Sociologa urbanista, docente all’università di Bari, Letizia Carrera pone a fondamento del proprio lavoro il concetto secondo cui la città moderna è il “precipitato” di quanto avviene a livello di macrostoria. Se si osservano dall’interno, o dal basso, i complessi, invisibili flussi vitali di una città, se ne possono ricavare dei racconti di senso, significanti. Riattualizzando, in tal modo, lo sguardo dei flâneurs, che Walter Benjamin aveva trasformato in metodo rigoroso per conoscere la città moderna.
Incontro Letizia in un caffè poco lontano dall’ateneo: le ho chiesto di parlarmi di flânerie, di cui ha trattato in diverse pubblicazioni, e soprattutto della sua incarnazione femminile, la flâneuse, di cui si è occupata nel suo ultimo libro La flâneuse. Sguardi ed esperienze al femminile, edizioni FrancoAngeli, presentato di recente alla libreria Laterza di Bari.
“Vado un po’ in ordine sparso, dunque proprio come una flâneuse dotata dell’arte di perdersi, per citare sempre Benjamin, anche se in questo caso tra le vie di una conversazione”, principia Letizia. “La presentazione di Antonio Di Giacomo, con cui ho colloquiato in libreria, ha colto molto bene la direzione politica della flânerie, a cui ho dato risalto nel mio libro, in particolar modo della flânerie al femminile. Questo sguardo alla città nasce nell’Ottocento con Baudelaire, uno sguardo non solo letterario, estetico, come può sembrare inizialmente. L’accezione di quello sguardo era anche sociologica, conoscitiva e, direi, già quasi politica”, prosegue.
“La stessa Perdita d’aureola (uno dei più noti poemetti in prosa di Lo spleen di Parigi, ndr) oggi possiamo interpretarla oltre che da un punto di vista della critica letteraria, cioè nel senso di un’allegoria della perdita della distanza tra il poeta e i suoi lettori, anche come scoperta euristica per cui un poeta dovrà ormai, se vorrà rappresentarsi e rappresentare la realtà della città, sporcarsi col fango delle sue strade. Ed è proprio il fango schizzato – spiega Letizia – dalle ruote delle carrozze, dovuto all’incremento della velocità – per cui, tra l’altro, il poeta rischia di essere investito – che fa cogliere a Baudelaire la modernità del suo tempo nella funzione del macadam preparato per accelerare il movimento dei mezzi di spostamento”.

Ma la flânerie può funzionare ancora? “Certamente! Soprattutto perché – chiarisce la docente – da qualche decennio si è aperta una seconda modernità, un’ulteriore accelerazione epocale, chiamata in diversi modi: ad esempio, postmodernità da Lyotard, modernizzazione riflessiva da Beck, o modernità radicale da Giddens. In ogni caso, è emersa la necessità di un rallentamento di passo, come quello che avevano ravvisato i primi flâneurs. Ed è significativo che da circa quindici anni si sia intensificato l’interesse per lo studio della flânerie”.
In questa rimodulazione contemporanea della flânerie rientra anche la figura nuova della flâneuse? “Se il flâneur in fondo incarna istanze di diritto alla città, ai suoi spazi, agli interstizi di democrazia nella modernità con tutti i suoi imperativi, la flâneuse sa cogliere, dentro questi stessi spazi, le curvature femminili. Già George Sand si chiedeva: ma quante sono le donne che camminano per la città? Lo stesso Adorno osservava che la donna moderna era passata dal guardare il mondo attraverso il vetro di casa a guardarlo attraverso una vetrina, ma non era cambiato sostanzialmente granché”, chiarisce Letizia Carrera.
