“A livello individuale, siamo una goccia. Insieme, siamo un oceano”. Perchè un incipit ispirato ad un celebre aforisma dello scrittore giapponese Ryūnosuke Satoro? Per introdurre un’iniziativa che – complice il clima svagato delle festività natalizie – potrebbe essere sfuggita ai più e che, invece, merita grande attenzione. Parliamo del Premio Luisa Minazzi – Ambientalista dell’Anno, che si rinnova ormai da sedici edizioni, un riconoscimento all’impegno di singoli individui o singole imprese che diventano ispirazione per molti. Finalità che riassume un po’ il senso del celebre aforisma.
Promosso da Legambiente e dalla rivista La Nuova Ecologia, insieme al comitato organizzatore, composto da esponenti di diverse associazioni di Casale Monferrato, il premio è stato assegnato sul finire dello scorso anno ad Anna Maria Moschetti, pediatra responsabile dello studio e la cura delle malattie dei bambini legate all’inquinamento per l’Associazione Culturale Pediatri in Puglia e Basilicata.
Moschetti è presidente della commissione ambiente dell’ordine dei medici di Taranto, città definita nel 2023 dall’Onu “zona di sacrificio” in quanto sede del più grande impianto siderurgico d’Europa, che “ha compromesso la salute delle persone e violato i diritti umani per decenni, scaricando grandi volumi di inquinanti atmosferici tossici. I residenti nelle vicinanze soffrono di elevati livelli di malattie respiratorie, malattie cardiache, cancro, disturbi neurologici debilitanti e mortalità prematura”. Parole che non possono non far risuonare l’eco della storia stessa di Casale Monferrato, cittadina che ha pagato – e che, in parte, sta ancora pagando – la presenza del più grande stabilimento di cemento-amianto d’Europa, definitivamente chiuso nel 1986.
Dal 2012, il riconoscimento è intitolato proprio a una figura nota della cittadina piemontese, Luisa Minazzi, morta nel 2010 di mesotelioma a soli 57 anni, dopo una vita spesa in difesa dell’ambiente come direttrice didattica, attivista e amministratrice comunale. Così, da una storia di dolore, è nata una storia di speranza e di impegno collettivo, per un presente e un futuro sostenibile, a beneficio del nostro pianeta, di chi lo abita e di chi lo abiterà. “Ringrazio per questo premio, condiviso con tutta la cittadinanza di Casale Monferrato e, soprattutto, con pediatri e genitori che custodiscono la vita nascente”, ha commentato Anna Maria Moschetti, indicata da una votazione digitale che ha coinvolto oltre 4.000 persone in tutta Italia. “Un solo bambino è l’intera natura e bisogna investire su questo, per risolvere patologie mediche con cure politiche. Bisogna lottare per abbattere il razzismo ambientale: dove ci sono gravi disuguaglianze sociali la qualità della vita peggiora per tutti”.
“Quello che succede adesso è quello che succede ininterrottamente dal 1964 quando fu attivata l’area a caldo, cioè l’immissione di sostanze inquinanti nell’ambiente con tutti i danni a carico della popolazione che ne derivarono, come testimonia un’infinita documentazione”, ha spiegato la dottoressa ai microfoni di RaiRadio1, che davano la notizia del premio. “I pediatri, nel tempo, hanno osservato nei loro ambulatori un incremento di determinate patologie, soprattutto malattie respiratorie, il cui eccesso è stato ormai documentato in maniera scientifica anche da una perizia della Procura della Repubblica. Si è riscontrato però – ha precisato Anna Maria Moschetti – un incremento anche nel numero di tumori e, più recentemente, delle problematiche relative al neurosviluppo. Si è rilevata la presenza di diossine nel latte materno in una quantità dal 18 al 38% superiore rispetto al gruppo di controllo e una di queste, secondo l’Istituto superiore di sanità, può essere considerata un marker di attività industriali di tipo metallurgico. Noi sappiamo che le diossine in gravidanza non sono solo cancerogene ma anche neurotossiche. Avevamo segnalato questo nel 2010 con documenti di fatto inascoltati”.
