Da studenti a clienti, l’inganno della meritocrazia

In un incontro all'ateneo barese, Tiziana Drago e Salvatore Cingari spiegano come la formazione sia asservita al capitalismo, che premia l'ossequio e nega il talento

È il primo pomeriggio di una giornata di sole, in questo strano scorcio di primavera, quando decine e decine di studenti si accalcano all’ingresso della facoltà di Giurisprudenza. L’incontro che sta per cominciare ha l’obiettivo di decostruire la retorica del merito. Retorica che, come apprendiamo dalla cronaca, è causa del suicidio di tanti studenti, e rischia di azzerare sul piano della formazione intere generazioni di giovani.

Già prima che Tiziana Drago, docente ed esperta di Letteratura greca dell’ateneo barese, cominci il suo intervento, si respira un’aria di partecipazione e di fermento. Accanto a lei in videoconferenza Salvatore Cingari, ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università per Stranieri di Perugia, autore del volume La meritocrazia (2020), in cui si ripercorre la storia della parola, a partire dalla sua origine e sino ai giorni nostri. Un testo prezioso, indispensabile per capire e decostruire la grande narrazione tossica che caratterizza la società, in tutti i suoi aspetti.

La prima cosa che mi preme chiarire – attacca Drago – è che l’etica meritocratica, la grande narrazione meritocratica, in campo scolastico e universitario, ha segnato un’appropriazione violenta: l’estensione del rapporto di dominio del capitale agli aspetti sociali della nostra vita. La meritocrazia risponde alla necessità del capitalismo cognitivo di appropriarsi del tempo di studio, di lavoro, di ricerca e di trasformarlo in merce, in prodotti, in dati misurabili, quantificabili, valutabili, in elementi di scambio commerciale e di auto-imprenditorialità”. Chiaro e diretto: gli studenti subiscono la pressione della spinta capitalistica che si concretizza nella necessità di acquisire crediti (i cosiddetti CFU), che incarnano il peso arbitrario stabilito per ogni esame sull’onda delle riforme scolastiche liberiste partite dagli anni ’70. Corse ceche e mortificanti contro il tempo, valorizzazioni di quantità e non di qualità, preparazione di performances, suddivisione, frammentazione del sapere che, è bene ricordarlo, è unico e indivisibile e, certamente, non quantificabile.

L’incontro alla facoltà di Giurisrpudenza

Da studenti-cittadini a studenti-clienti

In quest’ottica di frammentazione e divisione, spiega la docente, gli studenti-cittadini si trasformano in studenti-clienti: le scuole e le università non seguono più un piano formativo ma un’offerta formativa, quella di volta in volta più accattivante e al passo con le mode socialcapitalistiche. E in quest’ottica, quelle stesse istituzioni formative sono periodicamente sottoposte a valutazioni di performances che ne determinano la sopravvivenza. Il dibattito parte, dunque, proprio dalla questione fondamentale e più urgente che attanaglia la realtà odierna: il peso, la pressione del capitalismo cognitivo sulla psiche collettiva. Ma quali sono i meccanismi con cui gli studenti, le scuole e le università vengono sottoposti a questa pressione? In che modo, cioè, si passa da scuola a scuola-azienda?

Da scuola ad azienda, il “gioco” del capitalismo

Tiziana Drago spiega come, attraverso il numero di esami superati, la quantificazione della dispersione degli studenti, degli sbocchi occupazionali forniti dai diversi dipartimenti (che un tempo erano facoltà), attraverso il numero di brevetti per ricerca elaborata in un ateneo, le docenze di ruolo nelle materie fondamentali si stilano le classifiche nazionali dei diversi atenei. In particolare, l’acquisizione di questi brevetti nelle varie università penalizza, per forza di cose, soprattutto le discipline umanistiche. Una questione di assoluta gravità: “tutto quello che non produce immediatamente qualcosa di spendibile, rischia di essere penalizzato”, sottolinea Drago. Ed è facile comprendere come l’humanitas sia lo spartiacque del capitalismo, con la sua natura intrinsecamente “inutile” e come appaia nemica scomoda di quest’ultimo.

L’intervento della grecista continua, in modo ancor più interessante, descrivendo il termine “merito”, asfissiantemente evocato nelle varie narrazioni personali e collettive: “Il merito è quella formula magica per mettere al riparo decenni di stacanovismo riformatore e il suo disastroso naufragio. Le riforme dell’ultimo ventennio dovevano portare alla valorizzazione del merito favorendo la competizione tra università, elargendo fondi a favore di quelli che, in base a parametri del tutto arbitrari, venivano e vengono definiti gli studenti ‘migliori’. Finanziamenti e fondi, la cui gestione doveva essere esempio impeccabile di merito. Ma il problema è chi e cosa garantisce e valuta il merito? E chi giudica i giudici e chi custodisce i custodi?”

Chi e cosa garantisce e valuta il merito?

