Dalla ‘sinodalità diffusa’ al ‘dinamismo trinitario’ tutti i peccati dell`ecclesialese

Come tutti i linguaggi specialistici anche quello della chiesa mostra i limiti della comunicazione burocratica a scapito dell'autenticità del messaggio cristiano

Il panorama della ricerca italiana sui linguaggi specialistici (a cominciare dall’informatica) e settoriali (attinenti soprattutto la tecnica o le scienze, ma anche il linguaggio sportivo, medico, giuridico, persino quello della pubblicità o dell`amministrazione) è andato sempre più ampliandosi a partire dalla fine degli anni ’80, segnando un ulteriore progresso nell’ultimo ventennio con alcune messe a punto metodologiche e non pochi approfondimenti specifici. Da qualche tempo, a queste ‘lingue speciali si sono accostate nuove formazioni linguistiche che presentano il suffisso -ese usato in senso estensivo, a formare sostantivi maschili denominali che indicano un linguaggio ibrido o gergale, con connotazioni negative (difficilese o concettualese) o per lo più considerato in senso peggiorativo (si pensi a sinistrese o a burocratese).

Proprio in ques’ultimo contesto è da collocare il parlare (o scrivere) “ecclesialese“, che prende le mosse dal ‘linguaggio della Chiesa’ (< latino ecclesia ‘riunione dei fedeli, luogo di culto’, a sua volta dal greco ekklesìa ‘assemblea’), in particolare quello degli ultimi decenni che si caratterizza negativamente in quanto assai distante dal parlare comune e dalla sensibilità della gente. Il fatto è che questo linguaggio (del mondo) ecclesiastico, spesso caratterizzato dalla presenza di termini oscuri o di difficile comprensione (come fra poco avremo modo di vedere), pervade anche ambiti o funzioni pastorali ben al di fuori dello spazio chiesa o delle navate del tempio divino: ad esempio, nel campo della pianificazione familiare e sessualità “altro è ciò che può dire una sana teologia, che bene illumina le coscienze, altro è ciò che proviene dalla ripetizione di formule stantie” (intervista a Carlo Maria Martini, la Repubblica 23.05.2009).

Pare che sia stato il giornalista cattolico Giovanni Fallani nel 2009 a battezzare con il nome ‘ecclesialese’ quella singolare neolingua (sempre più imperante nella liturgia ecclesiastica) che costituisce in pratica il ‘politichese della Chiesa’. La sua lotta contro l’ecclesialese significava contrastare l’elemento incomprensibile ed in fondo arrogante che si annidava in un linguaggio che doveva essere ‘sacro’ per definitionem ma rischiava di venire sempre più travolto da un linguaggio senz’anima, per nulla umano. Tenacemente ancorato alla purezza della fede e quindi alle parole della Chiesa, Fallani non ha smesso mai di battersi perché nessuno le rendesse fredde, vuote, pesanti.

Il fatto è che vi sono termini pressoché indispensabili al messaggio della fede che appartengono ai diritti ‘sacri’ dell’esegesi, del tipo dossologia, epiclesi, anamnesi, mistagogia, embolismo, solo che restano incomprensibili alla quasi totalità dei fedeli. Il rinnovamento linguistico va semmai ricercato in altri contesti e ambiti sociali (giovani, cultura e mass media, impegno socio-politico, famiglia, povertà diffusa, ecc.) che afferiscono all’evangelizzazione della società. Ecco perché sono da deprecare espressioni come operare una riflessologia metodologica sulla metodologia di approccio (invece che ‘studiare il modo con cui risolvere il problema’), quali ricadute avrà questa iniziativa comunionale? (a favore di ‘speriamo che la nostra comune iniziativa dia effetti positivi’), cattolici in tensione unitiva (al posto di ‘cattolici in cerca di maggiore unità’), sul ciglio dello spaccato socio-culturale dell’oggi (rispetto al più chiaro ‘di fronte alla situazione’).

Il rischio che il linguaggio della chiesa sia ormai accostabile al linguaggio amministrativo è sempre più fondato. Non so quanti ancora ricordino gli oscuri cartelli stradali di una ventina d’anni fa nel centro città, a Roma in particolare, dove ad esempio era scritto: “Stazionamento per due veicoli ippotrainati”, vale a dire ‘parcheggio consentito solo a due carrozze’. Per i burocrati del comune capitolino occorreva servirsi di un linguaggio più adatto a ‘Roma capitale’, ricorrendo così al burocratese come lingua sacra, creata appositamente per inculcare nei cittadini un salutare timore verso le istituzioni. Anche nella Chiesa è avvenuto qualcosa di simile: anch’essa si è dotata di una sua particolare neolingua, che quindi occorre conoscere se si intende se non parlare almeno pensare secondo le modalità della Chiesa. Eppure non si può non chiedersi quanti cristiani sono in grado di capire “mostri” linguistici come ottica comunionale, che si affiancano ad altre espressioni ormai abusate del tipo: farsi carico di, essere chiamato a, passaggio epocale, carenza di progettualità, assunzione di responsabilità, fino all`enigmatica e misteriosa realtà pneumatica (che vuol richiamare lo Spirito Santo, non certo l’officina del gommista!).

