Questa mattina la ribalta del Petruzzelli è stata tutta per Sonia Bergamasco. “Non vi dico quanto è stato difficile portarla qui“, ha detto sorridendo Felice Laudadio. L’attrice lo fissa con la sua consueta eleganza mentre siede sulla poltrona al centro del proscenio. Osserva il pubblico (che a sua volta la osserva attonita), lanciando ogni tanto l’occhio al consorte in platea, a poche file di distanza. Laudadio descrive la sua esperienza teatrale, la sua formazione e la sua attitudine, da attrice legata al teatro, a toccare gli oggetti, a confrontarsi con la scenografia. “Quella tendenza a entrare in contatto con il palco, con il teatro al fine di assorbirne l’essenza“, sintetizza Laudadio.
Il direttore del festival made in Bari lascia quindi il palco, scendendo le scale bianche e dorate e lasciando la parola all’attrice, che presenta il suo nuovo libro Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice. Un saggio, tiene a precisare, che “non è destinato ad un pubblico di esperti e di addetti ai lavori, ma a chiunque voglia conoscere questo mestiere che tengo a definire un mestiere del ‘fare’, del tutto basato sulla manualità, sull’azione, sul fare per l’appunto“. Un mestiere complesso, che spesso unisce diverse arti e questo l’attrice milanese lo sa bene, tanto che può vantare perfino un diploma in pianoforte. “La musica è fondamentale per me, perché mi ha messa in relazione con l’altro. Mi ha dato la possibilità di usare la mia voce, tra le tante voci che si affastellano nel mio stesso corpo. La mia è una ricerca della voce, di una modalità di espressione, un modo per mettere ordine tra le tante bellissime sfumature dell’umano e del mio essere. Non potrei essere un’attrice se non trovassi un ordine in tutta questa confusione, che per molti è ricchezza“, racconta Bergamasco.
Ascoltandola parlare non si può non pensare al film appena visto. Un film che si basa interamente sulla voce, sul suono, sulla musica ma anche sulla percezione che si ha dell’altro. Riccardo va all’inferno, lungometraggio di Roberta Torre del 2017, è una rivisitazione in chiave moderna e dark di una delle prime tragedie di Shakespeare: precisamente è il dramma che ha permesso al poeta inglese di istituire una figura che sarà ricorrente nel suo teatro e che renderà sempre più particolareggiata e caratterizzata, mostrando l’umanità di colui che definiamo “mostro”. Chi è il cattivo? Si nasce cattivi o lo si diventa? Si nasce con i denti, come spesso si ripete di Riccardo, o si è piuttosto il risultato di circostanze crudeli e di cattiverie perpetrate senza ritegno? Il giovane Shakespeare si stava confrontando con un interrogativo che ci mette ancora oggi in difficoltà.
Il film di Torre estende a tutti i personaggi il concetto di cattiveria e Riccardo, seppur classificato e considerato il peggiore in assoluto, a conti fatti è un “agnellino” se paragonato agli altri. Ci fa quasi simpatia, con la sua zoppìa provocata nel film dai due fratelli, due bulletti incalliti e insopportabili. E’ perfino l’unico che ha un comportamento morigerato, che non si droga e non beve come un ossesso. Un attento stratega, che si serve dell’ausilio degli ultimi, degli emarginati, dei dimenticati, costretti a nascondersi nelle segrete del castello, dove si fanno testimoni delle voci, appunto. Il film è anche musicale, anche se ciò non consente di capire il vero straordinario talento di Riccardo: mutare, trasformare la situazione con le parole, porla a suo vantaggio, senz’armi o altro utensile che non sia la lingua.
Sonia Bergamasco interpreta la madre di Riccardo (Massimo Ranieri) e la sua bravura sta proprio nel rendersi più crudele di Riccardo, la vera pianificatrice e stratega, e alla fine la sola che davvero può governare su questo regno, non di York ma di Roma. Solo lei può essere in grado di personificare il regno, di confondersi con la sua facciata di finto buonismo. Mentre Riccardo pronuncia il voto che l’ha reso celebre già nell’Enrico VI (parte terza) e che segue come fosse un proverbio irrinunciabile: “visto dunque che il cielo ha così formato il mio corpo, l’inferno perverta la mia mente sicché corrisponda ad esso“.
