San Nicola, ponte tra Dante e la Puglia

Con la conferenza del prof. Fjodor Montemurro al Museo "De Palo-Ungaro", il comitato bitontino del Dantedì rende omaggio al Sommo Poeta nella settimana dantesca

Nel 1900 il linguista pugliese Nicola Zingarelli pubblicò, per la casa editrice fiorentina Olscinskij, un saggio su Dante e la Puglia. Lo studioso di Cerignola, universalmente (e forse più) noto per il suo celebre Vocabolario della lingua italiana, osservava che il nome ‘Puglia’ e il suo derivato ‘pugliese’ sono attestati con una certa frequenza nelle opere di Dante Alighieri, sebbene non nell’attuale significato geografico che delimita quel territorio denominato, anche un po’ scherzosamente, “stivale” d’Italia.

Quello che il poeta fiorentino chiama reame di Puglia, in realtà, abbracciava, nella sua concezione, l’intero Meridione della nostra penisola. Dante la definisce “fortunata” pur nel suo “sangue dolente” proprio perché, come avverte lo stesso Zingarelli, travagliata da rapidi e alterni mutamenti di fortuna: crocevia di popoli, merci, lingue e culture e, al tempo stesso, terra di grandi battaglie e scontri decisivi in quanto snodo strategico del Mediterraneo.

Se un sodalizio tra Dante e la Puglia c’è stato è, tuttavia, improbabile che il Sommo Poeta sia venuto in Puglia nonostante il fascino su di lui esercitato da San Michele e la grande – ma trattenuta perché invisa alla Chiesa – passione per Federico II, il Puer Apuliae”, esordisce Fjodor Montemurro, docente di lettere presso il liceo Tarantino di Gravina in Puglia, nonché presidente della Società Dante Alighieri – Delegazione di Matera.

Il prof. Fjodor Montemurro

Istituita per legge il 17 gennaio 2020 su ispirazione di un’idea germogliata dalla penna di Paolo Di Stefano in un suo articolo sul Corriere della Sera già nel giugno 2017, la Giornata nazionale dantesca non è solo un atto dovuto e un omaggio per un poeta letto ovunque nel mondo, il cui valore fondativo nella storia culturale europea è pari a quello di Omero o di Shakespeare, ma un incoraggiamento allo studio dell’opera dantesca e anche alla sua frequentazione nelle forme più libere e inclusive. Nella convinzione che, se il suo messaggio appartiene a tutti, l’intitolazione di una giornata a suo nome è il modo migliore per ribadire la centralità di Dante.

Anche a Bitonto il Comitato del Dantedì presieduto da Nicola Fiorino Tucci, docente di lettere presso il liceo scientifico “G. Galilei”, assieme alla Società Dante Alighieri cittadina e in collaborazione con la fondazione De Palo-Ungaro, il Centro Ricerche di storia e arte bitontina, l’Associazione Docenti, la Fidapa e l’Università dell’Anziano, ha celebrato l’autore della Commedia con una densa rassegna di incontri, proiezioni cinematografiche, seminari, lecturae Dantis e spettacoli musico-teatrali. Una risposta pronta ed entusiasta anche quella delle scuole bitontine di ogni ordine e grado, a riprova che la manifestazione è ormai ben radicata nell’immaginario culturale e sentimentale del nostro Paese.

In particolare, un aspetto del dibattito scaturito dal Dantedì che rimane vivo nell’esperienza dei lettori della Commedia è il rapporto tra Dante, la Puglia e San Nicola. Se è vero che il Sommo Poeta non ha mai viaggiato in Puglia e non conosceva direttamente il dialetto meridionale, il suo connubio con Nicola di Bari è tutt’altro che scontato, poiché il padre della letteratura italiana e il santo patrono degli studenti sono entrambi figli del Medioevo, ben sedimentati nella cultura del proprio tempo. “Avviare una conversazione con e su Dante per intravedere – quella dantesca è, infatti, una poesia “visiva” – quanto di Puglia sia presente nell’opera di Dante, esplicite o meno che siano le citazioni e i riferimenti alla Puglia, è stata la sfida di questa meritevole iniziativa”.