L’interrogativo costituisce il cuore pulsante di tutta la distorta questione della retorica meritocratica. Chi decide chi è il miglior studente? Che cosa è meglio, che cosa e chi è meritevole? È sempre qualcuno, spiega Drago, che decide, in base a valutazioni personali e del tutto arbitrarie, chi e cosa merita di salire di grado nella gerarchia, sociale, scolastica, lavorativa. L’unica categoria esente dal giudizio, dalla valutazione in base al merito è, come chiarisce la docente, la politica. Politica che “viene investita da quella volontà del popolo che non conosce meriti né demeriti”. La cosiddetta volontà del popolo, in realtà, pare del tutto sopita se si pensa che la stessa considera l’ideologia meritocratica giusta seppur mortificante. “Il merito è stato messo in campo in Italia già a partire dagli anni ’60, come il più democratico e oggettivo dei principi. Ma in realtà – spiega Tiziana Drago – agiva contro la spinta egualitaria di quegli anni, da una parte, e, dall’altra, come antidoto al favoritismo di carattere famigliare e politico. Tuttavia ha funzionato in modo esattamente contrario: come fucina di fedeli esecutori e opportunisti di ogni genere. Il numero delle dinastie accademiche politiche e famigliari è ancora oggi solidissimo. E dunque se il merito avesse funzionato, oggi non avremmo un sistema così chiuso e con dinastie consolidate”.

Tiziana Drago

Baroni e nepotismo: il caso dell’ateneo barese

Ascoltando queste parole viene in mente un pezzo di John Foot, pubblicato qualche tempo fa sulla London Review of Books e poi ripreso dall’Internazionale, intitolato Studiare tra i baroni. Foot definisce “baroni” quei potenti che gestiscono le carriere universitarie e gli accessi ai ruoli delle università. È notissimo all’autore anche il caso dell’università di Bari, col suo nepotismo marcato, di cui si parla molto spesso ma solo sottovoce. Oggi il sistema gerarchico degli atenei, delle università, dopo anni di narrazioni e politiche meritocratiche, appunto, appare più potente che mai.

Ma perché le gerarchie sono sempre più potenti e sempre più solide? Irving Kristol in Capitalism today scriveva che gli uomini non possono sostenere a lungo un potere e un privilegio che non abbia giustificazione morale. E qual è, ad oggi, la giustificazione morale di questi baroni? Proprio il merito. Il merito di aver studiato e di possedere le chiavi di un sapere (valutato, anche per i baroni, sempre in modo soggettivo e del tutto arbitrario). Come spiega Drago, le stesse gerarchie, giustificano, dunque, sé stesse appellandosi al merito.

Il riconoscimento del merito è soggettivo, quello dei talenti collettivo

Al merito viene concessa la prerogativa del comando: se si è meritevole, allora si è gerarchicamente meritevole. Non è un caso che il termine meritocrazia sia composto dalla parola latina meritus e da quella greca kratos, potere”, prosegue la grecista. Ma, a questo punto, potremmo chiederci: chi possiede una capacità, una prerogativa di forza, non deve aspettarsi niente dalla società? Ed è qui che Drago sottolinea come la nostra società dovrebbe basarsi su un sistema che riconosce i talenti e non i meriti: “Non è un caso che non si sia mai parlato di talentocraziaincalza. Vi è una differenza sostanziale tra valutazione del merito e riconoscimento del talento. Se la valutazione è sempre soggettiva e arbitraria, il riconoscimento dei talenti è collettivo: deve avvenire in modo “naturale”, senza un processo propriamente valutativo. Attraverso il riconoscimento del talento si deve puntare a mettere lo stesso a disposizione della collettività. E il processo di riconoscimento dei talenti non incentiva, a differenza di quello valutativo del merito, alcuna scalata gerarchica, alcun ruolo di reale predominanza o sudditanza, ma è il terreno di una vera cooperazione collettiva.

I talenti, quindi, devono essere funzionali alla comunità e non posti in vetrine di privilegi, funzionali a sé stesse. Solo attraverso il processo di riconoscimento si può iniziare a ipotizzare la riduzione delle differenze sociali che, invece, sono la struttura portante del sistema meritocratico. Il meritevole esiste solo se al di sotto di esso vi è un non meritevole. Solo se vi è una gerarchia, una differenziazione sociale ben marcata, una forte differenza di redditi, di possibilità, di privilegi.

Ma l’ideologia ha una storia lunga, che parte dall’Inghilterra, come ci spiega Cingari, e che si connota in senso fortemente negativo: saranno poi le politiche liberiste a volgerla in senso positivo e a renderla panacea di tutti i mali. “La parola meritocrazia nacque con un significato negativo: il termine si è affermato nel lessico politico occidentale dopo la pubblicazione di un romanzo sociologico scritto da Carl Gustav Jung nel 1958, “The rise of meritocracy”, nel quale l’autore immaginava una società divisa tra una massa di lavoratori manuali e un’élite di dirigenti, selezionati attraverso test di intelligenza”, spiega Cingari. Un romanzo a più riprese distorto e mal interpretato che, tuttavia, si è rivelato premonitore del sistema nel quale viviamo oggi.

