo fece con il coraggio di una donna desiderosa di venire allo scoperto senza vivere all’ombra di un uomo.

Vista la notevole importanza che Davide Delle Cese, padre di Ines, conosciuto per almeno un ventennio a Bitonto in quanto direttore della banda cittadina, tra le più rinomate in Puglia, ha avuto in occasioni come le feste patronali e le processioni, si è pensato con la classe 2^B di interpellare il maestro bitontino Vito Vittorio Desantis, referente dell’Associazione musicale Davide Delle Cese, che nel nome reca con sé l’eredità  della figura femminile che è stata approfondita in classe con gli alunni. Da diversi anni impegnato a tutelare le bande municipali specializzate in marce funebri e a promuoverle in giro per il mondo, Desantis è stato nostro ospite in redazione intervistato dagli alunni coordinati dalla prof.ssa Concetta Napoli.

Vito Vittorio Desantis, referente dell’Associazione Musicale Davide Delle Cese, intervistato dagli studenti di 2^ B

Parliamo di una ricchezza, a molti ancora sconosciuta, che la Puglia può vantare e che si compone di un cospicuo e prezioso numero di marce funebri, firmate da talentuosi autori locali. Nomi fra cui spicca, accanto a Valente, Pancaldi, Rizzolo, Delle Cese, Abbate, quello del bitontino Michele Carelli. Un patrimonio musicale che affonda le sue radici nella seconda metà dell’Ottocento, quando nacquero le prime composizioni che sostituirono le lamenationes eseguite dal coro dei cantores. Di qui, la crescita del ruolo della banda municipale, anche a livello sociale, nelle città pugliesi. Fra cui la stessa Bitonto che, alla fine del diciannovesimo secolo, vantava una fitta produzione di marce funebri composte proprio da Carelli.

Com’è noto, Ines delle Cese assunse il ruolo di segretaria dei fasci femminili a Bitonto. Ma fu realmente animata dal desiderio di aiutare il prossimo o si trattò solo di un’abile trovata propagandistica?

A dire il vero suo padre Davide, originario di Pontecorvo, fu un convinto sostenitore della causa monarchica e della dinastia Savoia che, a sua volta, sostenne e permise al regime mussoliniano di rimanere al potere in Italia per più di un ventennio. Ho avuto occasione di studiare più approfonditamente la biografia di Ines durante la stesura del mio lavoro di tesi di laurea, e posso dunque confermarvi che il suo impegno e la sua generosità in campo sociale e pedagogico erano sinceri, sentiti e gratuiti. I Fasci Femminili furono davvero un formidabile strumento di assistenza e beneficenza, soprattutto per i bambini indigenti. In un’epoca come gli anni Trenta in cui l’opinione delle donne non contava niente, men che meno in politica, Ines intuì che assumersi la responsabilità di un incarico così prestigioso era la via giusta per sgomitare in un mondo di uomini e aiutare i figli della sua terra.

A quando risale la tradizionale sfilata delle bande musicali per la città?

Non credo si possa individuare con certezza una data precisa d’inizio, anche se alcuni documenti d’archivio testimoniano l’esistenza di una banda comunale già alla fine dell’Ottocento. A differenza delle odierne bande gestite da privati, in epoca fascista la banda possedeva un’organizzazione pubblica con a capo un maestro, un suo vice e un capo banda stipendiati dal comune. I loro allievi, in genere studenti provenienti dalle scuole, seguivano con passione le lezioni tenute da prestigiosi maestri i quali formavano figure professionali da inserire nel mondo del lavoro musicale, una volta acquisita dimestichezza con lo strumento musicale.

Che tipo di repertorio veniva suonato e intonato?

Esso è riconoscibile in quanto contraddistinto da un andamento cadenzato, pensato per accompagnare il passo di coloro che trasportano le sacre immagini. Quando non c’erano la radio né la tv, le bande vivevano il loro periodo d’oro, in quanto unico canale privilegiato per far arrivare la musica di maestri come, poniamo, Verdi o Puccini nelle case della gente. Bisogna dire che quando giungeva un pulmino con a bordo musicisti della banda di Surbo o un importante tenore della banda di Conversano o Squinzano a Bitonto era come se il circo avesse piantato il suo tendone: la voce del loro arrivo si spargeva rapidamente in città e folle di persone si riversavano per le strade o sulle piazze per ascoltarne i repertori. Oggi che è possibile ascoltare qualsiasi tempo di musica, basta cliccare direttamente una playlist su Spotify e il gioco è fatto.

In quali occasioni pubbliche vi esibite?

Solitamente in concomitanza con le feste patronali, svolgendo una funzione di accompagnamento delle effigi sacre fatte sfilare in processione. Ma anche in occasione di concerti di musica classica.

Come mai sono proprio le bande a chiudere il corteo della processione?

Se ci fate caso, le processioni vengono aperte da un piccolo gruppo di quattro, cinque componenti, percussioni e ottavino, detto anche fischietto, il cui scopo originale era quello di cadenzare il passo processionale; in origine costui eseguiva inni religiosi    di lode al santo ponendosi in coda alla banda.

Quando ha scoperto la sua passione per la banda?

Credo sia stata la banda a scoprire me (ride). Ne sa qualcosa mia madre, la quale mi racconta che, ancora piccolo nel passeggino, insistevo a voler osservare la banda che attraversava le strade, e se lei ribadiva che bisognava tornare a casa, per protesta piangevo e la obbligavo a rimanere in attesa che quel sublime spettacolo terminasse. Vai a pensare che, all’età di sei anni, comincio a studiare pianoforte prendendo lezioni dal mitico maestro Emanuele Modugno. Fremevo di poter imparare a suonare il trombone. “Vittorio”, mi disse una volta, “hai le braccia troppo piccole”, alludendo al peso troppo gravoso dello strumento. Ma non mi arresi. E, in seconda media, un giorno convinsi mio padre a mandarmi a lezione dal maestro Petta ad Andria, dove realizzai il mio sogno imparando a suonare il trombone.

Desantis figlio d’arte e non solo. Visto che la passione per le bande risale a suo nonno…

In effetti anche lui fu un bandista sotto il maestro Vacca, a sua volta  allievo ed erede di Davide delle Cese. Penso di essere nato in un ambiente famigliare in cui la musica era consuetudine. Mio nonno amava suonare la fisarmonica, il clarinetto e il sassofono, suo fratello suonava la batteria, un altro ancora suonava la tromba. A differenze dei suoi fratelli, mio nonno fu obbligato ad iscriversi nella banda cittadina in quanto unica fonte di reddito per aiutare sua mamma a far campare una famiglia numerosa. Seppe fare di necessità virtù. Divenuto sindaco negli anni Sessanta, un giorno prese in mano il suo vecchio clarinetto e lo spezzò. Non perché si fosse allontanato dalla sua antica passione, ma perché quello strumento gli ricordava una fase della sua vita difficile e infelice.

Oltre a Bitonto e alla Puglia, in quali altri contesti si esibisce?

A dire la verità, un po’ in tutto il mondo. A Vienna, presso l’Istituto italiano  di cultura, abbiamo eseguito un concerto in omaggio ad alcuni compositori bitontini, mentre nel 2019 abbiamo esportato a Valladolid, nell’iglesia del convento de los Agustinos Filipinos, due delle quattordici marce del bitontino Michele Carelli nell’ambito del progetto ‘Plenilunio de Primavera’ in occasione della Settimana Santa.Il concerto, che si è avvalso del coro polifonico Le Voci delle Confraternite di Vico del Gargano, ha voluto mettere in luce quattro poli artistici pugliesi riscontrabili nelle città di Taranto, Ruvo, Molfetta e Bitonto, città che più di altre vantano una tradizione consolidata di autori cimentatisi nel genere delle marce funebri. Con la nostra Street Band, prima della pandemia abbiamo fatto un tour in Turchia, in Giordania, in Qatar, a Londra, in Francia. Recentemente siamo  stati a Macerata, a Roma, a Termoli, e abbiamo anche suonato assieme ad Albano.

Qual è il suo strumento preferito?

Il trombone, come ho già detto.

E quello che rientra meno nelle sue corde?

Mi è successo tante volte di suonare musiche che non sono di mio gradimento, ma da professionista ho imparato a dare sempre il massimo, perciò l’impegno a porsi sempre in ascolto della musica è rimasto lo stesso.

