Un anno di “menzogna speciale”

La propaganda, come fabbrica del consenso e manipolazione dell’opinione pubblica, è per il Cremlino un’arma strategica non meno letale dei missili ipersonici

«Se tutti andassero in guerra solo in base alle proprie convinzioni, le guerre non ci sarebbero più» disse il principe Andrej. «E sarebbe una cosa magnifica» aggiunse Pierre. Il principe sorrise. «Sì, forse sarebbe una cosa magnifica, ma non succederà mai».

In questo dialogo tra i due personaggi principali di Guerra e pace, alla vigilia della battaglia di Austerlitz, Tolstoj ci ricorda che le guerre, combattute dai popoli, iniziano per volontà di pochi, dei governi delle nazioni, e più spesso per volontà di un individuo che esercita un controllo autoritario sul proprio popolo.

Si pensava che, dopo la seconda guerra mondiale, ciò non sarebbe più accaduto in Europa, ma ci sbagliavamo. Anche per questo, il 24 febbraio 2022 è destinata a rimanere una data infausta per l’umanità: l’inizio di una guerra segretamente preparata e voluta dal presidente della Federazione Russa, il quale, fino al giorno prima, veniva considerato da molti, anche in Italia, un brillante leader politico, abile e preveggente. Non lo era, i fatti lo hanno dimostrato. L’ex colonnello del KGB dominato dall’idea di far di nuovo grande la Russia (parafrasando lo slogan di punta di Donald Trump) ha trascinato la propria nazione in una guerra imperialista tanto distruttiva e dispendiosa quanto anacronistica e controproducente sul piano geopolitico (vedi l’ingresso della Finlandia nella Nato).

Intere città dell’Ucraina rase al suolo, decine di migliaia di vittime civili e un numero imprecisato – ma che sicuramente supera i centomila – di caduti tra le forze militari di entrambe le parti, milioni di profughi, esecuzioni sommarie di civili, stupri e saccheggi, deportazioni di massa dai luoghi occupati, immense risorse naturali e agro-alimentari andate perdute… Ancora oggi, dopo un anno di guerra, è difficile crederci.

E c’è un paradosso: in uno stato militarista come la Russia – dove ogni giorno vengono celebrate le armi di ultima generazione, le televisioni mostrano all’ora di cena in quanti secondi i loro missili possano colpire le principali capitali europee, e impressionanti parate militari marcano il calendario nazionale – è proibito usare la parola voyna (guerra) per ciò che sta accadendo in Ucraina. Chi lo fa rischia la galera, una multa, o la perdita del posto di lavoro. Basterebbe questo per capire come, all’origine della cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina, ci sia soprattutto una grande menzogna.

La propaganda, intesa come fabbrica del consenso e strumento di manipolazione dell’opinione pubblica, è considerata dal Cremlino un’arma strategica, non meno letale dei missili ipersonici: la “disinformatia” elevata ad arte di governo. E la menzogna creata per giustificare la guerra è che a Kiev si era insediato un governo neonazi, che l’aggressione dell’Ucraina al Donbass, sostenuta e incoraggiata dall’occidente, in particolare dagli Stati Uniti, minacciava la sopravvivenza stessa della Russia.

Cos’altro poteva fare la Russia? Questa domanda retorica è condivisa da non pochi in Italia, persone di vari orientamenti politici. Si dirà: padroni di crederci. Ma è un fatto gravissimo che il leader di un partito di governo – Silvio Berlusconi – per quanto relegato al ruolo di attore non protagonista, vada ripetendo da mesi, in pubblico come in privato, tesi e fake news fabbricate dal Cremlino; perché mina la credibilità dell’Italia in Europa e nel mondo, oltre che rappresentare un attacco diretto alla presidente del suo stesso governo. Ed è tristissimo sentire opinionisti di sinistra, evidentemente convinti che al mondo esista un solo imperialismo (quello americano), reagire con entusiasmo a parole tanto fondate come quelle sulla nipote di Mubarak, arrivando a definirle «una sacrosanta verità».

Tutti coloro che ancora oggi pensano che la guerra sia stata provocata dall’allargamento della Nato a est, e che poteva essere evitata con la semplice assicurazione da parte degli Stati Uniti che l’Ucraina non sarebbe mai entrata nella Nato, dovrebbero leggere un lungo articolo firmato da Putin (se non interamente scritto da lui) nell’estate del 2021, quando aveva già preso la decisione di procedere con la sua operazione militare speciale, intitolato Sull’unità storica dei russi e degli ucraini. Il testo (disponibile in inglese sul sito ufficiale del Cremlino all’indirizzo http://en.kremlin.ru/events/president/news/66181) rappresenta un vero e proprio manifesto storico-politico, la base ideologica della guerra.

In esso si afferma che la nazione ucraina non esiste, che russi, bielorussi e ucraini, tutti discendenti dell’antica Rus, formano un popolo trino, un’unica nazione legata da una sola lingua, una sola economia, una sola fede; e che “la scelta spirituale compiuta alla fine del nono secolo da Vladimir il Grande, il quale fu insieme principe di Novgorod e Gran Principe di Kiev, ancora oggi determina tali affinità”. Che tra i 43 milioni di ucraini ci sia solo una piccola minoranza disposta a condividere questa visione mistica della storia, e che la stragrande maggioranza abbia invece cara la propria indipendenza, è un dettaglio che non sembra turbare il moderno Vladimir. Non si tratta di Nato o di America, ma dell’aspirazione del popolo ucraino a una piena indipendenza: un’aspirazione che Putin – lo ha detto in modo chiarissimo – è determinato a negare.