L’Education Act, il sistema degli studi improntato alla meritocrazia

Ma la parola era stata usata già due anni prima, sempre in senso negativo – prosegue Cingari –da un altro sociologo inglese, Alan Fox, in un articolo del 1956 intitolato ‘Class end equality’, in cui criticava i socialisti che cominciavano ad introiettare l’ideologia meritocratica come panacea dei privilegi di sangue, quando, in realtà, la stessa ideologia meritocratica era prerogativa dei conservatori. Fox criticava il dispositivo nato nel 1944 in Inghilterra, l’Education Act, che obbligava i bambini di 11 anni a eseguire test di intelligenza che avrebbero poi determinato il loro futuro: in base ai punteggi ottenuti ai test, i bambini venivano indirizzati variamente: alle grammar schools (a impianto umanistico e proiettate verso gli studi universitari) in caso di punteggi elevati, alle modern schools (per l’immediato inserimento nel mondo del lavoro) o le technical schools in base ai punteggi più bassi”. Questa si può considerare la formula che ancora oggi, seppur in forme lievemente diverse, costituisce la base della nostra società.

Si determinano i futuri delle vite umane in base a parametri non scientifici, non dimostrati, del tutto aleatori e partoriti in base alla propria visione conservatrice e classista del mondo. Grandi pensatori anche in Italia, dopo aver assorbito il vento liberista che dall’Inghilterra e poi dagli Usa ha portato in Italia il feticcio del merito, si sono espressi a favore di questo sistema tritacarne. Tra questi, come ricorda Cingari, anche Benedetto Croce che, in uno dei suoi discorsi parlamentari, si espresse così: “La scuola non deve produrre sterminanti eserciti di Serse ma piccoli eserciti ateniesi e spartani, di quelli che vinsero l’Asia e fondarono la civiltà Europea”. Appare, dunque, lampante come, attraverso una rete di illustri e non illustri pensatori, di politiche liberiste, l’ideologia meritocratica sia finita a fare da collante del capitalismo: senza la retorica del “lavorare tanto, lavorare duro”, questo non starebbe in piedi. È dall’intima convinzione del soggetto stesso che viene spinto a raggiungere il “successo”, inteso, chiaramente, come esclusivamente economico, che il sistema meritocratico-capitalistico trae sostentamento. Gli Usa, oggi, con le loro narrazioni sul successo, sul raggiungimento del successo a discapito di sé stessi, ci costruiscono film, discorsi agli Oscar, discorsi politici, pubblicità e tanto altro.

L’intervento del docente continua ripercorrendo le tappe fondamentali che storicamente hanno portato il termine meritocrazia ad assumere tanto potere, anche in Italia, e che qui abbiamo solo introdotto. Ed è per questo che la lettura del suo libro, La meritocrazia, appare fondamentale.

Salvatore Cingari in videocollegamento

Il concetto del passaggio dalla società disciplinare a una società dei controlli – conclude Tiziana Drago – dove è l’individuo a controllare sé stesso e gli altri, in cui si è passati dal controllo all’autocontrollo, dalla svalutazione di un ente esterno all’autosvalutazione, dall’imprenditorialità all’autoimprenditorialità, dallo sfruttamento all’autosfruttamento, porta alla nascita della colpa di non aver investito abbastanza nel proprio capitale umano. E difficilmente si trova la forza morale di svincolarsi da questo processo di continua ricerca del merito, sino a giungere ad una sorta di management cognitivo fatto di ansia, stress, iperlavoro, depressione, debito, solitudine… E fallire in questo sistema, è estremamente facile”.

È facile fallire perché nel sistema meritocratico il concetto di fallimento esiste per garantirgli vitalità. E’ facile soffrire, sentirsi inadatti, essere isolati in una società che concepisce solo l’imprenditorialità del singolo, dove ognuno è manager di sé stesso e quindi inevitabilmente contrapposto agli altri. E’ facile non avere spazi comuni, comunità, ascolto. Comprensione, riconoscimento di dignità, identità, talenti, idee, volontà. È facile perdere il senso della propria natura umana, dei propri bisogni, del proprio tempo, in una cronofagia forsennata e distruttiva. L’ideologia meritocratica si è fatta coscienza, è diventata narrazione comune – si è già detto – fortificata continuamente dalle terribili narrazioni mainstream, dal solito storytelling. E le voci contrapposte a questa ideologia, come quelle, straordinarie, che hanno animato l’incontro, restano ancora troppo poco ascoltate. Un dato ancora più drammatico se pensiamo che l’attuale governo ha portato all’apoteosi l’ideologia meritocratica: il presidente Meloni (come la stessa premier preferisce definirsi) con la sua narrazione meritocratica, incentrata sulla figura dell’underdog, ha anche ordinato il cambio del nome del Ministero dell’Istruzione in Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Eppure, con le parole di questo tardo pomeriggio di primavera, l’aula VII del Palazzo Del Prete, con tutti i suoi studenti, è stata un faro, una campana, un tuono potente. Andar via dal suo significato, dal suo porto sicuro di ragionamento, da quell’aula senza portare con sé ancor più il seme del cambiamento è impossibile. Perché adesso la campana, per tutti quegli studenti che hanno ascoltato e partecipato, suona davvero. E continuerà a suonare.