Opera prima di Laura Samani, esordiente dalla voce estremamente originale, Piccolo Corpo, con la sua storia radicata nei territori e nei dialetti del Veneto e del Friuli, è uno degli oggetti cinematografici più affascinanti degli ultimi anni. Lo conferma il percorso sorprendente fatto dal film dalla presentazione in Semaine de la Critique al Festival di Cannes lo scorso anno, fino alla vittoria del premio, nei giorni scorsi, come miglior rivelazione europea alla 35esima edizione degli European Film Awards. Proprio da Reykjavík, sede della cerimonia degli Efa 2022, la giovane regista triestina si è collegata con il pubblico del Trani Film Festival, che a lei e alla sua opera prima ha dedicato diverse proiezione e una menzione speciale.
Il film si inserisce in quel filone femminista dei period drama, cominciato con il seminale Lezioni di Piano di Jane Campion e deflagrato poi, interessando anche una nuova generazione di spettatori, con Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma nel 2019: opere che mettono al centro narrazioni femminili trascurate per lungo tempo dall’immaginazione di romanzi e film. In questo caso la storia è quella di Agata (Celeste Cescutti), giovanissima madre già ferita dalla perdita del suo primo figlio nell’Italia di inizio Novecento, un mondo ostile per le donne private di tutto. La ragazza, nonostante l’opposizione generale, si mette in testa di battezzare il corpo del figlio ormai deceduto, di dargli finalmente un nome e poterlo così piangere.
L’implacabilità con cui Agata intraprende il viaggio che deve condurla in montagna, in un luogo soprannaturale che potrebbe, in un ultimo battito di tempo, ridare vita al piccolo cadavere, appare come una simbolica messa in scena del lutto, via crucis vissuta nella carne che diventa storia di emancipazione. La scelta di filmare questa traversata, questo faticoso avanzare in una natura insieme inebriante e ostile, conferisce tutta la sua forza discreta a questo primo lungometraggio, a questa riedizione del mito sempre uguale di Cappuccetto Rosso e del lupo, della preda e del cacciatore, in cui però non compare l’atteso predatore, ma un altro volto: quello della Lince (Ondina Quadri), pelle bruna e penetranti occhi azzurri, lui o lei, alleato, amica, e forse in segreto amante. Non più agnello e bestia dai denti aguzzi, ma la possibilità di vivere sullo stesso piano, di riappacificarsi rinunciando al ruolo di vittime e carnefici.
L’idea del film nasce nel 2016, quando la regista scoprì che a Lauco, nel suo Friuli Venezia Giulia, esisteva un santuario dove fino al 19esimo secolo si diceva accadessero miracoli particolari: che i bambini nati morti potessero essere riportati in vita per pochissimo tempo, nello spazio di un soffio, giusto il tempo di battezzarli e impedire che venissero sepolti in terreni non consacrati. Senza il battesimo, infatti, questi bambini non avrebbero mai potuto avere un nome o un’identità, diventare “degni” di cerimonia funebre e sepoltura canonica. Questo tipo di luoghi, chiamati “à répit”, santuari del respiro e della tregua, erano presenti su tutto l’arco alpino, ma la loro esistenza è sconosciuta ai più, nonostante l’estensione del fenomeno. Laura Samani, nella sua attività di ricerca, è rimasta colpita però soprattutto da un dato, ovvero che erano soprattutto gli uomini a recarsi in questi santuari con i piccoli corpi dei loro bambini. Le donne, che quei figli avevano partorito, erano invece confinate nei loro letti, costrette, impotenti, a sopportare un’attesa lacerante.
La protagonista di Piccolo Corpo si ribella a tutto ciò: protesta non solo contro la sua religione, ma anche contro le leggi della natura. Una scelta che denota orgoglio e perciò scandalosa e inaccettabile in una società che non concede libero arbitrio alle donne. Agata intraprende un viaggio fino ai confini dell’ignoto, abbandonando le sue radici e mettendo a rischio la sua stessa incolumità. Il suo desiderio cosciente è quello di dare a sua figlia un nome per poterla definitivamente lasciare andare, ma quello inconscio riguarda invece la possibilità di prolungare lo stato di simbiosi che ha vissuto per mesi con quel corpo, di continuare la gravidanza in un’altra forma. Il bambino non più nella pancia, ma dietro la schiena, come un peso di cui farsi carico. Agata, nell’economia della narrazione, ha però bisogno di un/una compagno/a di viaggio ed è così che nasce il personaggio di Lince: selvaggio e astuto, chiuso nei confronti dell’altro perché convinto che amare voglia dire compromettersi e indebolirsi.
Lince mostra ad Agata la strada, offrendole protezione, ma ciò che riceverà da lei in cambio sarà qualcosa di altrettanto indispensabile per la sopravvivenza: il profondo senso di attaccamento a ciò che si ama, l’impegno, il sacrificio, il senso di devozione verso ciò che ti rende vulnerabile. Grazie ad Agata, Lince imparerà ad accettare il lato oscuro dell’amore: il dolore per la sua mancanza e la sua perdita. Laura Samani ha girato il film in continuità cronologica, intraprendendo lo stesso viaggio che Agata compie dalla laguna di Caorle e Bibione fino alle montagne della Carnia e del Tarvisiano. Durante la ricerca dei luoghi, ha incontrato quelli che sono poi diventati gli attori del suo film, persone che non avevano mai recitato prima. In alcuni casi, intere famiglie. È anche per questo motivo che la regista ha deciso di girare nei dialetti veneti e friulani: non solo per restituire la lingua autentica di quel tempo, ma anche per onorare le diverse declinazioni linguistiche e lasciare che le persone potessero esprimersi il più possibile nel loro modo quotidiano. Il processo di imposizione dell’italiano standardizzato iniziò nella seconda metà del 1800 e continuò sotto il fascismo, con un’operazione politica che mirava ad ottenere il controllo su quei territori e che causò un enorme impoverimento culturale. Nonostante ciò, quel tentativo non riuscì a spegnere del tutto l’ampia varietà di idiomi diversi ed è per questo che quella lingua dialettale diventa nel film anche una lingua di resistenza e di sintesi con la natura che circonda i personaggi (basti pensare che la parola “bambino” in dialetto friulano è “frut”, frutto dei suoi genitori).
Nel film di Laura Samani, Dio non si trova nei miracoli o nella preghiera, nel dogma che divide l’aldilà in paradiso, inferno e limbo. Dio esiste su un piano diverso: in Lince, che non crede in nulla e non è quindi toccata dalla promessa iniziale del miracolo. In Agata, che sfrutta la rabbia per ridisegnare i confini del possibile. Nell’incontro tra questi due punti di vista solitari che, per un momento, nel loro incrociarsi, si fanno meno dolorosi. C’è una linea sottile che divide la vita dalla morte, la realtà dalla magia, le possibilità che abbiamo sprecato e il tempo che ci rimane. “Spero che questo film crei uno spazio condiviso più grande senza la presunzione di trovare risposte assolute, ma nella speranza di vivere nel dubbio insieme”, dice Laura Samani. Ed è proprio questo ciò che dovrebbe sempre fare il grande cinema.
Nelle footo alcune sequenze di “Piccolo Corpo” con la protagonista Celeste Cescutti