Un flusso impalpabile, incessante, affannato, faticosamente trasla da un corpo all’altro, senza filtri, senza sosta, senza barriere, senza protezione… Finalmente affrancato. Semplicemente l’io e l’altro da me. Quanto di più poetico e drammaticamente appassionato. Essenziale bisogno di scambio emozionale, di quel respiro che porta con sé il carico di una vita sommessa, condivisa senza inganni, senza promesse, naturalmente contaminata e offerta come dono viscerale, esclusivo, irripetibile frammento d’anima.
Dovremmo prima di tutto ascoltare il crepitìo delle foglie e il battito sordo che bisbiglia al passaggio lieve dei protagonisti nella performance intitolata The route of evanescence di Agnese Purgatorio, per comprendere la profondità di un lavoro e di un’artista che, già intrinsecamente, sconfina ogni definizione. La sua personale, quasi un’antologica di altissimo profilo, dal titolo Parole nomadi, si snoda in questi giorni nelle sale della Pinacoteca metropolitana “Corrado Giaquinto” a Bari.
Arte nell’arte. Bello nel Bello. Performer sopraffina, artista italiana che sonda discipline multiple, come collage analogico e digitale, installazione fotografica, video, attenta al suono quanto alle storie negate. I suoi lavori sono esposti e commissionati da prestigiose istituzioni nazionali e internazionali come la Triennale di Milano, The Jordan National Gallery, The Moscow biennale of Contemporary art, la Biennale di Venezia, la galleria Nazionale di Roma, giusto per citarne alcune.
Quell’andare oltre, valicare, allontanare, traghettare è parte di una produzione tanto ricca quanto dolcemente feroce nella sua adamantina schiettezza. Agnese Purgatorio è uno degli esempi dell’arte pura pugliese, azzarderei mediterranea, e mi fermo qui, giusto per non far torto a nessuno.
Vivendo tra Belgrado e Beirut ha dedicato la sua produzione a tematiche di impatto fortemente etico e politico, con una particolare attenzione ai flussi migratori, al transito, al confine visto come ferita inferta dall’uomo. Ed è proprio da questo che parte la sua esposizione barese, dalla lingua di terra imposta come limite tra ex Palestina e Giordania, dalla visione della terra promessa di Mosè. Un’immagine altamente lirica quanto concettualmente fluttuante e appannata, come molti dei lavori della Purgatorio.
Che portano ad uno spaesamento percettivo, proiettando chi osserva in scorci desolati ma pulsanti di contaminazioni emotive. Les Intermittences du Coeur, citazione di proustiana memoria, occhieggia, rinnegato, tra le vette sopite dalla nebbia cinerina. Nell’azzurro che sovrasta tutto, come nella serie di “Blu Kabul”. Ma quei sussulti che ci colgono sprovvisti di corazza e ci ricordano che il fluire del tempo ci doppia inesorabile resta lì, cancellato ma ancora visibile, a ricordare i turbamenti della nostra eterna fragilità.
Artista da sempre raminga, Agnese Purgatorio si mette in cammino lasciando impronte sulla sabbia infuocata, tra le pietre di boschi umidi, nelle stanze lerce di nascondigli paludati, tessendo le fila di un viaggio concreto e mentale che la scorta ovunque ci sia sintonia d’intenti. E chi più di lei conosce il vero senso dell’indifferenza dilagante, affascinata dalla precarietà clandestina dei popoli.
E inerpicandoci in questo racconto lucido e doloroso troviamo bambine soldato che ingenuamente giocano a nascondino con il destino e barche di pietra arenate senza meta. E colpisce l’immobilità di sguardi svuotati da sogni, soffocati da quel velo che il vento vuole portar via… lontano, nell’azzurro di un cielo senza più luci artificiali ma solo stelle, nel buio eterno di una notte felice. Per approfondire i temi della sua arte, il percorso culturale e i suoi ultimi progetti, abbiamo intervistato Agnese Purgatorio.
