La moderna Salomè di Michieletto ha i colori forti del noir

L'allestimento minimalista e l'atmosfera torbida e tenebrosa non rendono appieno la potenza e il lirismo dell'opera di Strauss, in scena al Petruzzelli di Bari

L’orrido, il macabro, l’eros. Il pot-pourri della passione torbida e tenebrosa è servito. Un sapido intruglio dal sentore politico, religioso e carnale risucchiato in un profluvio di sangue che miete vittime e scorre sui corpi di chi resta. Un peccato che si tramanda pari ad una tara ereditaria inestirpabile, una profezia declamata ad occhi chiusi in un cerchio di fuoco e una terra che chiama a sé, il sacrificio di un agnello sgozzato preludio e testimonianza della venuta di Cristo nel mondo, il Messia. Si compie la grandezza di Dio e di suo figlio nato da un concepimento verginale: il mistero escatologico del cristianesimo lentamente si rivela e irradia luce cancellando le tenebre.

Salomè è molto più del racconto neotestamentario o della narrazione musicale di Richard Strauss del 1905, composta da una partitura dai toni cupi a cui fanno da contraltare rare coloriture di azzurro. Salomè è un’eroina tragica di stampo senecano che non risparmia al pubblico l’esecuzione dei suoi piani: la decapitazione di colui che ha desiderato, Giovanni Battista. Ma prima della sua capitolazione e di quella dell’uomo adepto di Dio verso cui nutre una rovinosa bramosia, la bella principessa di Giudea ha patito i dardi dell’amore. Uno scarto notevole rispetto ai vangeli sinottici fedeli agli ideali di castità e di velata misoginia cari ad una morale cristiana che non ammette l’erotismo come elemento intrinseco alla psiche umana, perennemente soggiogata dalla sua forza propulsiva.

Nelle orecchie della giovane figlia di Erodiade la voce di Giovanni riecheggia come musica, i suoi occhi sfiorano il corpo dell’apostolo di Cristo “bianco come i gigli di un prato mai toccato dalla falce” o come la neve dei monti di Giudea. Nulla al mondo è paragonabile al candore del suo corpo, sul quale sfavillano per contrasto capelli morbidi come grappoli d’uva nera, grandi ciocche come cedri del Libano e la sua bocca procace, “un nastro scarlatto sopra una torre eburnea“. Educato al pudore, alla castità e alla preghiera, Giovanni copre il volto scongiurando ogni rischio di seduzione. Egli ripudia la sensuale fanciulla alla quale ricorda l’onta della sua miserevole stirpe: sua madre, la fedifraga Erodiade “ha saziato la terra col vino dei suoi vizi“, sciogliendo il legame coniugale con il marito Erode Filippo I e unendosi incestuosamente a suo cognato Erode Antipa, tetrarca di Galilea, divenuto patrigno di Salomè.

Con ardore sibillino Giovanni vaticina presagi funesti per l’intera casata a meno che la figliastra del sovrano segua le orme di Cristo convertendosi. Una redenzione che non può avverarsi, malgrado il germoglio sempre vivo dell’innamoramento. E i motivi non sono da ricercare nei dissidi familiari vissuti quotidianamente da Salomè, né nelle attenzioni poco gradite che il patrigno riserva alla figliastra e neppure nei consigli di Narraboth che, invaghitosi della fanciulla, tenta di dissuaderla dalla visione del Battista. La mancata redenzione di Salomè, cui si accenna nel capolavoro del compositore viennese su un libretto che mantiene quasi integralmente il dettato di Oscar Wilde, sottende una prospettiva ben più ampia di carattere storico.

Come sarebbe andata se la principessa di Giudea avesse aderito agli insegnamenti di Cristo, allontanandosi da un regno totalmente asservito e succube delle mire espansionistiche di Roma? Diverso sarebbe stato il finale ma non meno avvincente. Ed ecco che il gioco si fa più interessante quando dalle parole dei personaggi filtrano squarci di storia, sebbene molto sfumati. Quella storia che non ha né vincitori né vinti ma è in grado di offrire una panoramica disincantata di un contesto che vede la strenua opposizione del cristianesimo, ancora in fase embrionale, all’egemonia romana sui territori del vicino Oriente, nonché del progressivo sgretolarsi del giudaismo a fronte della predicazione cristiana del Messia.

Forse Damiano Michieletto avrebbe potuto osare di più nella sua Salomè a tinte fosche in scena al Teatro Petruzzelli, modellata sull’allestimento del Teatro alla Scala di Milano. Ai bagordi della reggia di Erode il regista veneziano preferisce abiti quasi contemporanei e uno spazio disadorno, illuminato da una gamma di colori primari variabile a seconda dell’intensità drammatica. Onirica e talvolta demoniaca l’apparizione di Giovanni presago di venti di morte. Non a caso la sua apparizione è accompagnata dall’incedere silenzioso di cinque angeli bendati, dalle scure ali piumate, forieri di una sorte nefasta.

Tra alte fiamme Giovanni si erge su quella che potrebbe essere considerata la lapide di Erode Filippo I, vero padre di Salomè e marito di Erodiade, ma che facilmente potrebbe prestarsi a molteplici interpretazioni. L’apostolo annuncia al pubblico che l’unione incestuosa tra Erodiade (Elena Gabouri) e il fratello di suo marito, Erode Antipa (Andreas Conrad) sarà di lì a poco punita col sangue. Quel sangue versato da Cristo sulla croce come segno tangibile di una magnificenza che salva l’uomo dal peccato. E allora, che il destino si compia.

Ferita nell’orgoglio femminile, Salomè si lascia convincere dal suo patrigno a danzare durante un banchetto conviviale a condizione che egli le restituisca la testa del Battista. Nessun oro, nessuna ricchezza è equiparabile a questo dono. Un pegno a cui il tetrarca di Galilea si sente di assolvere, malgrado i dinieghi iniziali. E quando il capo dell’apostolo è ormai tra le sue mani, la donna rievoca prima la sua fanciullezza (simboleggiata dall’ingresso di una bambina sulla scena con il medesimo abito ocra della protagonista), poi il suo status di innamorata e in un crogiolo di patimento e angoscia realizza ciò che aveva sempre desiderato: baciare le labbra di Giovanni ancora inumidite dal sangue.

“E il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte. Ho baciato la tua bocca. Era sapore di sangue? No, era sapore d’amore. Dicono che l’amore sappia di amaro. Però che importa. Ho baciato la tua bocca, Giovanni“, si dispera Salomè alla quale non resta che farsi uccidere -sotto il raggiante ostensorio che reca il capo marmoreo del discepolo- da chi aveva adempiuto ai suoi ordini donandole la testa del suo amato: Erode Antipa. Versi immortali quelli di un libretto operistico che consente di farsi apprezzare non tanto per la storia in sé, già pienamente conosciuta nella letteratura e nell’arte, quanto per il raffinato lirismo musicale, con la direzione del maestro Hartmut Haenchen, e librettistico mediante i quali si consuma una tragedia d’amore magistralmente interpretata dal soprano Jane Archibald, nel ruolo di Salomè, e dal baritono Samuel Youn nelle vesti di Jochanaan, Giovanni Battista.

Le foto della Salomé, in scena al Petruzzelli, sono di Clarissa Lapolla