Il linguaggio parlato da Papa Francesco è notoriamente ben lontano dall’ecclesialese (leggi qui) che pure dovrebbe essere per definitionem la “lingua dell’Ecclesia (o Chiesa)”. Questo ecclesialese curiale esasperante, tanto compiaciuto quanto autoreferenziale, non appartiene proprio al pontefice che “viene quasi dai confini del mondo”. Ed è un dato di fatto che la sua immediatezza e la schiettezza delle sue parole sono piaciute subito più alla gente che agli addetti ai lavori della curia romana e della Chiesa in genere, a tutti i livelli della sua configurazione istituzionale.
Il suo parlar semplice (a cominciare dall’iniziale “buonasera”) ha fatto breccia nel cuore della gente. Da quando c’è Bergoglio non vi è sua predica o catechesi che non cominci con un semplice e laicissimo “Buongiorno” e “Buonasera”: basti pensare al suo primo saluto ai fedeli raccolti in piazza San Pietro, dieci anni fa (il 13 marzo 2013), quando si presentò alla folla dei fedeli in trepida attesa dopo la fumata bianca, augurando subito la buona sera e poi pronunciando già quel suo tipico parlar semplice e nel contempo concreto e già programmatico (“…un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia”) che, se da un lato ha fatto breccia nel cuore della gente, poi si ritroverà in tanti documenti portati avanti con pazienza e decisione, soprattutto con umiltà e profondo rispetto per tutto il genere umano.
Si è riconosciuto subito in lui un pastore buono e compassionevole, sempre vicino alle problematiche e presente nelle vicissitudini umane: tutti ricorderanno in particolare il suo invito ai sacerdoti: “Siate pastori con l’odore delle pecore”. Questo suo parlare per metafore, ben ancorate nella vita di tutti i giorni, lo rende sempre più vicino alla gente: la sua comunicazione, in particolare quella offertaci nelle omelie di Santa Marta, richiama in pieno lo stile delle parabole evangeliche.
Fra le metafore riferite ai preti e al loro “mestiere” evangelico, ricordiamo pure quella che chiosa il famoso brano del vangelo che si legge nella quarta domenica di Pasqua (“Io sono il buon pastore”), sottolineandone il richiamo di Gesù nell’affermare che “le pecore lo seguono, perché riconoscono la sua voce”: qui Bergoglio stesso coglie un indimenticabile e personale riferimento a un’usanza dei pastori del suo tempo, quella di mettere alla sera gli animali in recinti comuni e di richiamarli la mattina seguente usando la voce del fedele pastore. Ancora il sommo pastore della Chiesa romana offre in tal modo un’immagine immediatamente comprensibile da tutti, così come cattura subito l’attenzione della gente un altro traslato figurato della “Chiesa”, quando il giorno seguente la sua elezione il papa si presenta ai fedeli dicendo che “la Chiesa, senza la croce, è solo una ONG pietosa”.
Ed ancora: nell’auspicare una fratellanza sempre più ampia fra le persone, sostiene (anche con espressioni non sempre ineccepibili grammaticalmente) l’importanza sia di “inventare strade di vicinanza” che di ricercare sempre “come si fa la strada alla pace”, in cui metaforicamente e con grande plasticità descrive come “strade” la ricerca di concreti percorsi di pace (Speciale TG5, 20.I.2021, ore 20.40). Originalissima poi la sua duplice critica definizione (pronunciata in occasione della sua ultima visita ad Assisi) “cristiani da pasticceria” oppure “bolle di sapone” per quei cristiani “vanitosi, tiepidi, che non vogliono prendere la croce”.
Questa rivoluzione linguistica di Bergoglio, nel suo netto rigetto dell’ecclesialese a favore di uno stile quasi colloquiale, spesso stringato ma sempre diretto, perviene talvolta alla creazione di neologismi, quando le parole di uso comune gli stanno strette: si pensi all’invito rivolto ai giovani di andare a missionare, vale a dire “operare come missionari” (visita a Genova del 2017). Tutti ricorderanno poi l’uso del verbo spuzzare (nell’espressione “La corruzione spuzza”, quando Francesco visita il quartiere Scampia a Napoli, nel marzo 2015), desunto dalla lingua popolare imparata dai nonni italiani; oppure primerear “anticipare” (“il Signor ci primerea, ci anticipa, ci sta aspettando: pecchi e lui ti sta aspettando per perdonarti! Lui ci aspetta per accoglierci”: Terre d’America, 2013), un termine tratto dal lunfardo, cioè il gergo di Buenos Aires.
Del resto Francesco mette spesso da parte il discorso scritto e parla a braccio, con una semplicità davvero disarmante a cui ben s’accompagna una gestualità corporea che parla e comunica ben più di tante prediche. La stessa semplicità congiunta ad un’essenziale sobrietà si ravvisa nel suo esercizio della liturgia, che conoscerà presto una vera rivoluzione, persino sul versante estetico del vestiario indossato durante le celebrazioni: non vi è più traccia, infatti, della preziosa collezione dei paramenti e abiti rinascimentali che andavano di moda con Benedetto XVI, quasi a ridimensionare un certo estetismo liturgico ormai lontano dalla vita reale della gente.
