Dieci anni alla guida della chiesa universale. Un piccolo tratto di un cammino che ha oltre duemila anni di vita, di storia. Un piccolo tratto ma sufficiente a dimostrare come in una realtà ben consolidata, provata da tante intemperie ma soprattutto vivificata da innumerevoli esempi di impegno autenticamente cristiano – qual è la Chiesa – ci sia la possibilità di occupare vecchi spazi e crearne di nuovi.
E il papa lo ha fatto da subito: appena eletto, espressa la sua accettazione, scegliendo il nome Francesco, ha immediatamente detto da che parte si collocava, da che parte sarebbe andato, dove avrebbe condotto la chiesa. Una scelta per la quale, coerentemente, ha lavorato con slancio e determinazione. Una scelta non originale, o innovativa, in realtà. Ma l’unica realmente consentita. Annunciare il vangelo, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, stando dalla parte degli ultimi: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Matteo, 25,35-44). Certamente una scelta radicale che ha fatto esclamare a papa Francesco, a pochi giorni dalla sua elezione: “Quanto vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”.
Dieci anni fa il conclave andò “a cercare un nuovo vescovo di Roma alla fine del mondo”. Lo disse Francesco stesso al primo saluto ai tantissimi fedeli convenuti in piazza San Pietro. Ed è proprio da qui che è partita tutta la sua innovazione. Tutto con un semplice, ma forte “buonasera!”. La piazza, dopo qualche secondo di esitazione, gradì ed esultò! Un cognome italiano, Bergoglio, figlio di emigrati in Argentina, Francesco seppe ottenere gradimento e consenso chiedendo al popolo, prima di essere da questo benedetto, di pregare per lui, appena eletto papa, in silenzio. La piazza capì e, nel silenzio assoluto, pregò e chiese protezione divina per il santo padre.
Nasce così il feeling con il popolo di Dio. Un dialogo che dura con profitto, senza soluzione di continuità, da dieci anni. Dialogo e cammino indicato con grande chiarezza nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del novembre 2013, a pochi mesi dalla elezione del papa: “La Chiesa ‘in uscita’ è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: «Sarete beati se farete questo» (Gv 13,17). La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”.
Un saluto ed un messaggio di avvio molto chiaro: così l’esordio dell’esortazione apostolica: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni”.
Rivedere i dieci anni di pontificato di papa Francesco, sono la lettura più chiara della coerenza vissuta e testimoniata senza alcun risparmio. Due immagini, fra le tantissime, emergono, con grande efficacia: la visita a Lampedusa, primo viaggio apostolico di papa Francesco, la preghiera solitaria in Piazza San Pietro, sotto l’acqua, per la pandemia da Coronavirus. Una vicinanza assoluta all’uomo sofferente e un monito al modo in cui crediamo e viviamo, il mondo di oggi.
“Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto.
La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro”, le parole di Francesco a Lampedusa.
Il momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia sul sagrato della Basilica di San Pietro, il venerdì 27 marzo 2020 si apre con queste altre parole: «Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”.
Rileggere queste parole, questa grande preghiera per tutta l’umanità, rinnova il grande conforto, la grande vicinanza e condivisione che papa Francesco sa vivere e invita a vivere. Oggi, ai grandi e gravi problemi che affliggono l’umanità – emigrazione, pandemie, fame, miseria, povertà, siccità – si è aggiunta, con grande sofferenza, la guerra giunta sino nel cuore dell’Europa. La terza guerra mondiale a pezzi, come il santo padre suole definire gli innumerevoli conflitti in atto nel mondo, per la cessazione dei quali è fortemente impegnato.
Il cuore dell’enciclica Laudato sì’ esprime con grande efficacia le tre dimensioni dell’amore dell’umanità oggi: l’amore per il Signore, l’amore per la natura e l’amore per il prossimo. Un grande invito fatto ad ognuno di noi a farci carico di due temi che coinvolgono l’umanità intera: la crisi ecologica della “casa comune” a cui stiamo assistendo e la grave crisi delle relazioni, della fraternità. In Fratelli tutti – l’ultima enciclica – il papa sottolinea che nella casa comune viviamo tutti come un’unica famiglia e propone azioni concrete per restaurare il mondo e superare i malanni generati dalla crisi della pandemia, che ora è diventata crisi sanitaria, economica, sociale, politica: la pace, perché nessuna opera sarà possibile se le nazioni e i popoli continuano a combattersi; il dialogo, perché ciascuno trova la propria completezza nell’altro; il rafforzamento del multilateralismo e del no a ogni tipo di guerra; la lotta alla globalizzazione dell’indifferenza e la promozione dell’inclusione sociale. > (Dicastero Sviluppo Umano Integrale).
Mi rendo conto che una figura così grande e complessa, quella di papa Francesco, non può essere racchiusa in poche riflessioni. È davvero straordinario il lavoro che sta compiendo a livello spirituale, a livello umano e sociale sia all’interno della Chiesa, sia a livello mondiale. E non sempre con il vento in poppa. Emblematico, infatti, il ritardo con cui i vescovi italiani hanno risposto ad una chiara sollecitazione pastorale proposta con il discorso che Papa Francesco ha tenuto a Firenze, nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, davanti ai 2500 partecipanti al 5° Convegno nazionale della Chiesa Italiana, riuniti dal 9 al 13 novembre 2015 sul tema: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”.
In quella occasione il santo padre chiese: “Una Chiesa italiana non potente, ma inquieta, vicina agli abbandonati. La nostra sia una fede rivoluzionaria che cambia il mondo”. E ancora: “Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
“Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti”. (Evangelii gaudium, 49).
La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e dalle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa.
E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).
Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte.
Due pilastri: le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità. Sono poche parole, semplici, ma pratiche. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo la sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia e semplicità di cuore» (At 2,46-47).
Ai vescovi chiedo di essere pastori, non di più, pastori: sia questa la vostra gioia: sono pastore. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza. Nel suo articolato discorso, papa Francesco alla ricchezza e al rigore dell’analisi non ha fatto mancare il dono della proposta, presentata in punta di piedi, con grande umiltà: “Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni Regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, soprattutto sulle tre quattro priorità che avete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese”.
Il Sinodo? Come indicato da papa Francesco? Partito solo con otto anni di ritardo.
Una indicazione chiara e una raccomandazione: “Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che così sia. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227).
La grande, diretta e chiara capacità comunicativa di papa Francesco, diventa coinvolgente e concreta. Gli obiettivi programmatici della Evangelii gaudium – prendere l’iniziativa, coinvolgere, accompagnare, fruttificare e festeggiare – trovano pieno riscontro nell’agire quotidiano a servizio della missione.
Grazie, santo padre! Auguri santo padre!