Il mare fa ricca la Puglia

Il Rapporto di Unioncamere rivela che la blue economy vale due miliardi in Puglia ma occorre investire in formazione, soprattutto nel campo dell'energia rinnovabile

La blue economy inverte le gerarchie territoriali, ribaltando la tradizionale e spesso deprimente dicotomia Nord-Sud. Il Mezzogiorno è l’area che contribuisce maggiormente al valore aggiunto prodotto dall’economia del mare, con la Puglia nella top ten delle regioni più virtuose. A dimostrarlo è il decimo rapporto sull’Economia del Mare 2022, realizzato da Unioncamere e dal Centro Studi Tagliacarne, che fotografa lo stato dell’arte della filiera nazionale legata al mare, confermando l’importanza dei porti (con la movimentazione di merci e passeggeri), del turismo marittimo, della cantieristica nautica e di tutto il comparto ittico.

Ma cos’è, di preciso, la blue economy? Un sistema articolato che comprende tutte le attività che utilizzano il mare, le coste e i fondali come risorse per scopi industriali e lo sviluppo di servizi. È proprio in tale contesto che la Puglia, con i suoi 800 chilometri di costa, svolge un ruolo da protagonista. I dati espressi dalla nostra regione e contenuti nel Rapporto 2022 si collocano tutti oltre la media nazionale: il valore aggiunto prodotto nel 2020 in Puglia dalle imprese dell’economia del mare è stato di 2 miliardi di euro, pari al 4,1 per cento del totale (3,4 per cento la media nazionale). Con una ricaduta in termini occupazionale non trascurabile: 45mila lavoratori (4,9 per cento contro una media nazionale del 3,7 per cento) distribuiti in 10.784 imprese, di cui 5.296 presenti a Bari e provincia, perlopiù operanti nel settore dei servizi di alloggio e ristorazione, e a seguire quello della movimentazione di merci e passeggeri, e quello ittico. Insomma, l’importanza economica per la Puglia, e non solo, del sistema che ruota attorno al mare e ai suoi porti non è una realtà che si può ignorare.

C’è da specificare però che, rispetto alle precedenti edizioni, il rapporto di quest’anno presenta un elemento di discontinuità: la ridefinizione del perimetro territoriale entro cui alcune attività economiche (quelle turistiche, ad esempio) possono essere considerate connesse o meno al concetto di mare. Prima a farne parte erano solo i comuni litoranei, vale a dire comuni i cui confini toccano il mare; ora invece come stabilito dal Regolamento UE (2017/2391) rientrano tutti quei comuni che sono confinanti con il mare o prossimi allo stesso. A riguardo l’Eurostat (l’Ufficio statistico dell’Unione Europea) ha precisato che il concetto di prossimità afferisce a quei comuni che hanno almeno il 50 per cento della loro superficie entro una distanza massima di 10 chilometri dal mare.

Dal 2018 fino alla fine del 2021, i ricavi della blue economy hanno portato in Europa un valore aggiunto lordo medio pari a 176,1 miliardi di euro per ogni anno, generando una crescita di oltre il 15%, nell’arco di un intero decennio (2009 al 2018). Il profitto registrato solo in Italia è stato di circa 50 miliardi di euro, permettendo ad oltre 200 mila imprese di lavorare a pieno regime. La rilevanza sempre più evidente del settore, però, pone chi governa, a livello europeo, nazionale e regionale, di fronte alla necessità stringente di fronteggiare con azioni concrete e immediate il cambiamento climatico e la progressiva distruzione degli ecosistemi, essendo lo sviluppo della blue economy simbioticamente legato alla salute degli oceani.

All’Italia, una delle quattro principali economie blu d’Europa insieme a Germania, Francia e Spagna, spetterà il coordinamento della “Partnership per una blue economy sostenibile e produttiva”. Si tratta di un finanziamento di 73 milioni di euro integrati da 23 milioni della Commissione europea, che vede coordinatore il Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR). In particolare, la configurazione italiana prevede che il MUR e il Ministero dello Sviluppo Economico partecipino in qualità di beneficiari, mentre il Consiglio Nazionale delle Ricerche, la Stazione Zoologica Anton Dohrn, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, e l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale partecipino in veste di partner affiliati. L’ambizione è lanciare 6 bandi – il primo entro il primo trimestre 2023 – cofinanziati nell’arco di 7 anni, per sostenere la programmazione congiunta di ricerca e sviluppo sulle aree tematiche prioritarie, tra cui le piattaforme off-shore, la pianificazione dello spazio marittimo, la pesca e l’acquacoltura sostenibile. I campi di ricerca spazieranno dalla biologia alla geovulcanologia e avranno come obiettivo ultimo quello di studiare un protocollo di utilizzo delle risorse marine razionale e adeguato.

L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite prevede al Goal 14 di “conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile” e per questo la Giunta Regionale della Puglia lo scorso giugno ha approvato il piano di lavoro per l’elaborazione del documento di strategia che intende raccogliere azioni e strumenti, integrando le diverse politiche di blue economy settoriali, territoriali e delle coste, compresa la pianificazione dello spazio marittimo. “Il Programma Operativo FEAMP ci sta consentendo di investire in azioni prioritarie sostenibili legate alla pesca e all’acquacoltura, che abbiano principalmente risvolti positivi sotto il profilo ambientale, che siano redditizie sul piano economico e socialmente responsabili”, aveva dichiarato nell’occasione l’assessore all’Agricoltura della Regione Puglia, Donato Pentassuglia. Specificando: “Serve però una visione di ampio respiro e un gruppo qualificato e diversificato di attori economici, pubblici e privati, che diano un contributo decisivo, attraverso un percorso partecipato, come indicato in questo Piano di lavoro, nell’individuazione di azioni ma anche di risorse per la costruzione e attuazione di una reale ‘Crescita Blu’ del territorio pugliese”.

I dati del Rapporto 2022 di Unioncamere confermano che questa è la direzione giusta e che già oggi l’economia del mare in Puglia vale 2 miliardi di euro, senza tener conto dell’effetto “moltiplicatore” che indica quanto valore aggiunto viene attivato per ogni euro prodotto da un’attività della blue economy. Per guidare il processo al cambiamento occorre però investire in formazione. Il 17-32% delle aziende sta infatti lamentando carenze di competenze e di personale tecnico adeguatamente formato, specie nell’ambito dell’energia rinnovabile offshore, settore che richiede investimenti sia in ricerca che nella formazione di futuri giovani lavoratori o nella ricollocazione di quelli che sono ancora impiegati nel comparto fossile. Per la blue economy è fondamentale quantificare i costi e l’impatto dell’inquinamento, che rischia di esaurire il capitale naturale blu, così come calcolare i benefici economici derivanti dalla loro conservazione. Ancora una volta, dobbiamo capire che lo sviluppo economico non è antitetico alla salvaguardia dell’ecosistema.

Le foto del mare del Gargano e delle Isole Tremiti sono tratte dal profilo fb di Matteo Nuzziello