E se non esiste vera Chiesa senza l’attenzione pastorale per le “pecore”, quale modello più convincente offrirà a tutti lo stesso Bergoglio nel suo essere e vivere l’esercizio concreto di “parroco del mondo” più che quello di un papa da “palazzo”? Il fatto è che Francesco è più che mai convinto del suo ruolo di promotore di azioni costanti e tangibili che siano improntate a sincera apertura verso i bisogni di tutto il mondo: “Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala. La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso il contemporaneo, le periferie esistenziali, qualunque esse siano, ma uscire”. E per dar vigore alle sue cristalline parole richiama il messaggio evangelico, quando Gesù ci dice: “Andate per tutto il mondo! Andate! Predicate! Date testimonianza del Vangelo!” (Mc 16,15). Il suo “sermone”, pur così importante e fondamentale nel caratterizzare la direzione in cui la sua Chiesa autenticamente cristiana deve muoversi, viene sempre affidato solo a chiare e ben comprensibili parole.
Confrontando il messaggio apostolico di Francesco con quello che è il consumo quotidiano di omelie nelle nostre chiese, possono derivarne per lo più sconcertanti delusioni se non avvertiti allarmi di fronte alle difficoltà della Chiesa d’ogni giorno nel tenere il passo del suo prestigio e soprattutto del suo magistero. E se il papa perora sempre la causa dell’essere “pastori con l’odore delle pecore”, come già detto, poi si ha la sensazione che il gregge stenti a seguire le parole del pastore. Senza voler generalizzare, si ha l’impressione che nel mondo ecclesiale, in particolare nelle omelie, si annidino ormai difficoltà serie nello svolgere quel delicato ufficio che significa, a chiare lettere, comunicare con il proprio gregge. I sacerdoti devono allora premunirsi? Questo significherebbe studiare ed approfondire le omelie, possibilmente senza leggere necessariamente il testo della “predica”, che allora assumerebbe le sembianze di un discorso, spesso tanto lungo quanto noioso; anche se poi non è il caso di abbandonarsi all’improvvisazione, per lo più sinonimo di faciloneria, che può condurre a risultati addirittura fuorvianti.
Oltre modo eloquente, davvero illuminante è sempre il “modus loquendi et operandi” di Bergoglio. Valga come emblematica la sua interpretazione e quindi l’applicazione della nota locuzione latina “Ecclesia semper reformanda est”, peraltro considerata una delle affermazioni fondamentali della riforma protestante grazie a Martin Lutero (basata sulla convinzione che la chiesa debba continuamente riesaminare se stessa se vuol mantenersi sempre fedele al genuino messaggio evangelico), che Papa Francesco riprende ed utilizza in più occasioni, allo scopo di attuare le attese riforme, a cominciare dallo Ior e dai dicasteri della curia romana.
Ma anche in materia di dottrina o di morale è da ritenere originale il suo modo di parlare ed esprimersi, dove pur sempre traspare il suo ormai collaudato tentativo di approccio pastorale di fronte a questioni molto delicate e verso persone finora emarginate nella chiesa: si pensi ai gay ed ai divorziati risposati ma anche alle stesse donne (certo non solo l’8 marzo!), fino all’apertura verso il celibato dei preti di cui Francesco sta parlando in questi giorni. Il suo linguaggio, anche a quest’ultimo complesso riguardo, è sempre chiaro e di facilissima comprensione, sia per i diretti interessati, i sacerdoti, che per i cristiani tutti: “Il vincolo al celibato per i chierici è una prescrizione temporanea e dunque può essere rivisto”. Senza ricorrere alle trappole linguistiche dell’ecclesialese, che inevitabilmente avrebbe irretito tali aperture epocali nelle grigie maglie del (modo d’esprimersi) “difficilese”, Bergoglio punta dritto verso la sua comunicazione nitida e trasparente, per quanto audace possa essere valutata da non pochi osservatori.
Se volessimo abbozzare a grandi linee una sintesi di questo decennio del suo pontificato, non si può non affermare che, anche se le prese di posizione nei suoi confronti sembrano crescenti, pure non sono certo soltanto i non pochi osanna che sta sempre più raccogliendo fra la gente a condizionare il suo operato pastorale, quanto piuttosto la sua incrollabile fede nella giustizia e nella missione più in generale della Chiesa. Di tutto questo è costante e rassicurante testimonianza e fedele viatico nell’esercizio della sua missione proprio il suo personale ed autorevole “linguaggio francescano“.
