Sono certa che molti ragazzi del liceo classico e linguistico “Carmine Sylos” di Bitonto, quella scuola che sembra arroccata se vi si giunge dalla stradina di fronte che attraversa il centro storico, abbiano scoperto la lettura grazie a Pino Roveredo e a quella straordinaria raccolta di storie, Mandami a dire, che venne a presentare nel 2012 a noi adolescenti – allora studenti del liceo – alla ricerca di noi stessi e di un posto nel mondo. Lo scrittore veniva da noi, con quella sua voce profonda e roca, a parlarci di vita, di miseria. Ci portava la sua esperienza di vincitore, di sopravvissuto a quel girone infernale che era stata la sua esistenza. Salvezza determinata dall’aver scoperto in sé un talento grande e un’anima grandissima, in grado di raccontare la vita, quella vera, il dolore e la possibile rinascita dalle macerie.
Ricordo come fosse ieri che me lo immaginavo piccolo, piccolo. Non so perché. Me lo immaginavo basso come ero io, con la barbetta folta e i capelli neri. Me l’ero figurato con le mani rugose e ricolme di macchie, torvo e silenzioso. Succede sempre quando ci si perde in fantasticherie sugli scrittori o le scrittrici. Potete immaginare la mia sorpresa vedendo arrivare quell’omone, dalla barba nera, lo sguardo profondo. Quegli occhi neri, dai quali traspariva una profonda sofferenza, un vissuto affatto lineare, eppure necessario perché se non fosse sceso nelle tenebre non avrebbe mai avuto un simile talento nel narrare, un simile afflato.
Non sarebbe riuscito a parlare così bene degli ultimi, se non fosse stato lui stesso uno degli ultimi, un emarginato, come efficacemente ha scritto Claudio Magris: “Roveredo è arrivato alla letteratura dalla vita, una vita che ha conosciuto l’ombra, i gironi dell’autodistruzione nell’alcol, i luoghi canonici dell’emarginazione e autoemarginazione, il sottoproletario intriso di violenza e la discesa quasi voluta, le perdute scommesse con la solitudine, la corsa ad ostacoli presi tutti in faccia”.
Non sarebbe mai riuscito a scrivere come sapeva scrivere. Senza inutili giri di parole, con l’efficacia dei particolari e la particolare sensibilità nella scelta di quelle preziose sillabe che compongono un vocabolo. Pino Roveredo era di Trieste, così lontano da noi, da questa nostra Puglia. Aveva fatto un lungo viaggio per giungere al liceo, ma noi ragazzi avevamo bisogno di quelle sue parole, di ascoltare la “nostra” voce. E chissà che le cose non sarebbero andate un po’ meglio a tutti gli studenti, di ciascuna scuola, se avessero sentito quelle sue parole. Magari vi sarebbero stati meno bulli, magari vi sarebbe stata meno indifferenza.
Nei suoi romanzi e racconti lo scrittore parlava di carcere, di alcolismo, delle storie che circolavano nell’ospedale psichiatrico. Aveva debuttato nel 1996 con Capriole in salita, un romanzo autobiografico, ristampato nel 2007 da Bompiani, la casa editrice che ha pubblicato quasi tutte le sue opere. Per poi pubblicare La città dei cancelli, Ballando con Cecilia, in ristampa con Bompiani qualche anno fa, in cui Roveredo dà voce ad una donna chiusa da oltre sessant’anni in un ospedale psichiatrico. Eppure, è con Mandami a dire, quel libro prezioso con cui l’abbiamo conosciuto e con cui ha vinto il Premio Campiello nel 2005, che è entrato nel nostro immaginario, che ha attraversato porta Baresana ed è giunto nel cuore di tantissimi lettori, soprattutto quei giovani e inesperti abitanti del mondo.
Ricordo come fosse ieri che lui ci scherzava su questa cosa che fosse sempre arrivato ultimo e che non era abituato ad arrivare primo. Ma, in realtà, non poteva essere diversamente. Finalmente era stato scoperto un grande narratore, che si sarebbe fatto coraggiosamente portavoce degli aspetti più scomodi di un’epoca. Ieri, quando si è diffusa la drammatica notizia della sua morte, dopo una lunga ed estenuante malattia, tra i messaggi di cordoglio figurava quello della Fondazione Il Campiello: “Con Pino Roveredo perdiamo uno degli scrittori più importanti della letteratura italiana contemporanea. Un uomo speciale che il Premio Campiello ha avuto l’onore di premiare nel 2005 con il libro ‘Mandami a dire’ e che ricorderemo sempre, oltre che per la sua penna ispirata, per la caratura morale. Il suo impegno sociale e letterario nei confronti degli ‘ultimi’ sarà l’eredità più grande che dovremo raccogliere. Per questo tutta la Fondazione Il Campiello lo ricorda con grande affetto e riconoscenza”.
Dopo aver vinto l’ambito premio, Roveredo ha proseguito la sua missione: ha scritto Caracreatura, Attenti alle rose, La melodia del corvo, Mio padre votava Berlinguer fino agli ultimi Mastica e sputa e Tira la bomba, e alle tantissime opere teatrali che ha portato nelle carceri italiane. Eppure, per me e per tanti altri, lui è l’omone dolce di Mandami a dire. E se ancora adesso le sue parole risuonano così distinte, così nitide nella memoria, è solo grazie a Mariella Cassano, la professoressa del liceo che diede a noi studenti l’opportunità di conoscerlo. Roveredo, come molti altri scrittori e scrittrici che hanno reso grande la letteratura italiana di questi anni.
Mariella mi ha scritto un messaggio per avvisarmi della scomparsa dello scrittore. Laconico, preciso, senza lasciar trasparire il dolore che certamente sta provando. Così, sulla scia di questo intenso profumo di passato ho voluto rendere il mio piccolo omaggio alla sua memoria, una parziale e imperfetta summa del lavoro di uno degli scrittori più importanti del nostro tempo. Uno scrittore ma anche, e forse soprattutto, una di quelle guide cui noi, ragazzi e ragazze del liceo bitontino di quel tempo, dobbiamo tanto. Più di quanto possiamo immaginare.
Nella foto in alto, lo scrittore Pino Roveredo con la prof.ssa Mariella Cassano