Che ne pensa delle tendenze musicali del momento?

Mi domando se tanti musicisti o sedicenti tali che oggi vanno per la maggiore posseggano strumenti culturali adeguati e una sufficiente dose di predisposizione all’ascolto per riuscire a distinguere ciò che è buona musica da ciò che è solo rumore assordante. Mi ritengo fortunato ad aver lavorato con i New Trolls, Mariella Nava, Bobby Solo.  

Ritiene che il direttore di banda sia ancora un mestiere allettante per i giovani?

La nascita dei mezzi di riproduzione e di diffusione di massa, sotto la spinta del nascente mercato della musica industriale, ha indotto il pubblico a preferire, in termini musicali, un prodotto semplificato che ripropone in maniera ripetitiva, e in forma spesso elementare, un linguaggio logoro e resistente, scaturito da una estrema riduzione formale e da una pressoché identica successione tonale. Con la nostra associazione puntiamo a rivalutare il significato reale dell’educare alla musica. Il docente-educatore dev’essere un intermediario che inculca e lascia agli alunni un senso di ciò che ha insegnato. Deve, inoltre, offrire delle opportunità e indirizzarli verso una strada che li proietti, nel futuro, con un mestiere, una professione aperta alla crescita culturale e sociale. La banda non è soltanto suonare insieme ma anche imparare ad avere rispetto dei ruoli e saper socializzare con tutti i componenti dell’orchestra.

Quali emozioni si provano una volta saliti sul palco e accordato lo strumento?

Quando ci si prepara per un concerto di musica classica la concentrazione è fondamentale. Una parte del virtuosismo è saper a memoria ogni nota scritta. Hai una sola occasione per suonare, non puoi ripetere, bisogna andare avanti. E poi entra in gioco la parte più importante: la chiarezza e la bellezza tecnico-musicale che dovrebbe emozionare e intrattenere il pubblico. Prima di entrare in scena l’emozione è grandissima, le mani sono fredde anche se le metti sopra un calorifero, è difficile stare fermi, ma bisognerebbe, e io cerco di muovermi il meno possibile. L’ambientazione alle volte è buia, così evitiamo distrazioni se qualcuno si muove. L’interpretazione che diamo ai brani è impressa nella mente, perciò il buio aiuta a focalizzare un punto morto per esprimere tutta la ricchezza che si trova nella testa in quel momento.

Il musicista riesce a provare una certa felicità mentre suona? Molti artisti come molti attori drammatici, non sono mai felici, rincorrono la felicità senza raggiungerla. Per il musicista è lo stesso, esiste questa malinconia esistenziale?

Non sempre, dipende anche dall’ispirazione del momento. Ci sono giorni dove tutto funziona alla grande, altri giorni dove non abbiamo molta voglia di suonare allora non sempre si trova la felicità. Si chiama lo spirito dannato dell’artista, esiste! Il perfezionista è sempre alla ricerca della perfezione, ma non penso che non ci sia felicità, è della felicità che abbiamo vissuto e vogliamo impegnarci per ritrovarla o aumentarla. Il musicista è sollecitato giornalmente con emozioni forti, è dotato di grande sensibilità e perciò agli occhi di chi vive meno intensamente queste emozioni, possiamo sembrare un po’ eccessivi.

Il mondo della musica classica è più difficile di altri ambiti? È più maschilista? La donna riesce a dedicarsi a famiglia e lavoro?

Questo non posso dirlo, perché non ho termini di paragone. Maschilista non direi anche perché Martha Argerich, Maria Joao Pires, Klara Haskil e tante altre pianiste che sono rimaste nella storia non sarebbero d’accordo. Oggi ci sono molte possibilità e soluzioni per riuscire a mantenere le proprie passioni ed essere una madre eccezionale.

Cos’è, dunque, la musica per il maestro Desantis?

Questa domanda è così semplice, ma anche tanto impegnativa. È molto difficile rispondere in poche parole a una domanda così. La musica secondo me è uno strumento della vita per dare gioia, emozioni, adrenalina, speranza. Penso che ognuno di noi ascolti musica in qualsiasi momento della giornata anche da una semplice pubblicità. I suoni risvegliano i nostri sensi e catturano la nostra attenzione, è incredibile quanto sia presente la musica nella nostra giornata, anche nella giornata di coloro che dicono di non amara la musica. Da un punto di vista personale la musica per me è la vita. È la mia famiglia, i miei figli. Tutta l’emozione e l’espressività che ho costruito fino ad ora nella musica fa parte di Vito Vittorio uomo e Vito Vittorio padre. Ci sono momenti emozionanti con la mia famiglia, che mi fanno venire in mente dei brani di grandi compositori a seconda dell’esperienza che stiamo vivendo in quel momento. Questo è per me la musica.

Progetti per il futuro?

Da anni lavoriamo per il recupero e la valorizzazione di incunaboli, cinquecentine e manoscritti musicali, tra cui spiccano quelli firmati dal maestro Carelli. Un materiale librario, raro e prezioso, in parte custodito presso la biblioteca comunale “E. Rogadeo”, in parte acquistato recentemente dalla fondazione De Palo-Ungaro. La nostra ambizione è accendere i riflettori e sensibilizzare gli addetti ai lavori sull’importanza di questa ricchezza di cui Bitonto è depositaria. Altrimenti, se non si riuscirà a intercettare fondi da destinare al recupero di tali manoscritti preziosi questi ultimi, versando in stato di grave degrado, rischiano di sparire per sempre. A momento, sto collaborando con Marco Ferradini, autore del celebre brano pop anni Ottanta Teorema.

Pier Girolamo Larovere (a sinistra) con il maestro Vito Vittorio Desantis (al centro), il maestro Alessandro Patruno (a sinistra) e un gruppo di ragazzi

La musica ha sempre avuto un ruolo importante nel tessuto sociale, ma oggi è scarsamente vissuta, partecipata. Non solo quella classica ma in generale la produzione musicale in tutte le sue espressioni. Questo perché la sua diffusione, pur così onnipresente, è spesso vissuta in modo passivo. E proprio perché la musica è ascolto ed esecuzione, Niccolò e Angelo, due giovanissimi allievi da poco entrati nell’associazione “D. Delle Cese”, hanno eseguito dal vivo, rispettivamente con clarinetto e sax, i brani L’orso e il miele e My Way del grande Frank Sinatra.

Il maestro Alessandro Patruno, docente di propedeutica musicale e percussioni presso diverse scuole di Monza e Brianza, ha invece distribuito a ciascuno studente uno strumento a percussione idiofono (triangoli, xilofoni). Producendo diverse vibrazioni secondo tempi e ritmi dettati dal docente e combinandole tra loro, gli alunni hanno dato vita ad un’armonia di suoni che rispecchia il movimento di pulsazione dell’anima. Perché questo, infondo, significa sentirsi parte di una banda: rispettare l’altro nella sua diversità sentirsi liberi di poter comunicare un’emozione o qualsiasi altra cosa si voglia dire.

 

“Non sperate di liberarvi troppo presto dei libri!”

Fra tradizione e innovazione, la libraia Gianna Lomangino racconta vent’anni di esperienza tra gli scaffali e i libri nella sua Hamelin.

Cosa ci suggerisce il libro? Perché senza libri ci sentiamo più poveri? Perché facciamo fatica ad immaginare una vita senza libri? Perché “il libro”, afferma la scrittrice Irene Vallejo, “è un passaporto senza scadenza”. La sua vitalità e la sua resistenza hanno sfidato nei secoli le intemperie della natura, gli oltraggi del caso, le intemperanze degli uomini. Come all’uomo, anche ai libri lungo il viaggio capita di fare incontri piacevoli.

Come quello con Inge Feltrinelli, moglie di Giangiacomo fondatore dell’omonima casa editrice milanese. Innamorata del concetto di radicamento, la svedese “amata dagli dei” si fece promotrice, a partire dagli anni Settanta, di una nuova idea di libreria: non più uno spazio dove si vendono solo dei libri, ma un luogo più vicino ai lettori i quali possono sfogliare i volumi esposti, sceglierli direttamente, selezionarli tra gli scaffali. Un posto, insomma, dove possano sentirsi a loro agio a casa. Lavorò, inoltre, costantemente per dare spazio ad autori italiani affermati sul panorama letterario nazionale e internazionale selezionando, al tempo stesso, i migliori esempi di letteratura straniera da pubblicare in Italia.