Questo linguaggio, sobrio ma essenziale, semplice ma oltre modo comunicativo, viene peraltro rafforzato anche attraverso il suo quotidiano “modus vivendi“. Ad esempio, come la sua gente sa, ben s’addice al suo linguaggio la sobrietà nel vestirsi: indossa infatti scarpe non papali, probabilmente per motivi fisici, rispetto alle rosse fiammanti Prada di Benedetto. Oppure esce per comprare di persona occhiali o altro, facendo sempre attenzione ad ogni tipo di spreco. E’ da collocare in questo contesto lo stesso abitare a Santa Marta (per “non impazzire in solitudine”, con la sua corte, al terzo piano del Palazzo apostolico), più volte ribadito e giustificato. Ma questo non tanto perché non ama proprio la solitudine, quanto perché – dopo lo scandalo VatiLeaks causato dalle guerre di potere dei cardinali – preferisce restare a stretto contatto con la curia, quasi a volerla così marcare ad uomo. Ecco spiegata la decisione di snobbare il lussuoso Palazzo apostolico preferendogli Santa Marta, una sorta di albergo vaticano dove da un lato risiedono i preti e i vescovi che lavorano alla Santa Sede, in particolare alla segreteria di Stato, e dall’altro si affacciano o son di casa i viaggiatori saltuari come nunzi e cardinali stranieri, che portano le loro peculiarità e quindi linfa nuova alla Chiesa, ormai sclerotizzata ed anchilosata sempre più. Ma è altresì assicurato, costantemente nella sua quotidianità anche verbale, uno speciale dialogo fra tutti gli “ospiti” che vivono in questo singolare albergo religioso o prezioso osservatorio del mare ecclesiastico talvolta in tempesta. Se ne vedono anche i risvolti da certi comportamenti comunitari fra i residenti di Santa Marta, i quali hanno ormai abdicato al crocifisso in oro a favore di quello in ferro indossato dal loro diretto superiore, che chiede sempre informazioni e chiacchiera volentieri del più e del meno.
E’ anche vero che Bergoglio ascolta tutti ma alla fine decide per lo più da solo, di testa sua. Fra le numerose iniziative da lui promosse in prima persona, certo dopo essersi confrontato con i suoi fratelli in Cristo, non possiamo certo non menzionare l’anno giubilare della Misericordia, convinto più che mai che se Dio è misericordioso verso di noi, anche la Chiesa non deve giudicare o condannare, semmai aprirsi alla tenerezza del Padre verso i suoi innumerevoli figli, soprattutto quelli più deboli e fragili. A parte la “misericordia”, fra le parole più presenti nel magistero francescano decisamente schierato per una “Chiesa di popolo”, sono da annoverarne almeno tre ancora, fra loro allitteranti, vale a dire: pastori, poveri, popolo.
Obiettivamente è senz’altro prematuro fare un bilancio definitivo del pontificato di papa Francesco vivente, anche se è facile immaginare che senz’altro lascerà il segno nella storia della Chiesa e nel mondo. Tanti gli interrogativi che si pongono, in particolare a conclusione dell’odierno decennale del suo singolare decennale di pontificato. Non vi sono però dubbi circa la cristallinità del suo linguaggio pastorale, anche perché di lui tutto si potrà dire, tranne che “predichi bene e razzoli male”: basti pensare alla sua tenace lotta contro gli abusi, convinto che “non ci sono privilegi né differenze di classe”, con il suo consueto linguaggio chiaro ed eloquente, che lo caratterizza nei più disparati contesti (dal più avvertito “fa male vedere preti su belle auto!” fino all’imbarazzante anche se misericordioso affermare che “la Chiesa è grande ed è fatta di santi e di peccatori”).
Resta da chiedersi se sarà sufficiente questo efficace modo di comunicare del primo papa latinoamericano per mandare in soffitta il difficile, spesso incomprensibile ecclesialese, di cui più volte abbiamo parlato! Una cosa è certa e sotto gli occhi di tutti, siano essi atei che fedeli ed osservanti cristiani: Bergoglio, con il suo modus loquendi, ma soprattutto con i suoi esemplari comportamenti e stili di vita, sta ormai disegnando sempre più efficacemente i contorni di una Chiesa rinnovata, che possiamo definire “in uscita” e soprattutto capace di abbandonare il linguaggio dei dotti ed essere in grado di parlare con tutti. Se infatti certe parole sono altrettante chiavi di volta di un pontificato che anche grazie al parlar semplice ha fatto breccia nel cuore della gente, costituiscono ugualmente (e forse di più) messaggi di straordinaria potenza comunicativa i suoi innumerevoli gesti concreti: ne ricordiamo ancora altri, come la lavanda dei piedi del Giovedì Santo in molteplici luoghi simbolo, il significativo svolgimento della prima visita apostolica a Lampedusa, la proclamazione di un Anno Santo della Misericordia, la messa a disposizione per i poveri di docce e barbiere in piazza San Pietro.
(Per quanti volessero scrivere al prof. Rocco Berardi, l’email è rorolein@virgilio.it)
Nelle foto, Papa Francesco in alcune delle sue espressioni più iconiche