A partire dall’input di Nicola Pice, Presidente della Fondazione “De Palo-Ungaro”, ha preso avvio la conferenza-dibattito del prof. Fjodor Montemurro presso l’auditorium del Museo Archeologico di Bitonto. “Chi promuove la cultura nel senso più nobile di curiosità, narrazione, ricerca, in definitiva conoscenza, è refrattario alla logica dei “compartimenti stagni”. In tal senso, l’impegno profuso dal prof. Fiorino Tucci è stato un gigantesco convettore di energie, dall’alto e dal basso, che ha visto una vasta rete di associazioni del territorio cooperare in sinergia per le celebrazioni dell’anniversario dantesco”, ha prima affermato Marino Pagano, Presidente del Centro Ricerche.

A partire dagli studi approfonditi dello storico napoletano Carlo Troya, l’opera dell’Alighieri, fino ad allora relegata tra le figure di secondo piano del Medioevo, iniziò ad essere conosciuta e riscoperta in tutta la penisola: Dante veniva riscoperto come un uomo d’azione interprete del sentimento di italianità e la Divina Commedia profondamente incardinata nella storia italiana”, afferma Montemurro.

Nel De vulgari eloquentia il Sommo Poeta compie un’operazione non solo di natura filologico-estetica – costituire un volgare cardinale, aulico e curiale privo di parentela linguistica con i tredici dialetti elencati – ma anche e, soprattutto, politica: esortare gli stati italiani del Trecento a mettere da parte le ataviche rivalità cogliendo ciò che di buono c’è in ogni volgare al fine di esprimersi unitariamente in un’unica lingua nazionale”, ha osservato, spiegando che Dante, “pellegrino attento alle parlate e ai linguaggi nell’Italia del suo tempo, divide l’Italia non tra nord e sud ma tra versante adriatico e tirrenico, citando il pugliese tra i quattrodici dialetti principali d’Italia”.

Nella foto, da sinistra, Fjodor Montemurro, Marino Pagano, Nicola Fiorino Tucci, Nicola Pice nell’auditorium del Museo archeologico “Da Palo-Ungaro” di Bitonto (Ph. Giuseppe Fioriello)

La questione – il cui nocciolo essenziale già Zingarelli, a suo tempo, aveva colto in nuce – è che Dante non conosce o ignora le diversità radicali tra i dialetti come il foggiano (dauno), il biscegliese, il barese (peucezio) e così via. Riferendosi all’idioma meridionale, lo definisce “sconcio” e “barbaro” (turpiter barbarizant) e ne stigmatizza la scabrosità (asperitate) poiché impiega suoni poco scorrevoli, non degni cioè di una lingua letteraria. Il peggior dialetto d’Italia, per Dante, si parlava a Roma; quello genovese difettava per l’ossessiva allitterazione del suono “z”; persino autori come Guinizzelli sono messi alla berlina dal fiorentino per essersi allontanati da una certa musicalità. Ad alcuni poeti pugliesi che si discostarono dal loro dialetto e poetarono in modo pulito, Dante riserva, tuttavia, note di elogio.

Nella nona bolgia dell’Inferno, al fine di tratteggiare al meglio l’atmosfera luciferina del primo dei tre regni dell’oltretomba, Dante menziona la Puglia presentandola come terra sì fortunata ma, al tempo stesso, afflitta da repentini mutamenti di sorte nonché da battaglie dure e sanguinose. E ricorda Pirro, Annibale, Canne della battaglia, i Romani, fino a Roberto Guiscardo, Manfredi, Corradino, Carlo d’Angiò, quali vicende di fortuna accadute in Puglia”, spiega.