Visto, dunque, che tutti lo ritengono cattivo, allora lo diventa per davvero. Si fa strumento del male in terra, seppure non eguagli in cattiveria tutti coloro che eliminerà per salire al vertice. “Il film potrebbe insegnarci che noi ci lasciamo ingannare dalle apparenze e ci dimentichiamo che non è tutto così semplice, così facile da definire. Eppure, tiriamo avanti nelle nostre considerazioni errate e inconcludenti“, riflette l’attrice. “Magari ragionassimo un po’ meglio oggi, invece di lasciarci ingannare. Il cinema sono certa che sia in grado di aprire gli occhi. Per questo, credo, di essere un’attrice. Il cinema ha sempre aperto gli occhi anche a me“, conclude. Il pubblico, in visibilio, non può fare a meno di applaudire, chiudendo una delle master class finora più belle e significative.
Questa la mattinata del Bif&st. Ieri, invece, sullo schermo del Petruzzelli è andato in scena Lascia perdere, Johnny! del 2007, esordio alla regia di Fabrizio Bentivoglio, che ottenne cinque candidature ai David di Donatello e incassò 427mila euro, una cifra non male per un film italiano. Il film torna indietro nel tempo, agli anni ’70, quando l’Italia si stava godendo la sua sudata ricchezza e non mancavano quei giovani che si approcciavano alla musica, covando dentro di sé il sogno di poterne fare un giorno il proprio mestiere, di poter vivere come i loro miti, quei rocker e rocchettari che morivano giovani ma dando alla musica un volto nuovo che non avrebbe mai avuto senza di loro. Fausto Carella, Faustino per gli amici, interpretato dall’appena diciottenne Antimo Merolillo, vorrebbe solo sfondare come chitarrista, nella Caserta degli anni ’70, ed evitare magari di partire per la leva militare.
Però, per sfondare deve fare la gavetta. E sì, la gavetta! Parola che i giovani ben comprendono, che riecheggia sulle bocche dei tanti spettatori, qualcuno dei quali commenta che ormai la gavetta è solo una parola che si divertono a pronunciare e che non serve più. Si dovrebbe cancellare dal vocabolario. Intanto, Faustino detto Johnny da un famoso pianista con cui inizia a lavorare, ne deve fare eccome di strada. Passa dalle feste di paese in piazza a Raffaele Niro (Ernesto Mahieux), un impresario losco da cui è certamente meglio stare lontani. Eppure, è grazie a questo ingaggio che Faustino viene a contatto con Augusto Riverberi (Fabrizio Bentiviglio), che gli darà un’opportunità proprio quando nessuno crederà più in lui, proprio nel momento in cui Johnny davvero lascerà perdere questa sciocca idea del musicista. Ma sì, meglio un lavoro ben pagato, fa niente se non è quello che fa per noi. E sì, andiamo a fare il militare, così ci irrobustiamo e diventiamo floridi abitanti del presente.
Ma fortunatamente non va così: in ultimo c’è sempre la speranza, che giunge in un periodo non proprio sereno, come quello del 2007, quando c’erano Johnny ovunque, in ogni angolo d’Italia, che si aggrappavano al sogno di poter essere notati e ingaggiati da qualcuno. Fabrizio Bentivoglio ha saputo raccontare il presente meglio di un manuale di sociologia. L’ha cristallizzato in un film che torna indietro nel tempo solo per poter parlare con più trasparenza del presente, un presente che non possiamo che sentire vicino a noi e a chi siamo oggi. “Il cinema deve essere, tra le tante cose, lo specchio del presente – spiega il regista e attore – e quindi ho voluto dare l’illusione di star parlando degli anni ’70, quando tutto pareva funzionare al meglio, ma in realtà era di quel 2007 che parlavo. Volevo rivolgermi ai giovani dicendo di tenere duro, di non mollare. Perché i sogni di ognuno vanno onorati fino in fondo. Quel Johnny resta ancora adesso il simbolo di chi sogna e ha tutte le carte in regola per poterlo fare“.
Il giornalista Marco Spagnoli consegna il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence a Bentivoglio proprio per la sua straordinaria capacità di raccontare il presente attraverso la lente del passato e della storia. “Sono certo che sia un momento in cui abbiamo bisogno di puntare sui giovani, perché li abbiamo privati di tutte le certezze e della loro grinta. Ma il loro fuoco, il loro ardore, la loro voglia di vincere e inseguire i sogni, ci salverà tutti. Il loro impegno ecologista, il loro occhio vigile sulle questioni del presente e il loro desiderio di non scendere a patti con le ingiustizie del secolo sono gli ingredienti vincenti per un’effettiva rinascita. Ne sono sicuro“, conclude Bentivoglio e le sue parole riecheggiano nel teatro, accolte da scroscianti applausi.
Le foto sono tratte dal sito del Bif&st