La cronaca non traccia un quadro confortante della Generazione Z – tra atti vandalici e gesti di bullismo, di cui spesso si rendono protagonisti gli adolescenti – comunicando un’immasgine distorta, falsificata di questi ragazzi. Ma in realtà, una causa dei suicidi, come quello recente della giovane tredicenne di Monopoli, non potrebbe essere l’adorazione dell’immagine del “forti e vincenti” inneggiata dall’avvento della società di massa?
L’immagine prevale sulle altre modalità di comunicazione e sulla veicolazione dei messaggi. Foto, storie social, reel, profili prevalgono sul filtro costituito dalle parole. La loro istantaneità assottiglia eccessivamente la possibilità del dialogo, di una critica, persino se costruttiva e approfondita. Quanto spazio viene sottratto all’interpretazione, all’analisi, alla ricerca dei reali motivi del suicidio di tanti adolescenti; un evento drammatico che al massimo ispira titoli a caratteri “cubitali”, appunto molto “visivi” per suscitare solo ed esclusivamente sensazioni istintive ed emotive. Tutto questo può bastare?
L’immagine e la cura dell’aspetto risultano determinanti nelle fasi di crescita degli adolescenti e dei preadolescenti. Nella sfera delle amicizie, nel riconoscimento sociale. Nell’era dei social sono una “terra promessa”, il discrimine che talvolta esclude drammaticamente, per dirla in gergo giovanile, gli sfigati “nabbi”, nella selezione di gruppi di amici di cui sentirsi parte integrante. Rappresentano la vetrina in cui ostentare le mode e i “trend”. Una vetrina che comunque illude: una sorta di “pubblicità ingannevole”.
Dietro i tragici episodi dei suicidi di adolescenti, dietro la violenza delle baby gang, composte da ragazzi che si atteggiano da adulti prepotenti, si scorgono aspetti che portano a etichettare, in maniera superficiale, i giovani come privi di educazione e senso di civiltà. L’Osservatorio Nazionale sull’Adolescenza stima che il 6,5 % dei minori fa parte di una banda e che il 16 % ha commesso atti vandalici (fonte Dire). I dati sono sufficienti per consentire al ministero dell’interno di tracciare l’identikit dei componenti delle baby gang: un decina di ragazzi tra i 15 e i 17 anni, spesso italiani, senza un’organizzazione strutturata né la distinzione di compiti, adusi a compiere azioni violente, spesso senza moventi specifici, espressione di un disagio derivante, il più delle volte, da una mancata inclusione o dall’assenza di modelli di riferimento all’interno della famiglia. Più che da una vera e propria volontà criminogena. Forse uno dei malesseri più profondi, punta dell’iceberg delle negatività che si portano addosso questi ragazzi è la solitudine, nonostante la facilità di connessione virtuale.
Educatore professionale dell’Asl Bari, specializzato nelle problematiche psicosociali e con disturbo da dipendenze patologiche, Saverio Giannini ha provato a descrivere i motivi, non proprio confortanti, che portano tanti giovani a mettersi in “vetrina” sui social o a rimanere bollati sulle pagine dei giornali. Tra stati d’animo, patologie e difetti di relazione/comunicazione emerge chiaramente la necessità di ripensare l’intero sistema sociale, in cui le nuove leve rischiano di sprofondare nonostante le positive sollecitazioni offerte da eventi come quelli per celebrare i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Giannini è autore di diversi libri per ragazzi attraverso cui mette nero su bianco il mondo giovanile, riflettendo anche sulle risorse che il disagio può sprigionare. Il grande Iuba per Giacovelli Editore è l’ultima sua fatica dopo L’uomo sole per Giazira Scritture.
“Iuba è una parola che non esiste. L’ho inventata io. E’ nata per errore. Non significa nulla e per questo ha un’infinità di significati. La prima volta l’ho pronunciata alla morte di mio padre ed è subito riuscita a farmi stare meglio. Poi è divenuta qualcos’altro: una carezza inaspettata, un’esplosione di emozioni. Il mio inno alla libertà!”, spiega Giannini presentando il suo libro. Ma, in realtà, il volume offre un’infinità di spunti che si aprono a molteplici riflessioni sulle dinamiche che rendono assai problematiche le condizioni in cui vivono e si formano i giovani nella nostra società.

Sembra paradossale ma una delle cause principali di disagio nel nuovo millennio, così pieno di stimoli e di connessioni, è proprio la solitudine con cui convivono tantissime persone. “Siamo in una società più incline a vivere in solitudine rispetto al passato”, osserva Giannini, associando questa condizione psicologica al cambiamento dell’organizzazione familiare. “Nel passato i genitori – spiega – riuscivano ad essere più presenti e, inoltre, erano supportati dai nonni. Oggi, invece, i ragazzi trascorrono diverse ore della giornata davanti alla tv o con i videogiochi e solo raramente in compagnia”. I millennials vengono identificati per le loro abilità nell’utilizzo dei supporti digitali, eppure “avvertono forte il bisogno di persone adulte che dedichino loro del tempo e dimostrino di volergli stare accanto nel percorso di crescita. I ragazzi hanno bisogno soprattutto di non sentirsi soli”, puntualizza l’autore de Il grande Iuba, che ha ricevuto menzioni speciali al premio nazionale di narrativa e saggistica Un libro in vetrina e al concorso letterario Ema Pesciolinorosso.
