Quella “malattia italiana” riesplosa cent’anni fa con le camicie nere

La riedizione di "Golia. Marcia del fascismo" di Borgese offre lo spunto per una "rilettura morale" del ventennio, a cui dette il suo convinto contributo Fenoglio

La mattina del 30 ottobre 1922, al termine della cosiddetta Marcia su Roma, il re Vittorio Emanuele III conferì l’incarico di formare un nuovo governo a Benito Mussolini, il quale lo aveva minacciato di scatenare la guerra civile se non lo avesse fatto. “Maestà, vi riporto l’Italia di Vittorio Veneto” disse il futuro duce al re, nel momento in cui lo assoggettava. Successivamente, e fino al 25 luglio 1943, quella data sarebbe divenuta l’inizio per il conteggio degli anni secondo l’era fascista.

L’odierno centenario, oltre che dalla formazione di un nuovo governo, è stato preceduto dalla pubblicazione di numerosi studi sulla nascita del regime mussoliniano, saggi scritti da storici e da giornalisti, ognuno con un nuovo punto di vista. In modo quanto mai opportuno, invece, La Nave di Teseo ha scelto di ripubblicare un libro straordinario e ingiustamente dimenticato, che fu scritto in inglese da un esule italiano; pubblicato a New York nel 1937, e soltanto nove anni più tardi, a guerra finita e a fascismo caduto, in Italia.

Un ritratto di Antonio Giuseppe Borgese

Golia. Marcia del fascismo, di Giuseppe Antonio Borgese (1882 – 1952), è una brillante analisi sulle origini del fascismo, studiato come peculiare malattia italiana, e insieme una storia del movimento fascista dalle origini all’inizio della guerra di Spagna; un libro in cui il nome del personaggio biblico, potente per armi, ma nemico della giustizia e della libertà, viene eletto a simbolo, non tanto di Mussolini quanto dello stesso fascismo. Libro poco fortunato in Italia – come ricorda Francesco Merlo nella nuova e suggestiva introduzione – venne condannato sia da Benedetto Croce, che lo giudicò un’offesa all’Italia e alla sua storia sia dalla critica marxista, ma apprezzato da scrittori e intellettuali controcorrente come Leonardo Sciascia e Beppe Fenoglio, proprio perché esprimeva un antifascismo morale e non ideologico.

Fenoglio, in particolare, diede lo stesso titolo del libro di Borgese ad uno dei suoi migliori e meno conosciuti racconti, forse l’ultimo che scrisse sul tema della guerra partigiana: Golia, pubblicato postumo nel 1963, in un volume che comprendeva altri undici racconti e il romanzo Una questione privata. È un racconto di cui non si hanno informazioni sulla sua composizione: oltre al testo a stampa, è sopravvissuta soltanto una copia a carta carbone, ora esposta alla mostra Canto le armi e l’uomo. 100 anni con Beppe Fenoglio, aperta fino al prossimo 8 gennaio nei locali della Fondazione Ferrero di Alba.

Perché Fenoglio, nato nell’anno della marcia su Roma, fu attratto dal titolo del libro di Borgese e volle scrivere il suo proprio Golia? Il celebre episodio biblico narrato da Samuele potrebbe essere letto come una metafora della Resistenza italiana – e non sarebbe una lettura sbagliata – in cui il gigante Golia rappresenta la potente macchina bellica tedesca, e David il piccolo e poveramente armato esercito dei partigiani: la forza bruta contro l’ingegno e la nobiltà d’animo, il diritto della forza contro la forza del diritto. Ma impugnando la certezza della divisione tra bene e male, la scontata polarità amico/nemico, e sfidando così il modello ideologico della comune letteratura resistenziale, Fenoglio interpreta la storia diversamente. I personaggi del suo racconto rovesciano le rispettive immagini: Fritz/Golia, il soldato tedesco fatto prigioniero dai partigiani, è infatti un gigante buono, d’animo pacifico, tutt’altro che selvaggio (“è il tedesco meno tedesco che ci sia” commenta con simpatia il partigiano Polo); mentre il piccolo Carnera/David, alla cui guardia è affidato il prigioniero, è uno «scugnizzo» dagli occhi torvi e cattivi, inacidito dal suo senso d’inferiorità.