Dalla saggistica al romanzo, la letteratura ininterrottamente si arricchisce di libri che parlano di libri e biblioteche. La biblioteca luogo dell’anima, delle sue pene, delle sue cure; luogo di incontro autentico e privilegiato anzitutto con sé stessi; luogo di avventure reali e immaginarie di lettori; luogo di catastrofi e redenzioni che hanno ispirato tanta giallistica e filmografia. Ma anche luogo per alleviare le sofferenze dei malati oncologici. Soprattutto tra i più piccoli. Fu di Silvia Barile, docente e animatrice culturale barese, l’idea di aprire una biblioteca nei reparti pediatrici degli ospedali; in questi luoghi tristi e grigi, la terapia farmacologica più efficace è la lettura che permette di viaggiare con le parole e far vibrare l’immaginazione.

Attraverso la vicenda della Feltrinelli e della Barile, figure femminili analizzate con gli studenti della classe 2^I assieme alle docenti prof.sse Rosangela Depalo e Angela Drimaco, il vice direttore di Primo Piano Pier Girolamo Larovere ha introdotto gli alunni in un mondo fatto di colori, parole e carta che profuma d’inchiostro: quello dei libri e delle biblioteche, “granai pubblici” che resistono all’“inverno dello spirito”, come sentenziava la scrittrice Marguerite Yourcenar.

Gli alunni della 2^I si confrontano con la titolare della Libreria Hamelin, Gianna Lomangino

Come funziona una libreria? Qual è il rapporto tra i librai e gli autori/illustratori? Quanto è importante il lavoro di libraio/libraia nella vendita di un libro?
Quali sono i libri più venduti? Qual è il tema o la fascia di età?
A partire da queste domande fondamentali ha preso avvio il confronto con  Gianna Lomangino, titolare della Libreria Hamelin.

Aperta il 28 agosto del 2005 e specializzata nel settore “ragazzi”, essa propone un’offerta libraria che, dai primi mesi di vita spazia fino agli adolescenti o “giovani adulti” (young adult). Un progetto “plurale” sorto in sinergia con la scuola di fumetto Hamelin Carton Studio, diretta dal responsabile Domenico Sicolo; quest’ultimo, fin dall’inizio, ha saputo brillantemente intrecciare testi di letteratura con i fumetti, genere di cui è grande appassionato. Nell’intervista di seguito riportata, Lomangino ha risposto alle domande e ai dubbi degli alunni interessati a conoscere un po’ più da vicino la professione del libraio.

Quando ha iniziato ad appassionarsi alla lettura?

Da bambina “subivo” le letture ad alta voce di mia sorella maggiore la quale di sera, prima di addormentarmi, mi introduceva al magico e suggestivo mondo dei classici. È stato, tuttavia, durante gli anni delle medie che ho maturato una passione e un interesse sempre più crescente verso i libri e la lettura. Conseguita una laurea umanistica in filosofia e dopo una breve esperienza lavorava presso una piccola casa editrice ho deciso, insieme ai miei soci, di ampliare il mio interesse per l’editoria aprendo una libreria specializzata in letteratura per l’infanzia e l’adolescenza.

Come le è venuto in mente di aprire una libreria?

Era il 2004, allora lavoravo in una casa editrice con mia sorella e mio cognato, ma l’idea era germogliata tempo addietro. Lavorando come educatrice con i bambini, dopo un’attenta e ponderata valutazione, ho deciso di avviare un mio progetto dandogli una precisa identità nel settore della letteratura per l’infanzia e del fumetto, un mercato all’epoca di nicchia e ancora poco radicato a Bitonto. Credo che ciò abbia contribuito al felice andamento della libreria, testimoniato dal crescente e sincero apprezzamento da parte del territorio.

Perché ha deciso di dedicarsi proprio ai bambini?

Nutro un profondo rispetto per un mondo, quello dell’infanzia, che a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta ha vissuto un vero e proprio boom con l’avvento di case editrici specializzate in questa fascia d’età e l’affermazione di scrittori come Gianni Rodari, Roberto Piumini, Bianca Pizzorno e altri via via avvicendatisi. I “signori bambini”, come gli chiama scherzosamente Daniel Pennac, hanno già un mondo interiore e una personalità definita, sono quindi perfettamente in grado di maneggiare la complessità. Noi adulti dovremmo sforzarci un po’ di più di avere fiducia in loro.

Come si è evoluta, negli anni, la proposta editoriale e la figura del lettore?

Indubbiamente si è registrato un incremento del mercato online che, però, non ha riguardato la fascia d’età alla quale punta Hamelin. Questo perché determinati libri vanno visti da vicino, toccati con mano, e i genitori si rivolgono spesso a noi chiedendoci suggerimenti sui libri da acquistare per i loro figli. Immaginate che soddisfazione accompagnare le nuove generazioni di lettori nelle loro scelte. Di recente ho visto crescere nei lettori un notevole interesse per il genere trasversale dell’albo illustrato: un libro, cioè, che alterna disegni e illustrazioni a brevi testi che raccontano storie.

Quali sono le sfide quotidiane più frequenti che affronta lavorando in libreria?

Purtroppo non riesco a leggere, se non nei ritagli di tempo, e ad essere completamente aggiornata su tutto ciò che esce, dovendo dedicare molto tempo ad altre mansioni: incontrare gli agenti delle case editrici locali, prenotare le novità e predisporre nuovi lanci editoriali, suggerire e consigliare ai lettori quale libri acquistare, raggiungere una volta ogni due settimane i fornitori per rendere i libri invenduti. Nel momento in cui affianco il lettore nella scelta di un libro mi confronto con un enorme catalogo di proposte sugli argomenti più disparati, cercando di offrire un servizio in linea con i suoi desiderata e che, alle volte, superi le attese presentandogli qualcosa del tutto nuovo, inaspettato.

Che differenze ci sono tra una piccola libreria e una libreria di catena?

La distinzione è molto semplice. Diciamo che l’eccellenza della libreria di catena è sbilanciata verso stimoli sensoriali: tutto dipende dall’atmosfera del punto di vendita, dalle vetrine, dall’illuminazione, dai colori, e così via. L’eccellenza della piccola libreria, invece, passa dal libraio e dalla sua capacità di accoglienza e vicinanza.  Inoltre, mentre il cliente della libreria di catena, statisticamente, si rivela particolarmente sensibile a tutti quegli elementi architettonici e di layout che creano una determinata atmosfera, quello di una libreria indipendente è incline piuttosto a coltivare una relazione personale con il proprio libraio di fiducia, del quale apprezza la professionalità e la gentilezza.

Qual è il genere letterario nel quale si sente più a suo agio?

Più che un solo genere parlerei di tipologie ampie e variegate: dalla fiaba si è evoluto per tappe il fantasy, dal romanzo sono derivate storie appassionanti che intrecciano vicende di fatti e personaggi veri o verosimili, dal poliziesco i gialli o noir e così via. I lettori cercano elementi che raccontino una storia che dia loro la possibilità di provare una vasta gamma di emozioni e stati d’animo diversi. Storie che non devono necessariamente essere semplici ma capaci di scuotere e stimolare certe domande nel lettore. Qualità dei contenuti e fattura del libro stesso possono formare buoni lettori fidelizzandoli nel tempo.

Come è riuscita a rendere Hamelin una vetrina accattivante per tanti piccoli lettori?

Attraverso incontri con autori, editori e illustratori permettiamo ai bambini di maneggiare fin da subito il libro, oggetto misterioso e affascinante, leggendo insieme a loro, permettendogli di frequentare e vivere la libreria come uno spazio aperto in cui la lettura diviene un’abitudine quotidiana, piacevole e spontanea. Anche le scuole rappresentano un fecondo interlocutore per far conoscere agli studenti gli autori e le novità librarie del momento.

Che importanza rivestono le strategie di comunicazione social nell’ambito della distribuzione libraria?