Il senso di solitudine dilagante sfocia in fenomeni di isolamento e di autolesionismo. Sarebbe il caso di resettare gli accessi alla tecnologia e ripristinare alcune abitudini e stili di vita del passato. Ma spetta agli adulti veicolare le passioni, indirizzare i ragazzi nella scoperta delle proprie, contrastando la passività che provoca il mezzo tecnologico. “Come genitori ed educatori – riflette Giannini – riuscire a disciplinare il tempo dell’uso dei dispositivi digitali, con lo scopo di giocare insieme ai figli, rappresenta un modo concreto per alimentare le passioni per una disciplina sportiva o ricreativa. Senza obbligo o imposizioni è fondamentale trasmettere passioni, per la musica, il cinema o la lettura. Questo processo si realizza con l’esempio, trascorrendo del tempo con i figli, con poche parole e molta concretezza”.
Il rapido accesso ai dispositivi digitali induce all’eccesso di stimoli in cui i ragazzi sembrano smarrirsi. “I ragazzi devono imparare ad accettare la noia, per quanto in contrasto con gli stili di vita odierni, in cui tutto deve essere riempito e organizzato, senza alcun momento vuoto. La noia, in realtà, può essere stimolante, si può rivelare utile per realizzare e inventare qualcosa di positivo. Lavorando nel campo delle tossicodipendenze noto che facilmente i giovani possono cadere nei tranelli delle dipendenze. Perché esse sono facilmente fruibili”, prosegue il nostro esperto.
Dietro le ansie e la rabbia dei giovani si nasconde, in realtà, il “fallimento” delle famiglie, soffocate da incertezze sociali ed economiche, sopraffatte dalle delusioni dei genitori rispetto alle proprie aspettative di vita. “La famiglia vive situazioni multiproblematiche. Molti genitori convivono con desideri inappagati, facendo pesare la propria frustrazione sui figli o sui partner. In tal modo si produce un senso di disagio che rende difficile misurarsi con la forte competitività diffusa nella società, che induce a seguire determinati comportamenti e status”, spiega Giannini.
Un altro fattore di disagio è il conflitto tra genitori e figli, giovani e adulti. “Il conflitto è fondamentale, non può non esserci. Ma anche in questo caso prioritaria resta la capacità dei genitori di essere presenti nei confronti dei figli e di essere coerenti tra ciò che indicano e quanto in realtà fanno”, prosegue.
Ciò che manca tra i giovani sono, infatti, punti di riferimenti concreti e coerenti, i cosiddetti modelli educativi che costituiscono l’impalcatura delle passioni, della crescita, del sistema dei valori. I modelli da cui i giovani sono attratti sono basati sull’apparenza: i personaggi televisivi o gli influencer. “Il contesto in cui i ragazzi vivono rappresenta un ostacolo alla loro possibilità di espressione. Apparentemente sembra di ritrovarsi in un mondo libero, ma in realtà non ci si discosta molto dalle epoche passate. Tutti noi viviamo in un sistema a cui siamo quasi obbligati ad aderire, in cui si appare e ci si deve mostrare “stilosi”, forti e vincenti, omologati alla moda, pena l’esclusione e l’emarginazione. Ne consegue una corsa ossessiva verso il successo, ad occupare posizioni di prestigio, ad abbracciare l’opposizione tra vinti e vincitori, presunti forti contro presunti deboli”, spiega Giannini.
Una logica rafforzata in qualche modo dalla stessa retorica del merito, di cui negli ultimi mesi si è tornato a parlare in ambito scolastico. “Il merito non implica sempre il saper fare qualcosa meglio degli altri. Perché non insistere invece sul valore della gentilezza? Nelle aule della scuola un ragazzo gentile e buono viene considerato debole, come una persona vulnerabile. Perché non ci si impegna a premiare questi ragazzi, a proporli come modelli?”, sostiene il nostro esperto. Che incalza: “Bisogna convincersi che la vera forza è la gentilezza e non il bullismo come si potrebbe pensare. Passano, ormai messaggi capovolti e noi adulti abbiamo il compito di rovesciare questi paradigmi che si vogliono rendere normali, comuni a tutti”.
“La verità – conclude Giannini – è che bisogna accettare la diversità di ognuno, permettendo a uomini e donne di spiccare il volo liberamente per esprimere la propria unicità”. Accettare, diversità, unicità: nei tempi dell’iperconnesso sono idee ancora così sfuggenti…