Il pane che non si è più perduto

Nel racconto del nostro redattore, l'esperienza indimenticabile dell'incontro con Edith Bruck, testimone tra le più limpide e convincenti del genocidio degli ebrei

Testimone tra le più sincere e persuasive, Edith Bruck racconta il genocidio ebraico ormai da decenni, nei libri, nelle poesie, nelle conversazioni pubbliche, in quella lingua, l’italiano, che non è la sua, ma che, forse proprio grazie alla divergenza consustanziale tra pensiero ed espressione, le ha consentito di tenere sempre alla giusta distanza, nella narrazione, l’incandescenza dolorosa del ricordo.

Ad agosto dello scorso anno, qualche giorno prima del suo videocollegamento con Libri nel Borgo Antico, ho avuto il privilegio, insieme agli altri organizzatori del festival letterario di Bisceglie, di conoscerla personalmente, di parlare con lei e di ringraziarla per la sua incessante opera di testimonianza. Nell’occasione le furono consegnate due pagnotte di pane, impastate dalle mani degli studenti che avrebbero dialogato con lei nel corso dell’appuntamento in piazza.

Edith Bruck

La signora Bruck ci accolse amorevolmente e generosamente nella sua casa romana, in quel salotto che nel febbraio 2021 aveva ospitato papa Francesco, che la volle conoscere dopo aver letto il libro Il Pane Perduto, quello che sua madre stava impastando quando i nazifascisti la trascinarono via con la forza insieme a tutta la famiglia. Il pane a cui la madre aveva continuato a pensare con apprensione, lungo tutto il tragitto verso Birkenau, perché la speranza di poter un giorno infornarlo voleva dire immaginare di tornare vivi nel proprio villaggio in Ungheria. 

Ma il pane è anche quello che Edith una volta giunta a Roma nel 1954, dopo essere stata a lungo prigioniera e dopo aver detto addio alle persone a lei più care, le fu offerto da alcuni operai in pausa pranzo, che per la prima volta tesero gentilmente la mano verso quel corpo così a lungo frugato, disprezzato, maltrattato. Quel gesto, il miracolo della mano che si apriva verso l’altro, che le restituiva finalmente l’orgoglio della propria presenza fisica, la consapevolezza di esistere, la convinse a rimanere in Italia. Le fece capire che quello sarebbe stato il posto giusto dove finalmente vivere.

Le due pagnotte impastate dagli studenti biscegliesi volevano quindi essere una “restituzione”, se pur simbolica, di ciò che era stato tolto con la violenza, ma anche un modo per tendere la mano di un’ntera comunità in segno di riconoscenza per l’impegno  tenace con cui all’età di 91 anni continua a testimoniare la follia dell’olocausto. Edith Bruck, qualche giorno dopo, ci avrebbe fatto il regalo di spezzare insieme il pane che le avevamo consegnato: noi a Bisceglie, lei a Roma. Un momento utile per riabituarci a spezzare il pane con chi ci è vicino, a condividerlo con gli altri. Per comprendere che non può esistere pane che sia solo di uno, ma che se di pane si tratta (quindi acqua, medicine, casa) questo deve essere sempre “nostro”, qualcosa che riguarda tutti e mai la singola persona.

L’assenza di odio e di rivalsa per il male che ha dovuto subire, così come l’amore incondizionato per il mondo che ha potuto conoscere, le hanno permesso di sentire il proprio dolore come fosse il frammento di un dolore più grande, consentendole di dare valore e spessore alla sofferenza degli altri oltre che alla propria. La bambina scappata con la sorella dal campo di Bergen Belsen ha ricominciato a vivere pensando ai cinque piccoli gesti di umanità che aveva incontrato nell’orrore generale, a quelle cinque luci nel buio che avevano “illuminato” la lunga prigionia dandole speranza per il futuro: il cuoco tedesco interessato a conoscere il suo nome, il guanto bucato regalato da un sorvegliante, la marmellata nascosta sul fondo di una gavetta da lavare, il soldato che rimette la pistola nella fondina dopo averla puntata contro di lei, la guardia che con il dito indica la strada opposta a quella dei forni.

I ragazzi dell’associazione “Borgo Antico” di Bisceglie intorno a Edith Bruck

Quando finalmente lei e sua sorella Judit furono liberate, mesi dopo l’arrivo dei soldati sovietici ad Auschwitz, si ritrovarono su di un treno carico di carbone a condividere il viaggio con cinque soldati ungheresi, cinque collaborazionisti. Dopo un momento di esitazione, decisero di spezzare il poco pane che avevano con loro e di dividerlo con i propri nemici. “È stato uno dei momenti più commoventi della mia vita. Quel gesto, compiuto da due ragazzine, era l’esempio di come dovrebbe agire sempre un essere umano”, aveva affermato Edith.

Ricordi ed emozioni che hanno improvvisamente riempito il suo sguardo quando, sedutasi sul divano di casa, ha preso in mano la pagnotta di pane che le avevamo regalato, se l’è stretta al petto e ha cominciato ad annusarla, a rigirarla tra le mani, a tastarla con le dita, connettendosi con un passato che improvvisamente era di nuovo lì, tra noi, in quell’elegante salotto della borghesia romana in cui la signora Bruck vive da decenni, prima insieme al marito Nelo Risi e oggi insieme all’amica e fidata assistente Olga.

Edith Bruck, con ogni suo gesto, sorriso, in ogni sua poesia e libro, ci dice che va alimentato giorno per giorno il bene che c’è in ogni uomo, in ogni donna, ovunque. E che bisogna lasciar morire di fame l’odio, il pregiudizio, il fascismo, il nazismo e qualsiasi odio che uno coltiva dentro di sé tutta la vita. Perché se non lo si coltiva, questo lentamente muore. È stato commovente poter conoscere di persona e abbracciare questa donna di 91 anni, apparentemente così gracile e “fragile”, ma in realtà tenace e piena di vita, allegra, desiderosa di avere un contatto con gli altri. 

“Spesso si pensa ad un sopravvissuto come ad un pezzo di cristalleria da toccare con cautela. Ma noi siamo persone come voi. Vogliamo ballare, toccare, abbracciare, stringere forte chi ci vuole bene”, le parole con cui la signora Bruck ci congedò quella mattina che porteremo sempre nel cuore.

Nella foto in alto, i ragazzi di Bisceglie con Edith Bruck nella sua casa a Roma