Tradito dall’amore. Don Pasquale da Corneto, il burbero anziano desideroso di mandare in rovina la liaison di Ernesto con la villana Norina, ha un cuore d’oro. Sì, proprio lui che fin dal principio osteggia gli incontri furtivi tra il nipote e la graziosa fanciulla per la condizione di indigenza in cui versa quest’ultima, si riscopre successivamente magnanimo e ben disposto all’ascolto, ammettendo di buon grado la sua colpevolezza. Quel mutamento repentino tipico dei personaggi donizettiani e delle vicende a cui gli stessi sono legati, raggiunge pieno compimento in una delle ultime opere del compositore bergamasco – curatore del libretto insieme a Giovanni Ruffini – rappresentata con successo per la prima volta nel 1843 al Théâtre-Italien di Parigi con il nome del vecchio capriccioso smanioso di ricchezze, Don Pasquale.
Sui suoi pruriginosi appetiti si impernia un ordito narrativo che scorre irreversibile verso un epilogo che pone il protagonista dinanzi ad un bivio: assistere inerme alla capitolazione del rapporto coniugale da lui fortemente desiderato o aspirare alla redenzione, malgrado una ferrea opposizione iniziale, consentendo ai due innamorati di ricongiungersi sotto il suo sguardo generoso e protettivo? Tra le due possibilità, Don Pasquale sceglie che la purezza del sentimento trionfi sapendo rinunciare al benessere personale a vantaggio dell’armonia di una giovane coppia. Dalla sua protervia del passato, trasformata poi, quasi per magia, in lungimiranza disincantata e consapevole, si ricava un insegnamento condensato nei pochi versi cantati da Norina, ai quali fanno seguito le battute di Ernesto e Malatesta: “La morale in tutto questo, è assai facil trovarsi, ve la dico presto presto se vi piace d’ascoltar. Ben è scemo di cervello chi s’ammoglia in vecchia età, va a cercar col campanello noie e doglie in quantità“.
L’ode alla giovinezza che sottende la trama del capolavoro donizettiano affiora vividamente nel prodotto registico di Antonio Albanese in scena al Teatro Petruzzelli, viaggiando di pari passo ad un tematica palesata prevalentemente attraverso il frequente richiamo alla gestualità: l’esaltazione del buon vino e del lavoro nei campi diviene l’espediente privilegiato per intrecciare relazioni di ogni tipo. Del resto Donizetti non è nuovo all’impiego della tematica agreste nelle sue opere. Basti pensare a L’elisir d’amore, ambientato in un villaggio dei paesi baschi della fine del XVIII secolo, dal quale si dipana il racconto di Nemorino che si strugge per il sentimento non ricambiato nei confronti della sua Adina. Ma, se nell’Elisir è indispensabile la presenza del ciarlatano Dulcamara per facilitare l’avvicinamento tra i due grazie al portentoso toccasana, nel Don Pasquale serve Malatesta per sbrogliare gli intricati nodi narrativi.
Prendendo a cuore lo struggimento di Ernesto e Norina, l’astuto dottore utilizza uno stratagemma per impedire a Don Pasquale di ostacolare i due amanti. In accordo con i due giovani, Malatesta propone all’anziano di sposare sua sorella Sofronia, non prima di aver convinto Norina ad impersonare questo ruolo. La fanciulla accetta titubante le nozze, ansiosa di capire se i piani di Malatesta sortiscano gli effetti desiderati. Dopo le nozze, però, la ragazza dovrà mostrarsi scontrosa e riluttante dinanzi alle avance del vecchio Don Pasquale, che prima di unirsi in matrimonio ha intestato alla fanciulla tutti i suoi beni. Infatti, appena firmato il contratto, Norina abbandona i tratti di una donzella dolce e graziosa divenendo cinica e irriverente: si dà a spese folli, raddoppia il salario alla servitù, ordina nuove carrozze e nuovi cavalli, progetta grandi feste e si fa cucire abiti e gioielli su misura.
Ridotto ormai in povertà per le spese dispendiose di sua moglie, a Don Pasquale viene rivelato l’inganno ma, lungi dall’essere lo scorbutico di un tempo, riconcilia Ernesto e Norina unendo le loro mani e celebrando vittorioso la genuinità del loro amore. In un tripudio di grazia e leggerezza appare pressoché vagheggiata l’ambientazione, non più a Roma come nel libretto originale, ma frutto di una personale rivisitazione registica, come lasciano intendere le parole di Ernesto che minaccia di lasciare Bari (non Roma!) poiché non accetta il distacco dalla sua amata. Probabilmente la scena si svolge in una cantina o nella magione di Don Pasquale, dove su ampi scaffali si trovano impilate innumerevoli bottiglie di vino. Accanto all’abitazione un vigneto, mutato poi tra il secondo e il terzo atto in un meraviglioso giardino fiorito, che di notte si ammanta di un’eleganza amena con il brillio delle stelle riflesso sul viso degli amanti e sulle coloratissime composizioni floreali.
Lo stile classico, talvolta arricchito da quadri di delicata fattura, impreziosisce il salottino della dimora di Don Pasquale, nella quale i personaggi si confrontano in terzetti scoppiettanti e spesso ilari. E che dire delle robuste voci del coro che nel prato rigoglioso cantano la celebre aria Che interminabile andirivieni scandita dal suono di un comparto orchestrale ben assortito, diretto dal maestro Renato Palumbo. Un lieto fine capace di regalare al pubblico la serenità tanto auspicata, permettendogli altresì di apprezzare la padronanza del basso Carlo Lepore nei panni di Don Pasquale, la maestria del baritono Giorgio Caoduro nelle vesti di Malaspina, la soavità nel fraseggio del soprano Veronica Granatiero (Norina) e la coraggiosa prova del tenore Levy Sekgapane (Ernesto), leggermente sottotono nell’ultima recita del 24 novembre.
Le foto del “Don Pasquale” in scena al Petruzzelli sono di Clarissa Lapolla