Il desiderio di socializzare e interagire si unisce a un altro aspetto centrale del lettore-consumatore: la voglia di essere protagonista di esperienze. È proprio assecondando questi due desiderata che la comunicazione social può divenire per una libreria un valido canale di acquisizione e, soprattutto, di mantenimento delle relazioni con i clienti.
Mi avvalgo di una pagina Facebook e Instagram sia per tenere informati i clienti delle iniziative e delle news in libreria ma anche solo per scambiarci impressioni e curiosità sull’ultimo autore letto.

Cos’altro contribuisce a rendere Hamelin un luogo speciale tutto da scoprire?

La passione e la competenza, oltre alle grandi capacità empatiche sono qualità immancabili per chi crede che la qualità della relazione lettore-libro-libraio non sia un atto prevalentemente commerciale dove conta solo la velocità del servizio, bensì un rapporto che si costruisce e si mantiene nel tempo mettendo sempre al centro libri di qualità. Qui da noi non troverete solo consigli di lettura e proposte di percorsi bibliografici ma letture capaci di formare uomini e donne del futuro. Con l’auspicio che diventino lettori consapevoli e affamati di conoscenza e cittadini del futuro migliori.

Ci sarebbero tante altre cose ed episodi da raccontare…ma, tempo scaduto! Gli studenti si affrettano a salutare Gianna ringraziandola per la sua disponibilità ad averli immersi in una folle e meravigliosa avventura che ha arricchito la propria esperienza del mondo, rivelandosi un prezioso alleato. Leggere, non solo parole ma anche immagini, moltiplica infatti le possibilità dell’esistenza, ci può trasformare, o trasportare in altri luoghi, situazioni, vite. Sapersi mettere nei panni dell’altro, immaginarsi in uno scenario diverso, non è soltanto un allenamento empatico, ma anche – secondo Lomangino – un’attitudine sociale preziosa.

I libri e la parola scritta, in generale, costituiscono la più alta forma di libertà presente nella nostra vita. Sono, infatti, le prime cose che vengono controllate, censurate e bloccate quando un paese passa dalla democrazia alla dittatura. La smaterializzazione del libro, tanto promossa e auspicata oggi, è ben lontana dall’affermarsi nel mercato, e l’e-book non sta uccidendo il libro. Lo hanno capito gli studenti, affrettandosi ad acquistare un libro prima di andar via. Chi per fare o farsi un regalo, chi alla ricerca di un’ispirazione, chi di una risposta, chi ancora di una domanda rimasta inevasa.

Il ricamo è un filo sottile che ci lega alla tradizione

Tra aneddoti e omaggio delle virtù femminili, la ricamatrice Antonia Murgolo svela i segreti di un’arte atemporale che resiste alle mode del momento.

Un’arte antica, quella del ricamo. Popolare, in quanto praticata da persone di umile provenienza. Anonima poiché chi la cercava rischiava di perdersi nel labirinto di strade dei centri antichi e, alla fine, la trovava dietro vetrine seminascoste da tende. Sottovalutata per lungo tempo come un’arte di second’ordine. Il ricamo è un po’ tutto questo. Per secoli, le donne vi si sono cimentate, ritagliandosi un proprio spazio d’azione in un mondo riservato ai soli uomini.

La ricamatrice Antonia Murgolo spiega il suo lavoro agli studenti della 2^H

Conoscere dal vivo i segreti e le tecniche del ricamo con l’ago e il filo è stato l’obiettivo che ci siamo posti con la classe 2^H. Dopo un focus su alcune figure di bitontine distintesi in questo mestiere artigianale (Filomena Ferrante, Serafina Sicolo, Annarosa Tarantino), guidati dalla prof.ssa Rosanna Castellano, gli alunni hanno intervistato, presso la redazione di Primo Piano, la signora Antonia Murgolo, ricamatrice e restauratrice bitontina. Quest’ultima ha dischiuso loro i segreti di un’arte antichissima che è anzitutto artigianato, cioè produzione, lavoro. Ma è anche strumento di costruzione sociale per riannodare i fili di una comunità. Recuperando ad essa quel senso della lentezza propria dell’abilità con le mani, le quali non a caso sono dette “arti”.

Quando inizia ad appassionarsi al ricamo?

La passione per il ricamo con l’ago e il filo risale a mia nonna, a cui devo gran parte della mia abilità. Col tempo ho sviluppato da sola molte tecniche, fino a quando non sono diventata un’insegnante. Mi sono, dunque, specializzata nel ricamo d’oro e nel restauro dei paramenti sacri superando con successo l’impegnativa prova d’accesso alla Corporazione delle arti, associazione nazionale delle insegnanti di arti di filo. Sono alla continua ricerca di persone alle quali non manchi la motivazione nel cimentarsi in quello che è un mestiere a tutti gli effetti.

Ha iniziato a muovere i primi passi nella bottega di famiglia o in una sartoria?

Sin dalla più tenera età adoravo ricamare e tessere. Avrò avuto tre anni quando, per la prima volta, ho ricevuto in mano un ago da mia madre.

Coltivava altre ambizioni oltre a questa?

Terminati gli studi, mettere su famiglia era quasi un passaggio obbligato, secondo l’educazione di allora. Nutrivo, tuttavia, il desiderio di reinventarmi facendo un lavoro oggi a rischio di estinzione. Non avrei mai scommesso all’epoca che questa passione sarebbe diventata il mio attuale lavoro.

Con quale strumento si trova meglio nel ricamare?

Non saprei dire con esattezza, dipende dall’utilizzo: si va dai telai, ad aghi particolari per tendere il filo, a dei cuscini per lavorare il tombolo fino alle navette per fare il chiacchierino.  Tutti strumenti che ho imparato ad affinare col tempo.

C’è un manufatto di cui va particolarmente fiera?

A dire il vero, mi occupo anche del restauro di parametri sacri. Fino ad alcuni anni fa trasformavo antichi corredi in tende o cuscini. Di recente mi è giunta dalla Sicilia una casula da prete un po’ mal ridotta, temevo fosse irrecuperabile. Mentre tentavo di aggiustarla in laboratorio è arrivata una scoperta del tutto inaspettata: sotto dei tessuti ormai logorati dal tempo ho rinvenuto un disegno ricamato del Cinquecento riportato alla luce in tutto il suo splendore. È stata un’immensa gioia.

Come si svolge nel concreto la giornata di una ricamatrice?

Inizio a lavorare molto presto la mattina e tiro dritto fino alle tre di notte. Mentre continuo a ingegnarmi sulla prossima ideazione, sono ancora in piena attività. Mi riposo solo per brevi pause tra un ricamo e l’altro.

Quanto tempo le serve per realizzare un manufatto?

Dipende da una serie di fattori: il disegno, il tipo di tessuto, e così via. Non lo si può stabilire con esattezza senza che prima ci si metta all’opera. Quando ciò che fai procura piacere e amore non ti stanchi mai.

Se è d’accordo, andiamo un po’ a ritroso nel tempo: a quando risale a Bitonto quest’arte?

Certo! Tracce di antichità trasudano dai manufatti che molto spesso ricevo in consegna per il loro restauro. È nel Medioevo che l’arte del ricamo vive la sua fase aurea, quando nei conventi le suore, donne di estrazione sociale nobile, realizzavano diversi tipi di manufatti. In seguito, si è preso a tramandare di generazione in generazione tali segreti professionali arrivando anche alle fasce più umili della popolazione.

Paramenti sacri ricamati da Antonia Murgolo

Com’è cambiata, nel corso del tempo, la commissione? Si è registrato un incremento?

Poiché ormai sempre meno hanno voglia e tempo da dedicare a quest’arte, ho iniziato a investire maggiormente nel settore del restauro di manufatti di buon valore. Collaboro sia con istituzioni pubbliche che con privati, per i quali svolgo mansioni di ricamo di alta moda. Nel mio lavoro ogni giorno, purtroppo, constato che la gente acquista sempre più cose di poco valore ma per questo a buon mercato. In un’epoca in cui tutto è tecnologico e meccanico, all’arte non viene più riconosciuto in sé alcun valore, ma l’opera dell’artista diventa tale solo se rientra nella logica del mercato. Perché non ripartire dall’arte per rivalutare il tempo, la qualità, e la dedizione personale?

Nel corso della sua carriera è riuscita a tramandare questa sua passione a delle allieve?