Si sente dire spesso, da coloro inclini a prendere per buone, o almeno in parte per buone, le menzogne della propaganda putiniana, che Zelensky è un folle e rappresenta un pericolo per la pace, che questa guerra non può essere vinta dall’Ucraina. Un modo più giusto di porre la questione sarebbe quello di dire “questa guerra non può essere persa”. Perché la sconfitta dell’Ucraina segnerebbe il trionfo del diritto della forza, e questa eventualità non porrebbe certo fine alla guerra, ma ne causerebbe altre, per l’insopprimibile aspirazione dei popoli a vivere nella giustizia e nella libertà.

Il 30 maggio scorso è morto all’età di 98 anni Carlo Smuraglia. Dopo aver preso parte alla Resistenza nelle sue native Marche, era stato docente di diritto all’Università di Milano, membro del Consiglio Superiore della magistratura, tre volte senatore e, dal 2011 al 2017, ultimo presidente-partigiano dell’ANPI. All’indomani dell’invasione russa suscitarono scalpore alcune dichiarazioni, da molti ritenute ambigue, dell’attuale presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo (classe 1949 e una lunga militanza nella corrente filosovietica della sinistra italiana), in particolare un comunicato rilasciato all’indomani del massacro di Bucha, commesso nelle prime settimane di guerra dalle truppe russe in ritirata, in cui s’invocava «una commissione d’inchiesta internazionale guidata dall’Onu e formata da rappresentanti di paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili» (una richiesta simile l’avrebbe avanzata anche il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov: un modo per negare quello che inviati di tutto il mondo stavano documentando).

Sulla scia di proteste provenienti anche dalle stesse file dell’ANPI, alla vigilia dell’anniversario della Liberazione, Pagliarulo corresse sensibilmente la sua posizione, rimanendo però contrario all’invio di aiuti militari all’Ucraina che resisteva. Altri si dissero contrari anche all’uso del termine resistenza per indicare la reazione dell’Ucraina. Nel suo ultimo intervento pubblico, Carlo Smuraglia rispose loro con queste parole: «Si dà una mano a chi è più debole e si batte per una causa giusta. Qui gli ucraini stanno cercando di difendere la loro democrazia… un popolo che si oppone a chi vuole dominarlo con poteri autoritari va aiutato a resistere». Gli venne chiesto se quello che stavano facendo gli ucraini poteva chiamarsi Resistenza, dato che c’era chi contestava l’equiparazione. «Non capisco perché» rispose Smuraglia. «Per me è una parola appropriata: è resistenza». E su Zelensky: «È un uomo che si sta battendo per la libertà del suo Paese» («La Repubblica», 18 marzo 2022). Il partigiano Smuraglia non era certo meno pacifista di coloro che, per vari motivi, si dicono contrari ad aiutare l’Ucraina a difendersi, o di chi protesta contro questa guerra scrivendo sul proprio cartello “Nato guerrafondaia”. E lo stesso si può dire di tutti coloro che la pensano come lui, fra questi il presidente Mattarella e la senatrice Liliana Segre.

Il 26 febbraio 2022, alle 8 di mattina, l’agenzia russa di stato RIA-Novosti pubblicò sul proprio sito un articolo evidentemente preparato prima dell’inizio dell’invasione, una sorta di proclama della vittoria; cancellato subito dopo, rimane però visibile su alcuni siti indipendenti (https://www.bbc.com/news/technology-60562240). L’articolo annunciava che l’Ucraina aveva ripreso la sua naturale collocazione all’interno del mondo russo, e che la Russia era tornata a guidare un nuovo ordine mondiale, dopo la «terribile catastrofe» rappresentata dalla fine dell’Unione Sovietica nel 1991; e terminava con queste parole: “Vladimir Putin si è assunto una responsabilità storica decidendo di non lasciare la soluzione della questione ucraina a future generazioni”.

Quello che ha ottenuto è esattamente l’opposto. Avrebbe potuto perseguire la via diplomatica, anche dispiegando apertamente le sue truppe intorno all’Ucraina e minacciando di invaderla se non avesse ricevuto garanzie sull’autonomia delle regioni filo-russe e sulla neutralità ucraina. Invece, sedotto dalla prospettiva di una vittoria lampo, ha scelto la via della conquista militare. Ha così provocato immani sofferenze e allontanato, per un periodo di tempo al momento imprevedibile, «la soluzione della questione ucraina».

La cronaca degli ultimi giorni sembra confermare questa situazione. Da una parte, il viaggio di Biden a Kiev (che ha preceduto di poche ore quello della Meloni) è stato un atto coraggioso e altamente simbolico; e se le parole che ha pronunciato – “Sono a Kiev per riaffermare il nostro instancabile impegno per la democrazia, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina” – esprimono i valori che uniscono le due sponde dell’Atlantico, non lasciano però intravedere una soluzione al conflitto. Putin, dall’altra, nel suo lungo discorso all’ossequente parlamento russo, oltre a fornire un esempio perfetto di quello che George Orwell chiamava doublethink, ovvero il meccanismo mentale che consente di ritenere vero un qualunque concetto e il suo opposto a seconda della volontà del Grande Fratello, ha alzato ulteriormente la posta annunciando la sospensione della partecipazione al trattato START sul disarmo nucleare (anche se ciò non significa al momento un completo ritiro). Soltanto una trattativa sincera potrà far uscire l’Ucraina e il mondo dall’incubo di questa guerra. E una vera trattativa potrà cominciare quando entrambe le parti capiranno che è impossibile ottenere una vittoria totale.

In alto e nel testo, alcune opere realizzate da Banksy tra le macerie delle città ucraine