Riguardo alla battaglia di Ceprano del 1266 che vide gli alleati dell’imperatore Manfredi arrendersi alle truppe angioine, il poeta fiorentino rimarca l’inaffidabilità dei pugliesi intesi sempre in senso generico: «A Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese» (Inf. XVIII, v. 16); un’osservazione alquanto ingiusta se si considera che molti pugliesi combatterono con valore, anzi perirono in quella battaglia o languirono nelle prigioni angioine tra il Reame e la Provenza, dove furono deportati”, precisa il professore.

Proseguendo il suo viaggio in compagnia de “lo duca” spirituale Virgilio, Dante giunge nella quinta cornice purgatoriale, occupata dalle anime penitenti degli avari e dei prodighi; attaccati in vita ai beni terreni essi giacciono adesso sdraiati con il viso rivolto a terra, le mani e i piedi legati, e piangono recitando un versetto del Salmo 118. Queste anime durante il giorno gridano esempi di generosità e di povertà. Durante la notte, invece, esempi di avarizia punita.

Il canto XX del Purgatorio si apre e si chiude con il pianto salmodiante dei penitenti. In questo contesto devozionale si situa l’episodio di san Nicola di Mira, patrono di Bari, collocato dunque tra gli esempi di povertà e di generosità; gli altri due sono, rispettivamente, Maria, la quale adagiò suo Figlio in una umile mangiatoia, in una stalla; e Fabrizio, il console romano che, per ben due volte, rifiutò cospicui doni dai nemici, morendo, poi, in povertà”, puntualizza Montemurro. Vissuto tra il III e il IV secolo, San Nicola era venerato in tutta la cristianità d’Oriente e d’Occidente e la sua leggenda era stata largamente narrata e raffigurata da pittori e scrittori. Con questi versi Dante lo introduce: «Esso parlava ancor de la larghezza che fece Niccolò a le pulcelle, per condurre ad onor lor giovinezza» (Purg. XX, vv. 31-33).

L’episodio della generosità di San Nicola, a cui Dante allude, era notissimo nell’agiografia del santo: venuto a sapere della difficoltà economica di una famiglia e della insana intenzione di un padre che, mosso da disperazione, cercò di indirizzare le sue tre fanciulle verso la prostituzione non potendo più garantir loro una vita dignitosa, San Nicola si recò, di notte, per ben tre volte presso la loro abitazione per donare, in modo anonimo, tre rispettivi sacchi colmi di monete, sufficienti a valere come dote nuziale per le tre ragazze”, chiarisce il docente.

Babbo Natale brinda con una bottiglia di Coca Cola, simbolo del consumismo; San Nicola di Bari, raffigurato benedicente e in mano una Bibbia (Fonte: Aleteia).

Attraverso questi tre esempi virtuosi, e segnatamente quello nicolaiano, il poeta fiorentino intende sottolineare non tanto un modello di vita povera, quanto, piuttosto, un modello di vita di totale distacco dai beni terreni e dalla ricchezza”, conclude Montemurro.

Il mito di San Nicola è il frutto di un sincretismo culturale e religioso che si trascina da un paese all’altro, da un continente all’altro, da poco più di milleseicento anni. Una presenza che si manifesta cambiando pelle e nome quando, tra XIX e XX secolo, compie la traversata nell’Atlantico approdando al nuovo continente come Santa Claus. La successiva metamorfosi nel personaggio di Babbo Natale a opera dei mass media non ha, tuttavia, appannato il pragmatismo che questo “santo d’azione” esercitò nei confronti degli uomini del suo tempo con compassione e generosità. Al contrario, non dovendo più esibire i muscoli, disarmato, San Nicola continua a svolgere il proprio compito di equilibratore tra infanzia e mondo degli adulti, intervenendo una volta all’anno a beneficio di ogni bambino che abiti la terra. Nel segno dell’odierno Zeitgeist.

Le foto sono di Giuseppe Fioriello