È successo proprio recentemente. Sono stata contattata dal sindaco di Forenza, graziosa cittadina in provincia di Potenza, il quale mi ha affidato un convento da tempo in stato di abbandono ma ancora agibile e in ottime condizioni. Per farne che? Vi starete giustamente chiedendo. Ebbene, in quel luogo sarà presto inaugurata una scuola di ricamo e di restauro che ospiterà corsi per studenti provenienti da istituti tecnico-artistici ma aperta a tutti coloro che mostreranno interesse.

Ha mai pensato di poter lavorare in altri paesi per affinare nuove tecniche?

Sono rimasta particolarmente colpita dalla tecnica giapponese che impone di lavorare soltanto con una seta non ritorta. Vale a dire, letteralmente con la bava del baco da seta anziché con un filo comune. È un’esperienza davvero singolare.

Antonia Murgolo a lavoro col filo e con l’ago nella sua scuola

Che rapporto ha con i suoi clienti? Le arrivano richieste anche fuori da Bitonto?

Nel corso degli anni ho saputo fidelizzare una rete sempre più ampia di clienti affezionati ai miei prodotti. Gli acquirenti ai quali sono più affezionata provengono da ogni parte d’Italia, in particolare Firenze e Venezia, dalla Sicilia e dalla Sardegna.

Cosa, nel suo lavoro, è più facile e cosa più difficile?

Più si è consapevoli del proprio valore, della propria bravura e abilità, più il lavoro è facile.

Può contare anche sull’aiuto apprendisti di sesso maschile?

Non vedo perché no! (sorride). Nella mia bottega, alterno il ricamo al restauro di prodotti di artigianato artistico. Da noi si impara anche l’arte orafa. Tra le altre maestranze di cui usufruiamo, figurano restauratori di statue, disegnatori di foglie d’oro sulle basi dei Santi. Insieme al centro di formazione professionale Enaip, sto lottando affinché alla figura della ricamatrice sia riconosciuta una dignità professionale al pari di tanti altri mestieri. Ci vorrà molto lavoro da fare e la strada sarà lunga. Ma terremo duro.

Utilizza i social network per promuovere il suo lavoro?

Ho all’attivo su facebook tre pagine: una personale, una del mio laboratorio Operatrici di storie e un’altra, Aristana,sulla quale pubblico tutti i miei lavori. I miei followers mi chiedono commissioni su misura.

Quanto, secondo lei, quest’arte si è evoluta nel corso del tempo?

Le tecniche artigianali sono rimaste sempre le stesse, semmai è cambiata la natura e la funzione del manufatto, di volta in volta adibito a tappezzerie, abiti, scarpe, e così via. Sono tradizioni su cui poggiano le nostre radici. Dobbiamo adoperarci affinché questo filo non si spezzi mai. Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è un’arte che si esprima con la sensibilità moderna mantenendo il suo antico linguaggio.

Che consiglio darebbe a un giovane che volesse imparare quest’arte?

Non è mio intento trasmettere alle future generazioni nozioni o abilità sull’arte de ricamo. Vi inviterei a non confondere un disegno o delle immagini scaricate e modificate da Internet a vostro piacimento per creatività/originalità. Maneggiare, ad esempio, un pennello con cui realizzare dei dipinti, oltre alla soddisfazione che deriva dall’atto in sé, è creatività pura, conferisce maggiore consapevolezza di sé e del lavoro che si compie. Il ricamo può renderci autocoscienti.

Ha in cantiere progetti per il futuro?

Sto collaborando con docenti di storia dell’arte che insegnano a Venezia e sono in contatto anche con artisti spagnoli. Nei corsi di ricamo che propongo ai miei allievi approfondisco molteplici tecniche, tra cui il ricamo d’oro, il tombolo, il chiacchierino, il filet a modano e sfilati di vario tipo.

Al termine dell’incontro, gli alunni della 2H hanno ringraziato Antonia Murgolo per avergli fatto comprendere, anzitutto, che qualsiasi arte necessita di tempo, dedizione ed esercizio – “non si nasce imparati”, si dice a Napoli. Per diventare abili in qualsiasi cosa occorre seguire un lungo e faticoso percorso di apprendimento. In ogni disciplina l’esperienza fa la differenza.

Che il ricamo non è un hobby com’è sempre stato considerato ma una vera e propria forma d’arte. La cui lunga e complessa storia si intreccia con quella delle donne “operatrici di storie”. Così recita anche il titolo del libro (kurumuni 2022) in cui, tra una galleria di immagini e riferimenti autobiografici, la stessa Murgolo parla di attività prettamente femminili – oltre al ricamo, la cucina – attraverso le quali si è forgiata l’identità e la personalità di “donne meravigliose che con le loro mani tessono e ricamano”, scrive Dacia Maraini, prefatrice del volume.

E, infine, che occorre rivalutare la figura del maestro che, al pari di un artigiano nella propria bottega, accompagni pian piano il discepolo nell’apprendimento paziente di tutti i segreti e i rudimenti necessari per esprimere al meglio sé stesso.

La bellezza artistica salverà il mondo!

La dott.ssa Cecilia Minenna spiega perché la Galleria Nazionale della Puglia Devanna è un patrimonio da preservare e tutelare per la crescita della comunità.

Fin dall’antichità, il termine arte non era riservato solo alle belle arti, ma anche alle cosiddette arti minori o meccaniche (arte muraria, culinaria, della lavorazione delle stoffe, dei metalli, delle pietre), nelle quali tutti gli organi di senso venivano coinvolti. In questa prospettiva, arte era anzitutto artigianato, lavoro, intervento sulla materia, e coincideva con il significato letterale del termine greco téchne (da cui “tecnica”). L’opera d’arte è, in primo luogo, un’opera manuale, un manufatto; elemento essenziale dell’artista è l’abilità con le mani, non a caso sono dette a loro volta “arti”.

La dott.ssa Cecilia Minenna illustra il percorso artistico della Galleria Devanna agli alunni di 2^ C

Alcuni esseri umani, però, sentono l’impulso di porre la loro abilità manuale non al servizio dei bisogni concreti della società, ma di una diversa indagine e celebrazione dell’essere, In questo modo, la loro tecnica cessa di essere artigianato e diviene propriamente arte. Quest’ultima nasce proprio dall’inspiegato desiderio di alcuni di narrare l’impatto tra la forza e la bellezza del mondo e la propria intimità. Una narrazione sognante, a sua volta produttrice di forza e di bellezza che affonda primariamente le radici nelle emozioni e nel sentimento.

Coordinati dalla prof.ssa Teresa Ungaro,gli studenti della classe 2^C si sono occupati del fenomeno audio-visivo delle “belle arti”. Una volta approfondito lo studio di due figure femminili (Margherita Sarfatti, amante di Benito Mussolini, la quale tentò di correggere il cattivo gusto dell’estetica fascista assumendo il ruolo di “musa del Duce”; Rosaria Devanna, artefice della omonima Galleria d’arte che custodisce la collezione appartenuta a lei e a suo fratello Mino), accompagnati dal vice direttore Pier Girolamo Larovere gli alunni si sono recati in visita presso la Galleria Devanna, al fine di conoscere un vero e proprio fiore all’occhiello della città di Bitonto.

Ad accoglierci alla soglia d’ingresso dell’antico palazzo in via Gaindonato Rogadeo, la dott.ssa Cecilia Minenna, la quale ci ha condotti in un percorso turistico alla scoperta di uno sterminato giacimento culturale e artistico che si inscrive nell’elenco di quei conservatori artistici e dinamici del sapere che sono i musei. Al centro della conversazione, la famosa collezione d’arte, frutto di una straordinaria combinazione di cause e concause, alla quale è stato Girolamo a dare inizio ma che ha visto coinvolte tante donne di questa famiglia. A cominciare da Maria Tumolo – la mamma di Girolamo – che stravedeva per il primogenito unitamente a suo padre Vito e ad alcuni zii di Milano, che tante volte lo aiutarono e finanziarono le sue spedizioni per l’Italia.

Rosaria Devanna sul terrazzo del palazzo in piazza Cattedrale a Bitonto, dove viveva col fratello Mino

Un progetto nato a tavolino, voluto dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Puglia, in particolare dal suo funzionario, Ugo Soragni, direttore regionale, che s’impegna con coraggio e tenacia, vincendo le resistenze dello stato per i costi di mantenimento e gestione. Un progetto a cui ha dato un impulso decisivo anche Nicola Pice, il sindaco di Bitonto del tempo, interfacciandosi con gli enti e le autorità competenti e destinando a sede della collezione Palazzo Sylos Calò, nel rispetto della volontà degli stessi donatori.