Ci sono patologie mediche che, insomma, richiedono cure politiche: questo è il messaggio che la dottoressa Moschetti vuole far passare in maniera inequivocabile. Tutto questo proprio nei giorni in cui della crisi dell’ex Ilva si torna a parlare nell’aula del senato, dove sono finiti al centro della discussione i debiti milionari, la produzione di acciaio a singhiozzo e il perenne “battere cassa” del socio privato ArcelorMittal. Problematiche che il Ministero delle imprese, oggi guidato da Adolfo Urso, non può più negare. “Siamo allarmati, dobbiamo fermare questo declino inarrestabile, con questi numeri non si può andare avanti”, ha detto Urso snocciolando i dati della gestione fallimentare del colosso franco-indiano che controlla il 60% di Acciaierie d’Italia, partecipata al 39% da Invitalia, società del ministero dell’Economia. “La situazione attuale è di forte difficoltà finanziaria e di grave situazione produttiva. L’amministrazione ha un peso debitorio significativo di diverse centinaia di milioni di euro verso Eni e Snam”. Una vicenda che aveva portato il Cane a sei zampe a non rinnovare l’accordo per la fornitura di gas, essenziale per la produzione. “Nel contempo – ha proseguito Urso – la produzione da 10 milioni di tonnellate del 2005 si è ridotta a 3 milioni nel 2022. La metà rispetto all’obiettivo previsto di 6 milioni di tonnellate previste”.
Eppure l’ex Ilva ha già ricevuto più di 850 milioni dal governo Draghi ed è in attesa del miliardo stanziato nel decreto Aiuti attorno al quale è in corso un braccio di ferro tra ArcelorMittal e Invitalia. Il governo infatti vorrebbe vincolare l’arrivo di quei soldi a un cambio del management, in particolare dell’ad Lucia Morselli. Anche in questo senso va letto un altro passaggio della risposta di Urso all’interrogazione parlamentare: “Lo Stato non può essere un bancomat, non può dar soldi senza un chiaro piano industriale che arresti il declino dell’acciaieria di Taranto”. E a complicare i piani ci sono le pendenze giudiziarie che discendono dalla sentenza del maxi-processo Ambiente Svenduto. Nel primo accordo siglato, sul passaggio del controllo dal privato al pubblico, infatti, era previsto che questo si sarebbe potuto perfezionare solo nel caso in cui gli impianti di Taranto fossero stati liberi da qualsiasi vincolo. Al momento non è così. La Corte d’Assise di Taranto ha disposto la confisca dell’area a caldo, esecutiva solo in caso di sentenza definitiva in Cassazione.
Nelle motivazioni della sentenza, i giudici hanno ribadito che “anche un’eventuale realizzazione completa dei lavori previsti dall’Aia, ritenuti idonei a risolvere i problemi ambientali del siderurgico, non darebbe alcuna garanzia di certezza sul rendimento non inquinante degli impianti stessi, in considerazione del previsto incremento della produzione”. A ciò si aggiunge una recente inchiesta della procura di Taranto sull’esecuzione degli stessi lavori, che coinvolge nomi eccellenti e che ha gettato imbarazzo su organi come l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, deputato dal Governo a controllare lo stato dei lavori nella fabbrica ionica. Se per Ispira i lavori procedono speditamente verso il termine previsto per agosto 2023, per la Corte al momento la salute di operai e tarantini è ancora a rischio. E neppure la realizzazione di tutte le misure bastano a garantire il dissequestro.
Così, mentre Invitalia e ArcelorMittal cercano a fatica di trovare un accordo per l’utilizzo del tesoro da un miliardo di euro concesso da Mario Draghi con il Dl Aiuti bis, la nuova inchiesta della procura ionica potrebbe diventare il nuovo pomo della discordia complicando, di molto, una situazione già di per sé difficilissima.
La foto in alto è tratta da ohga.it