Un’immagine della mostra per i cent’anni dalla nascita di Fenoglio, organizzata dalla Fondazione Ferrero ad Alba

Nessun critico italiano ha saputo valorizzare questo testo come l’italianista tedesco Bodo Guthmüller (1937-2020), che al racconto Golia dedicò un pregevole saggio (Il racconto Golia di Beppe Fenoglio, Lettere Italiane, 1992): “Davide uccide Golia perché è il Signore a guidargli la mano nella giusta causa; la sua vittoria è la vittoria degli Israeliti contro l’empietà dei Filistei. L’uccisione del Golia tedesco invece non scaturisce da un impegno nei confronti della propria collettività, né si fonda su necessità implicite nella lotta partigiana. E neppure in quell’atto di giustizia umana che aveva reclamato Ivan [l’unico partigiano ad aver ipotizzato di fucilare il prigioniero]. Non è altro che un arbitrario atto di violenza, compiuto da un ragazzo fanatico che non riesce a dominarsi e a sopportare di non essere, come partigiano, preso sul serio. Fenoglio nelle sue opere va per principio contro corrente ed è un autore non facilmente collocabile in scuole letterarie. Con la sua scelta del bonario soldato tedesco che si conquista le simpatie della popolazione e dei partigiani, e del giovane partigiano che nell’esperienza della guerra e della violenza si disumanizza, Fenoglio rifiuta la consueta visione della Resistenza e la rende problematica. (…) Va da sé che Fenoglio, fortemente impegnato nella lotta partigiana, non pone in questione la Resistenza stessa come credettero di capire nel 1952 i critici che videro nei racconti del suo volume d’esordio, I ventitre giorni della città di Alba, un tentativo di discreditare la lotta contro il fascismo e l’occupazione tedesca. A livello storico-politico la ragione sta naturalmente dalla parte dei partigiani e il torto da quella dei fascisti e dei tedeschi. Questo non comporta però necessariamente che il bene e il male, gli orrori della guerra, le inutili violenze, la pietà e l’umanità siano distribuiti secondo criteri politici e nazionali. A livello umano-esistenziale il quadro è molto più complesso e nessun opportunismo politico o ideologico ha il diritto di falsarlo”.

Se Una questione privata è l’ultimo grande romanzo partigiano di Fenoglio, e il suo indiscusso capolavoro, Golia, apparso quasi misteriosamente nello stesso volume, rappresenta il suo ultimo grande racconto sul medesimo argomento; un testo in cui emerge limpidamente, come già nei racconti del suo primo libro, tutta l’umanità di Fenoglio. Il racconto è il suo testamento. Il Golia di Borgese, invece, si conclude con una esortazione rivolta «Ai fratelli d’Italia» – sono loro il non evocato David – a curarsi dalla malattia del fascismo facendo un sincero esame di coscienza collettivo, e ripercorrendo la storia d’Italia guidati da quell’idea democratica di giustizia e d’eguaglianza fra le nazioni che era stata il fondamento del Risorgimento italiano: «In quante persone e quante cose hanno confidato gli italiani di questi anni! Essi hanno aspettato la libertà dagli inglesi, dagli abissini, dalla Società delle Nazioni; forse adesso la stanno aspettando dagli spagnoli o dai russi. Essi hanno riposto le loro speranze ansiose nella pallottola dell’assassino, nelle cospirazioni dei bacilli, nella brevità della vita, nel caso. (…) Ma lo spirito non compie la sua opera per mezzo di agenti fortuiti. Neppure la lama di Bruto tagliò. Egli fu migliore di molti italiani di oggi, e Cesare fu un uomo assai più grande del loro tiranno attuale. Eppure Cesare morì e la tirannia continuò. Perché la tirannia non risiedeva nel cuore di Cesare, ma era nel cuore dei romani. Non dagli altri gli italiani riceveranno la libertà, ma da loro stessi; non dalla morte essi avranno la vita, ma dalla VITA». Scritte nel 1937, queste parole mantengono intatta una loro profonda attualità.

Nell’immagine in alto, la copertina del libro di Antonio Giuseppe Borgese, ripubblicato da La Nave di Teseo