Per entrare più da vicino nel merito del lessico impiegato dal linguaggio usato nelle nostre chiese, c`è poi da chiedersi quanti (cristiani e non) riescono a capire un gran numero di espressioni, per lo più una sorta di koiné per iniziati, che circola nell’Ecclesia ma anche nei convegni cattolici e centri di formazione laicale. Passino pure parole come sfida (che poi colpisce per il suo connotato pugnace, insolito per una chiesa pacifica), per fortuna spesso accompagnata da una tensione unitiva; oppure mistero, conversione, discernimento e simili, ormai ben inseriti nei diversi settori sociali, del pari che l’opzione preferenziale per i poveri e per gli ultimi o altre espressioni forti lanciate dallo stesso Giovanni Paolo II, come  la stessa nuova evangelizzazione o il terzo millennio, la cui efficacia suasiva però si è col tempo affievolita se non smarrita a motivo della loro frequente iterazione. E come non reagire poi di fronte allo strapotere dell`ecclesialese  quando ci martella con il ricorso a monotoni leitmotive come sinodalità diffusa oppure dimensioni intraecclesiali?

Ci si chiede allora come porre rimedio ai deleteri effetti imitativi conseguenti alla comoda ripetizione e all`accoglimento passivo di queste espressioni: per assurdo, il respirare l`aria di sacrestia non aiuta, anzi rafforza l`iterazione del gergo ecclesiale dei pochi coniatori di questo lessico speciale. Vi sono studiosi che ritengono che il vivere laicamente l`esperienza religiosa può forse aiutare a liberarsi dalla pigrizia imitativa nell`accogliere supini frasi fatte: si è dell`avviso peraltro che non è da rifuggire dalla ricerca dell`espressione personale, senza dimenticare che il nostro lessico è ricco di espressioni sinonimiche, che peraltro attraverso il ricorso al procedimento stilistico della variatio, salutare e per definizione affatto monotona, fanno opera grandemente meritoria verso quell`arte del bel dire (o retorica), che poi significa andare a bersaglio nella comunicazione!

La neolingua si inserisce in un più generale movimento di adeguamento ai tempi: anch`essa fa parte del ´concettualese`, il cui scopo è quello di creare un mondo pulito e perfetto, in cui da un lato prevalgono solo i ´concetti` e dall`altro vengono espulse rigorosamente tutte le cose concrete, a cominciare dall`umano (per sua struttura contradditorio e approssimativo, quindi imperfetto). Ha ragione il biblista Bruno Maggioni, quando discutendo sull’ecclesialese sostiene che “oggi la parola non corre più perché è appesantita dai troppi strumenti che abbiamo inventato per farla correre”. L’uso del concettualese non è affatto amore per la precisione del  linguaggio, ma il tentativo di applicare esattamente, anche con stereotipi e senza approfondimenti, un modello che non viene più discusso: questa ´concettuale` (e linguistica) disumanizzazione del mondo – che aborre dall`uso di  parole crude ma forti e chiare, vere e perfino sanguigne – è poi affidata a quella enfasi retorica che s`illude di poter modernizzare la lingua e che, in realtà, diventa spia di una grave mancanza di contenuti spirituali ed anche culturali in genere.

Perché non ripulire allora il linguaggio della Chiesa e renderlo più umano? Fra i più indigesti esemplari di ecclesialese da rivedere, in primis da parte degli operatori che svolgono peraltro con dedizione il loro lavoro all’interno della Chiesa, ricordiamo: il dinamismo trinitario fino all’enigmatico intervento, quello del vescovo, destinato ad entrare con tre asterischi negli annali; frequentemente usato è il lessema sostantivale ‘ricaduta’, impiegato in due contesti aggettivali, vale a dire r. pastorale e r. vocazionale. Potrebbero pure… scendere dal pulpito sia l’ampio spettro della pastorale (ed andare a teatro insieme allo ‘spettro del vecchio Amleto’ di Shakespeare) che lo sfondo di una prospettiva religiosa (tanto cara al campo architettonico); senza necessariamente assumere le mediazioni prima di aver consultato qualche manuale di farmacopea; ma soprattutto senza ricorrere all’atletico, per non dire palestrato esercizio di prossimità invece del meraviglioso e più semplice ‘amore per il prossimo’.

Con un accorato invito finale a che il linguaggio sacro non abusi ancora di termini come problematica oppure tematica né riconduca tutto al vaglio di livelli o dimensioni. Non siamo tuttavia per nulla d’accordo con coloro che, acriticamente e senza sufficiente cognizione di causa, sono avvezzi a giudicare superficialmente alcune omelie come scialbe, poco approfondite, spesso non preparate.

(L’email del prof. Rocco Berardi è rorolein@virgilio.it)

Nelle foto, alcune opere di Fernando Botero