La tua produzione artistica è spesso “uno strumento” per denunciare scottanti criticità. Come procede il tuo modus operandi?
La mia è una pratica artistica che nasce nella clandestinità per generare riflessioni, per porre domande, per oltrepassare i limiti e le barriere imposte, sempre in cerca di una trasformazione a partire dai primi anni del 2000 con i volti mimetizzati di Fronte dell’est. Ripensare la soggettività, spostare il punto di vista e restituire centralità a qualcosa che non l’ha per far cadere le barriere ovvero lavorare anche fisicamente sui confini. Così le trame si confondono e si sovrappongono sia nei collage, digitali o analogici, sia nelle videoperformance o nelle videoinstallazioni. Si tratta di sincronie impensabili e quasi assurde che mi portano a costruire un mondo esterno che è al tempo stesso interno e ad analizzare i flussi per condensarli dal punto di vista di un nomadismo dell’opera.
La tua analisi sembra spesso superare i limiti spazio-temporali, favorendo la comprensione dei fenomeni contemporanei…
I temi dell’attraversamento dei confini, della solitudine dell’artista che in qualche modo sono tangenti a quelli dei diritti delle donne e dei migranti, sono da sempre una costante del mio lavoro. Limite, frontiera, confine inteso come archetipico luogo di transito; ma è la condizione erratica la chiave di lettura per attraversare le diverse interpretazioni della memoria personale e collettiva.
Agnese, avverti la necessità di agire responsabilmente nel contesto socio-culturale e politico che abitiamo?
Il mio lavoro è sì poetico ma anche politico. Qualsiasi modificazione del mondo incide su molteplici aspetti e ci influenza e condiziona, spesso a partire dalle parole: sono le insidie e i rischi dell’antropocentrismo. Il mio lavoro parte sempre dall’idea di spostare l’asse: per esempio nella performance Malinconia dei colori, del 2020, mi concentro su un effimero elenco di colori, forse l’ultimo gradino di questa devastante invasione dell’umano, che sovrasta tutto nonostante la natura resiliente.
Quale ruolo hanno le relazioni tra individui nel tuo lavoro etico ed estetico?
Vivere le soggettività come mescolanza, collaborazione e contaminazione: questo è il senso, ma anche la sostanza, di cui si compongono le stratificazioni o le multiple citazioni di cui sono sempre composti i miei lavori. Parliamo di azioni spaesanti per rimarcare l’eccedenza che va oltre la storia, di una migrazione metaforica e silenziosa, che si oppone ad una società patriarcale e violenta, in un’atmosfera quasi surreale.
Questa mostra, quasi una antologica, raccoglie le tappe più rappresentative della tua magistrale carriera. A quale di questi progetti ti senti più legata e perché?
Nel progetto per la Pinacoteca di Bari ho voluto mettere a confronto opere realizzate nell’ultimo decennio con lavori pensati espressamente per la mostra. Collage digitali ambientati nella nebbia o sul mare, nei boschi o in luoghi ormai abbandonati, luoghi al margine, luoghi della memoria, frequentati dai migranti di ieri e di oggi, come la ex Manifattura Tabacchi e l’ex caserma Rossani di Bari o il sottotetto dell’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo. Tutte opere che partono dall’idea di ricostruire l’immagine dell’umano, per nulla umanitario, perché travalica, spiazza, decostruisce, sposta il “senso ovvio”, rendendolo “ottuso”. Immagini elaborate con elementi metafisici, inseriti nel racconto per andare oltre la logica del visibile.
Ho voluto in questa mostra alcuni dei pezzi più evocativi, a cominciare dalla più visionaria delle mie immagini Dalla clandestinità, con la sua folla di migranti sospesa sulla zattera instabile costituita da una cartina geografica dell’Italia che galleggia sul mare e l’artista, audace e incinta, Alina Marazzi, davanti a loro. Ma non saprei dire quale sia il progetto al quale mi sento più legata. O forse è sempre l’ultimo: l’installazione site specific al neon “Il vento porta via il velo”.