“Oggi, lo sguardo femminile alla città attraverso la città – riprende – non più così trascurato, è capace di cogliere spazi interstiziali che la flanerie per così dire tradizionale non aveva percepito. Concretamente: da gender mobility manager dell’UniBa, ho avviato dei focus group sulla mobilità di dipendenti e studentesse. Grazie allo sguardo flâneuse, è risultato, ad esempio, che piazza Cesare Battisti, di sera, è raramente attraversata dalle donne per scarsa luminosità, e che l’automobile è il mezzo di spostamento scelto dalle donne in quanto i mezzi pubblici coprono distanze radiali, perché non contemplano quelle deviazioni – per la spesa, per accompagnare i figli a scuola, ecc. – che le stesse donne fanno dal percorso ‘lineare’ casa – lavoro. Peraltro, la stessa Agenda 2030, all’obiettivo 11, prevede che le finalità delle città non siano più commisurate soltanto a uomini normodotati ma innanzitutto alle vulnerabilità. In fondo flâneuse e flâneur rappresentano lo sguardo di chi non ce la fa a stare al passo con i precetti performativi della modernità, o di quest’altra modernità illimitatamente moderna qual è la nostra”.
Franco La Cecla in Contro l’urbanistica nota che spesso alle letture sociologiche che fanno gli osservatorii internazionali risulta invisibile quello che succede realmente, che solo uno sguardo flâneuse/flâneur può cogliere. “L’interstiziale lo si coglie soltanto se la si attraversa, la città. Se invece ci si fa prendere dalla tentazione di Icaro, come la chiama Giandomenico Amendola, dello sguardo dall’alto, cioè, si arriverà a conoscere ben poco”, afferma la sociologa.
La flânerie è appannaggio solo del citoyen, oppure può essere praticata anche nella più modesta e statica provincia? Ed ecco la risposta: “Probabilmente, la provincia ha più potenziale rigenerativo e democratico della città, che spesso, a differenza di un piccolo paese, orienta gli spazi irrigidendoli in destinazioni d’uso turistico, ecc.”.
A proposito di questo orientamento spaziale preordinato dal potere, flâneuse e flâneur rischiano, forse, di agire un solo apparente spazio libertario, poiché, come hanno mostrato le ormai classiche analisi di Foucault, sono anch’essi, come tutti, intrappolati nei dispositivi del moderno potere diffuso ma invisibile, che s’infiltra biopoliticamente fin dentro i corpi? “Flâneuse e flâneur sanno che proprio dalla riappropriazione fisica dei corpi, attraverso atti e azioni fisiche nello spazio urbano, passa il reagire democratico, considerato che, proprio come rilevava Foucault, il potere contemporaneo ci spossessa finanche dei corpi. Un po’ come voleva de Certeau: c’è uno spazio di invenzione del quotidiano non raggiunto e non raggiungibile dal potere. Quello è lo spazio operativo della flânerie”, spiega Carrera.
Ritornando a Baudelaire, il pioniere della flânerie ha mostrato come si possa delineare una riflessione sistemica a partire dall’osservazione di un dettaglio sfuggente ai più, ad esempio soffermandosi sul maquillage femminile. “Flâneuse e flâneur non sono dei semplici passanti, ma – afferma la docente – a partire da uno sguardo sapiente, sanno cogliere il nesso tra particolare incontrato per strada e universale; la loro esperienza non è solo impressionistica, ma, in virtù di quella che Wright Mills chiamava immaginazione sociologica, provano a fornire una scienza rigorosa di quello che vivono attraverso la città”.
Un’ultima considerazione: ricollegandomi alla rinnovata necessità contemporanea del passo rallentato di cui dicevi, credi anche tu, come una Rebecca Solnit o un Marc Augé, che non si tratti soltanto di una espressione metaforica, ma che condizione necessaria per riguadagnare lo spazio politico della città sia il potervi camminare? “Indubbiamente. Concordo con quanto dice Franco La Cecla nella sua prefazione al libro della Solnit Storia del camminare: il camminare genera la democrazia che viene dall’impressione della compresenza tra altri corpi viventi. Moi, je suis venu à pied – cantava Yves Montand – doucement sans me presser, j’ai marché à pied, à pied, j’étais sûr de vous trouver”, conclude Carrera.
Le foto di Bari sono di Alessandro Robles