Nasce così la Galleria nazionale della Puglia “Girolamo e Rosaria Devanna”. Il suo lancio viene affidato a Claudio Strinati, storico dell’arte nonché soprintendente del polo museale romano, che nel 2005 seleziona quarantacinque opere della collezione e le espone a Palazzo Venezia a Roma. Una collezione impressionante, per numero e qualità delle opere. Un patrimonio di oltre 400 dipinti, oltre a vasellame, monili, anfore, sculture, ceramiche, statue e libri. Un autentico tesoro che si deve alla passione per l’arte del prof. Girolamo Devanna. Ma il ruolo di sua sorella Rosaria non è stato secondario.

Come e quando nasce in Rosaria la passione per l’arte?

Già bambino Girolamo colleziona pietre non sempre in buono stato di la conservazione provenienti dalla Cattedrale di Bitonto. Fin da subito contagia con la sua passione per l’arte tutta la famiglia e, in particolare, sua sorella Rosaria: la porta con sé in alcuni dei suoi viaggi per visitare mostre, le chiede pareri su quadri da vendere o acquistare, la impegna nell’accoglienza di critici e di gente d’arte che ospita a casa, “costringendola” ai fornelli sino a notte. Ex docente presso le scuole media a Ruvo, Rosaria è la sua consigliera ma anche la vera custode del patrimonio, su cui vigila con zelo e amore.

Rosaria era fortemente convinta che una vita votata al Bello fosse la sola degna di essere vissuta. In che senso?

Dopo la natura e l’essere umano, l’arte è la terza fonte della bellezza. Ma non è la bellezza, non coincide con essa, perché vi sono oggetti artistici che non sono belli (persino nei più visitati musei) e oggetti belli che non sono opere d’arte (per esempio, le onde del mare). L’arte è fonte di bellezza solo nella misura in cui si pone al servizio della natura, intesa non solo come ambiente (natura naturata) ma anche come sorgività dell’essere (natura naturans) che fa sì che dal nulla vi sia qualcosa e che questo qualcosa sia ordinato e, quindi, bello.

Secondo quali criteri di selezione i fratelli Devanna sceglievano un’opera d’arte?

L’allestimento della Galleria segue un andamento cronologico ma tiene in conto anche delle principali scuole pittoriche delle varie epoche storiche. Frequentando aste o mercati d’antiquario, i loro occhi intuivano subito la presenza di un’artista o di un’opera ai quali non era stata attribuita la patente di dignità artistica. Tra i quadri esposti in Galleria, quello che ritrae il Sacrificio di Isacco era tra i preferiti di Rosaria perché proprio quel dipinto si trovava a capoletto quando era ancora appeso sulla parete di casa Devanna.

Cos’è l’arte? Risponde a un bisogno concreto o visivo?

Se ci guardiamo intorno rimaniamo spesso assuefatti da tanta bruttezza che, per esempio, deturpa il nostro paesaggio naturale. L’arte può aiutarci ad apprezzare il Bello in tutte le sue sfaccettature. Frequentare musei, pinacoteche o gallerie d’arte ci rende inconsapevolmente bisognosi di bellezza.

Il primo piano di Palazzo Sylos Calò, sede della Galleria Nazionale della Puglia

La collezione “monstre” ospita una straordinaria raccolta di opere (229 dipinti e 108 disegni) e abbraccia un arco temporale di otto secoli dal Trecento ai giorni nostri, assecondando il gusto estetico dei donatori. La presenza massiccia di artisti stranieri contraddistingue questo museo da altri. Il palazzo Sylos Calò, un tempo proprietà del comune di Bitonto, è stato in seguito donato allo Stato, eccetto alcuni suoi locali rimasti in mano a privati. La donazione non è ancora terminata. Ci sono ancora decine e decine di opere nel palazzo di piazza Cattedrale che attendono di seguire la sorte delle altre alla Galleria nazionale.

Il museo si articola in un percorso ad u ed è suddiviso per sale tematiche. Ogni stanza è piena di dipinti, specie ritratti. Saliamo le scale giungendo al primo piano. E da qui inizia il nostro viaggio alla scoperta dei tesori della Galleria.

SALA DEL CINQUECENTO: PIETRO NEGRONI, DETTO “LO ZINGARELLO”

Realizzato con la tecnica dei colori ad olio, la Natività di Negroni inaugura questa sala. Solitamente il pittore dipinge con maggior luce alcuni personaggi per metterli in risalto; qui, invece, l’attenzione è tutta rivolta a Gesù Bambino e a San Giuseppe il quale, con sguardo paterno, tiene in mano un velo intento a coprire il piccolo Gesù. Evidentemente, Negroni è in linea con la pittura cinquecentesca che rivalutò la figura di Giuseppe, rimasta un po’ marginale nei secoli precedenti. Poiché i colori ad olio si asciugavano molto lentamente, l’autore poté disporre del cosiddetto “ripensamento”. Resta ignota la volontà dell’autore: intendeva davvero aggiungere quel velo? Ovvero si trattava di un espediente per coprire mediante il velo gli occhi e la bocca di un volto che si intravede appena ma non è mai stato identificato?

SALA DEL SEICENTO: ARTEMISIA GENTILESCHI

In un’epoca in cui non c’erano artiste donne e l’arte era una tecnica solo maschile, Artemisa Gentileschi si ispirò allo stile pittorico di Caravaggio dipingendo una Maddalena: tra le poche donne ad assistere alla crocifissione di Gesù, secondo alcuni vangeli divenne la prima testimone oculare e la prima annunciatrice dell’avvenuta resurrezione del Cristo. Nel corso della sua attività, Artemisia lavorò anche a Firenze, Roma, Napoli e a Londra.

PARETE DELLA NATURA MORTA

Si affermò come un genere pittorico a sé stante nel corso del Seicento grazie all’opera di Caravaggio, il quale dipinse la celebre Canestra di frutta; il cardinale di Milano Federico Borromeo ne rimase così ammaliato da acquistarla per la sua collezione privata nella Pinacoteca Ambrosiana. Tutto ciò che faceva parte della natura (frutti, ortaggi, fiori, utensili da cucina, ecc.) ed era sistemato in posa rientrava nella cosiddetta “natura in posa” – gli inglesi parlano di stile live. Il naturalismo caravaggesco, com’è noto, è contrassegnato proprio dalla sua stretta aderenza alla realtà circostante.

MERCURIO ADDORMENTA ARGO DI SALVATOR ROSA

La grandezza di questo artista napoletano molto eclettico il quale, oltre a dipingere, scriveva poesie e le declamava in pubblico, risiede nel dipingere le cose per come si manifestano nella realtà. Nel Seicento il paesaggio non era ancora un genere pittorico a sé stante – lo diventerà nel secolo successivo. Gli artisti, dunque, per riuscire a vendere le proprie opere inserivano figure umane anche di piccola statura. Rosa dipingeva il paesaggio come appariva ai suoi occhi: la sua “orrida bellezza” si ravvisa anche nel tronco marcio e spezzato.

SALA DEL SETTECENTO

Con l’artista molfettese Corrado Giaquinto, l’arte vive un momento di svolta: le figure monumentali e corpose del Seicento lascino il posto a figure più mosse che si librano leggere nell’aria. Giaquinto realizzò un bozzetto preparatorio per il soffitto della Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme con al centro i Demoni la Gloria Celeste con la Croce trionfante e San Michele Arcangelo che precipita nell’abisso. La particolarità del dipinto sta nell’impressione visiva di un soggetto che oltrepassa i limiti delle mura dell’edificio, secondo la nota tecnica del trompe-l’oeil che consiste, appunto, nel dipingere un soggetto (finestre, porte, atri, ecc.) in modo abbastanza realistico da far sparire alla vista la parete su cui è dipinto.

SALA DELL’OTTOCENTO

Il Palazzo Sylos Calò, sede la Galleria Nazionale della Puglia, fu innalzato nel Cinquecento e rappresenta ancora oggi l’esempio più monumentale di edilizia civile d’età rinascimentale in terra di Bari. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento su una parte del soffitto della sala otto-novecentesca furono dipinti alcuni soggetti: in un tondo è raffigurata un’allegoria della storia che reca sulla lastra la parola storia; due occhielli ospitano, rispettivamente, un paesaggio campestre e uno marittimo, insieme ai ritratti di Napoli e una vista della diga di Molfetta – la presenza di quest’ultima si spiega in ragione della provenienza molfettese di uno dei due coniugi che abitarono il Palazzo nel primo Novecento.

Dal XIX secolo cambia la committenza, da sacra a laica: non più cardinali o religiosi ma esponenti di famiglie nobili. Viene meno il concetto di arte accademica: l’artista non segue più il disegno sottostante; adesso il dipinto prende forma con il colore attraverso la luce. A metà Ottocento gli impressionisti dipingono ciò che colgono attraverso i propri sensi.

Giuseppe De Nittis, barlettano, tra i fondatori della cosiddetta Scuola di Messina, fu influenzato dall’arte impressionista. Come si evince nel celebre ritratto di Edgar Degas eseguito con la tecnica del pastello, a polvere e non a matita.

SALA DEL NOVECENTO

È il secolo delle Avanguardie e dell’Astrattismo. Adesso il soggetto non è più quello ritratto nel dipinto bensì l’osservatore che posa il suo occhio sulla tela. L’artista Mario Schifano esegue, negli anni Sessanta, dei dipinti monocromi ribellandosi all’arte accademica. Siamo negli anni Sessanta, periodo in cui oltre alla televisione (ravvisabile nei bordi arrotondati del dipinto) viene fatto uso massiccio della pubblicità e le strade erano invase da manifesti realizzati con carta da pacco (la stessa utilizzata nel dipinto). Qual è il suo significato? Probabilmente, servendosi di una vernice molto spessa, è come se Schifano volesse coprire il manifesto pubblicitario lasciando aperti alcuni spiragli, permettendo all’osservatore di intravedere ciò che sta al di là attraverso la sua immaginazione.

Lo specifico dell’arte consiste nel rapportarsi alla bellezza naturale in modo originale e creativo, trasfigurandola. L’arte – secondo Minenna – non è solo semplice raffigurazione della realtà, è piuttosto trasfigurazione, laddove il prefisso tras-, dal latino trans, indica movimento, passaggio, dinamicità. Quale movimento? Quello che la realtà percepita provoca nell’animo dell’artista, portandolo a sentire e a vedere ciò che la coscienza ordinaria non sente e non vede.

Questo processo avviene, anzitutto, nell’interiorità dell’artista per l’emozione vissuta e poi, grazie al talento tecnico, viene riprodotto all’esterno, su tela o marmo. In altri termini, alla realtà fisica del mondo naturale e umana si aggiunge l’emozione dell’artista (positiva o negativa, gioiosa o dolorosa, passionale o intellettuale, calda o fredda che sia). Senza sensazione e sentimento non può esserci vera arte e nemmeno senza quella tecnica capace di trasmettere quel sentire primordiale.

 

Moltiplicare il carisma di Gesù in ogni angolo della Terra

Il progetto pedagogico-didattico di Santa Lucia Filippini a favore dei giovani rivive nelle parole di suor Gabriella Quadrelli, direttrice dell’Istituto Sacro Cuore di Bitonto.

Mai chiuse in convento ma sempre per le strade, nelle scuole, negli ospedali. Consapevoli di stare svolgendo una missione nell’osservanza del principio evangelico della carità verso il prossimo. Consapevoli del gravoso compito di gestione delle strutture che accoglievano poveri, orfani e bisognosi. Fin dal Medioevo le suore rappresentano un faro non solo assistenziale ma anche nel tessuto socio-culturale di Bitonto. Sono loro le protagoniste femminili oggetto dell’approfondimento svolto con la classe 2^A.

Suor Gabriella Quadrelli, direttrice dell’Istituto Sacro Cuore, accoglie all’ingresso della scuola gli studenti della 2^ A

Nel percorso svolto con gli alunni, si è partiti ricostruendo la vicenda di alcune sante eroine dalla cui fede incrollabile è dipesa la vita di tanti esseri umani. Così suor Enrichetta Alfieri che, durante la Resistenza, assistette i prigionieri nelle carceri nazifasciste e protesse tanti ebrei evitando loro la tragedia dei campi di sterminio. Ugualmente la francese suor Teresa Grandet la quale, assieme alle consorelle ‘Figlie della Carità’, diresse l’ospedale civile di Bitonto distinguendosi per amore e impegno a favore degli ammalati. E, analogamente, suor Dionisia Saracino, emigrata oltre Atlantico negli Stati Uniti per dedicarsi all’ascolto e al disbrigo di mansioni umili come lavare e rammendare i vestiti, porgendo anche il suo orecchio a ragazzi tossicodipendenti e ai carcerati dei quartieri ghetto di New York.

Andando avanti lungo questo tragitto, gli studenti sono approdati all’Istituto Sacro Cuore, l’unico a Bitonto attualmente visitabile e aperto al pubblico in quanto realtà parificata convenzionata. Gestita dalle Suore Maestre Pie Filippini, la struttura ospita in un unico complesso la scuola dell’Infanzia e la Primaria. Per lungo tempo è stata l’unica scuola bitontina in cui si entrava fanciulli e si usciva con il diploma di scuola superiore. E fino al 2000, quando è stato chiuso per mancanza di fondi, funzionava anche il liceo psicopedagogico.

Punto di riferimento educativo per intere generazioni, la scuola cattolica è rimasta fedele al carisma dei suoi fondatori, Card. Marcantonio Barbaglio e Santa Lucia Filippini. Questi ultimi, con la loro opera miravano, infatti, a promuovere l’uomo nella sua interezza attraverso la propria testimonianza di vita autenticamente cristiana.

Il cortile dell’Istituto dell’Istituto Sacro Cuore a Bitonto

Coordinati dalla prof.ssa Antonia Saulle e accompagnati dal vice direttore Pier Girolamo Larovere, gli studenti sono stati accolti all’ingresso dalla direttrice suor Gabriella Quadrelli. Umbra di Trevi ma bitontina di adozione, da oltre un trentennio è alla guida della scuola cattolica in via Santa Lucia Filippini 23, che dirige con determinazione come recita la sua regola: “andate e insegnate la parola di Dio” (euntes docete verbum domini).

Quando nasce l’Istituto Sacro Cuore?

Fu fondato ufficialmente il 19 agosto 1902 su iniziativa di Francesco Lo Maglio, un sacerdote che, dopo essere guarito da una grave malattia, fece voto alla madonna di Guadalupe di donare a Bitonto un’istituzione educativa che accogliesse le giovani orfane che, a ventuno anni, uscivano dall’Istituto Maria Cristina di Savoia e altre ragazze in difficoltà. Incoraggiato e sostenuto dall’allora vescovo diocesano Mons. Pasquale Berardi, Lo Maglio acquistò una porzione di suolo edificabile su cui pose la prima pietra intitolando la sua opera per l’appunto a nome del vescovo: “Ospizio Mons. Berardi”.

L’edificio, inoltre, è dedicato a Santa Lucia Filippini…

Nel 1903, esattamente il 30 marzo, un terribile uragano si abbatté sulla città causando il crollo della struttura. Prosciolto dall’accusa di disastro colposo per incuria delle maestranze, Lo Maglio si rivolse al vescovo Berardi e lo convinse a iniziare i lavori di ricostruzione, nonostante le resistenze sia da parte della società bitontina che del mondo ecclesiastico dell’epoca. Nel 1916 fu inaugurato il primo effettivo anno scolastico per le sezioni di Materna ed Elementare. L’educazione dei bambini fu affidata alle Suore Maestre Pie Filippini, già presenti a Bitonto dal 1910, quando, su invito di mons. Berardi, arrivarono in città per provvedere alla formazione culturale e spirituale dei discenti. Ecco perché il Sacro Cuore è così devoto a Lucia Filippini, il cui operato religioso si inscrive a cavallo tra i secoli XVII e XVIII.

Una santa la cui vita fu consacrata nella fedeltà a Gesù…

Sapeva porsi in ascolto dei giovani e comprendere gli adulti conducendoli all’unico Salvatore con una fermezza e una tenerezza insieme, quasi incredibili per una donna fragile come lei. Una volta, assistendo a una lezione di catechismo di Lucia, il cardinale Marcantonio Barbarigo, vescovo diocesano di Montefiscone Tarquinia, rimase impressionato dalla sua capacità di trasmettere la parola del Cristo tanto ai piccoli quanto ai grandi. Le virtù e lo stile di Lucia, chiamata affettuosamente “la Maestra Santa”, resero il suo progetto educativo prezioso per la formazione dei giovani frequentanti la scuola e da lei avviati alla catechesi parrocchiale. Riscosse un successo immediato anche fra le donne adulte e le ragazze, le quali partecipavano in massa ai suoi corsi di Esercizi Spirituali in preparazione al matrimonio o alla scelta di una vita totalmente consacrata a Dio.

In che momento della sua vita è giunta la chiamata del Signore?

Avevo tredici anni quando frequentavo la seconda media nel mio paese Trevi, in provincia di Perugia. Mentre stavo traducendo una versione dal latino, la suora che ci insegnava lettere mi pose la seguente domanda: “Vorresti diventare suora anche tu?”. Colta di sorpresa, risposi istintivamente: “No, mi piacerebbe andare in missione umanitaria”. Parlando con altre suore scoprii che anche loro facevano missioni. Fu così che mi convinsi. Terminato il secondo anno alle medie, entrai in Seminario a Roma e presi i voti.

Da quando è diventata direttrice del Sacro Cuore come è cambiata la sua vita?

Per diciotto anni ho lavorato nella Svizzera tedesca con molti immigrati siciliani e pugliesi, soprattutto della provincia di Lecce. Terminato il mio ruolo di superiora, sono arrivata a Bitonto in veste di maestra unica insegnando tutte le materie, tranne informatica, inglese e attività motorie. Non posso dire che la mia vita sia cambiata molto da quando sono stata promossa a dirigente. Sono aumentati, semmai, gli impegni e le responsabilità nella gestione di un presidio importante come questo bitontino.

Santa Lucia Filippini (1672-1732), fondatrice dell’Ordine delle Maestre Pie Filippine

Quante sedi conta in Italia l’ordine delle Maestre Pie Filippine?

A dire il vero, si sono ridotte negli ultimi tempi. In Puglia restano solo Otranto, Lecce, Andrano e Bitonto insieme a Santo Spirito, ma qui la casa è stata chiusa. In Italia, si contano ancora diverse case a Roma, in Campania e in Umbria, non più in Sicilia e in Veneto. In tutto, ci sono circa 200 suore nel nostro Paese e altrettante sparse tra Stati Uniti, Brasile Africa e India.

Come spiega questa crisi delle vocazioni?

Nonostante ci siano tantissime nuove suore indiane e africane che, pur nella sofferenza e nella tristezza, vanno avanti e danno una speranza di futuro a tante giovani, in Italia e in America, in particolare, non c’è ricambio di suore giovani. Da anni papa Francesco esorta i cattolici a collaborare con i laici. Il futuro, dunque, lo vedo camminare sulle loro gambe. Devo dire che le docenti laiche che insegnano a contratto nell’Istituto collaborano con le poche suore rimaste. E noi le sentiamo davvero molto unite. Se un giorno, poi, avverrà il miracolo di nuove vocazioni, sarà un’immensa gioia per tutte noi seguaci di Santa Lucia.

Dal 2010 è stata avviato il corso della scuola secondaria di primo grado. È gestito dal vostro ordine?

Attraverso varie trasformazioni, l’Istituto nel 1940 diede inizio alla scuola media, nel 1951 all’Istituto Magistrale e, nel 1969, alla Scuola Magistrale. Indirizzi poi confluiti nel Liceo Psico-Socio-Pedagogico. Essendosi drasticamente ridotto il numero degli alunni e divenute insostenibili le spese, anche quest’ultimo è stato chiuso per mancanza di fondi. Oggi la scuola media è gestita dall’Istituto Benjamin Franklin al quale abbiamo affittato i locali.

Un momento del confronto fra gli studenti della 2^ A della media Sylos e i bambini di quinta elementare del Sacro Cuore

L’istituzione è stata ed è – lo confermano anche quest’anno le tante iscrizioni – un punto di riferimento per diverse generazioni…

Ci tengo a ribadire che una scuola cattolica e una laica non differiscono per cultura o insegnamento, anzi forse ci sono insegnanti laici più bravi di noi. È il clima di serenità, e affetto e apertura che i nostri ragazzi assaporano fin dal primo giorno in cui mettono piede in questa struttura a rappresentare il salto di qualità. Sono grata ai nonni che, ricordando il periodo in cui, piccini, hanno frequentato l’Istituto, sono tanto felici nel vedere i loro nipotini seguirne le stesse orme venendo a scuola con gioia. A riprova della viva continuità intergenerazionale.

Cosa pensa dello spirito religioso dei bitontini?

Rispetto ai pugliesi in Svizzera, i bitontini sono animati da un forte sentimento di pietà popolare. A cominciare dalle processioni: nel mio paese non c’era questa usanza, in Svizzera manco a parlarne. Constatare la presenza di una processione ogni domenica, mi ha permesso di comprendere affondo la mentalità e il sentire religioso di Bitonto: qui si fa comunità stando in mezzo alla gente. Sono rimasta sorpresa dalla devozione che i bitontini hanno per la Madonna, essendo questa una città mariana per antonomasia.

Ultimamente c’è stata la celebrazione per i 350 anni dalla nascita di Santa Lucia Filippini. Come si sono svolti i festeggiamenti?

È stata una grandissima gioia festeggiare la nostra fondatrice il 12 maggio. Lucia, in realtà, morì il 25 marzo del 1732 (era nata il 13 gennaio 1672), ma poiché quel giorno coincide la Festa dell’Annunciazione alla Madonna e, alle volte, tale ricorrenza cade durante il periodo di Quaresima, a un certo punto la Chiesa ha stabilito di festeggiare santa Lucia Filippini il 12 maggio. In occasione dell’evento, papa Francesco ha concesso l’indulgenza plenaria per tutti i fedeli che hanno visitato le chiese dedicate alla Santa. In un momento storico particolare in cui non tutte le ragazze avevano la possibilità di studiare e la prostituzione era molto diffusa, Lucia è stata “inventata”, passatemi il termine, dal Signore per educare i giovani ai valori cristiani.

Quale sarà il futuro della scuola cattolica?

Attualmente abbiamo all’attivo un team di venti insegnanti laici. Guardando a noi suore, a parte io (sorride), ci sono suor Luciana e suor Vincenzina. Non posso prevedere se in futuro saremo ancora in numero di due, tre suore. E le nostre sorelle indiane percepiscono L’Italia come una realtà troppo distante per cultura e formazione. Auspico vivamente che, tra i nostri insegnanti laici, qualcuno senta il carisma di Lucia Filippini e intenta testimoniarlo con spirito di dolcezza e mansuetudine, virtù già care alla Santa.

A questo punto, Suor Gabriella ci invita a salire le scale diretti al primo piano. Ad accoglierci con gioia e calore, gli alunni di una quinta di scuola primaria assieme alla loro maestra. Ci siamo scambiati sorrisi e curiosità. I piccini del Sacro Cuore, ansiosi di conoscere difficoltà e opportunità nel passaggio alla scuola secondaria di primo grado. Gli studenti della 2^A, curiosi di immedesimarsi nei panni di alunni di una scuola religiosa, in cui, allo studio delle stesse discipline insegnate in un istituto laico, si affiancano la meraviglia e il fascino di una fede che non è dogma ma dialogo e fiducia, semplicità e amicizia, attesa e disponibilità.

Terminata la visita, suor Gabriella si congeda non prima di averci condotto verso la portineria dove suor Rosa, la “suora del sorriso” recentemente scomparsa, aveva il suo studio. Ogni giorno, allo squillare della campanella, raccoglieva da una cesta delle caramelle e le distribuiva ai bambini in segno di amore e riconoscenza. Un gesto semplice e umano, quello compiuto da suor Gabriella che si congeda dagli alunni con un sorriso che comunica dolcezza e gratitudine.

Nella foto, in alto, gli alunni della scuola media statale “Carmine Sylos” impegnati in un’attività laboratoriale di giornalismo con Pier Girolamo Larovere, vicedirettore di Primo piano