La morale distopica della Dama di Picche

Con una serie di sold out, il dramma di Čajkovski, tra i più oscuri ma fascinosi del repertorio operistico, segna un'altra tappa memorabile nella stagione del Petruzzelli

Conturbante, ipnotico, labirintico. Un fremito che disorienta, un mistero che s’infittisce, un’inquietudine che s’insinua nelle pieghe dell’anima e si scioglie in un pianto irrefrenabile. Le lacrime disperate che Pëtr Il’ič Čajkovskij versa alla morte del caro Herman e che mutano in un “dolce attacco isterico“. Da semplice “pretesto” per comporre musica, il lacrimevole eroe si trasforma in uomo vivo, reale, abile dissimulatore ma certamente non imperturbabile alla grandezza di un amore che soccombe, tuttavia, agli oscuri meccanismi della sorte e alla spietata sete di rivalsa.

Mettetevi comodi e… che il gioco abbia inizio! Nell’elegante cornice di una San Pietroburgo di fine Settecento, dove le carte costituiscono uno degli svaghi preferiti della nobiltà e della borghesia cittadina, Herman, assiduo frequentatore di bische clandestine, racconta di essere follemente innamorato ma di non conoscere il nome della sua amata. Piange, si tormenta implacabilmente fino all’arrivo di Liza, fidanzata dell’amico Eleckij, che accompagna sua nonna in carrozzina. Sull’anziana contessa si tramanda un’antica leggenda: durante la giovinezza aveva vissuto in Francia dove il conte di Saint Germain, sedotto dalla sua bellezza, le aveva rivelato il segreto per vincere al gioco delle tre carte.

L’ereditiera aveva rivelato lo stratagemma prima al marito e poi ad un amante fino all’apparizione di un fantasma che le aveva profetizzato la sua morte, in seguito alla comparsa di un terzo uomo desideroso di conoscere l’enigma. L’attrazione struggente tra Herman e Liza si consuma tra le mura della casa della contessa, ma l’idillio s’interrompe con l’arrivo dell’anziana donna. In preda alla paura, il giovane ufficiale dell’esercito russo si nasconde nella stessa camera in cui la nonna rimbrotta sua nipote per la condotta dissoluta della notte appena trascorsa. Una volta andata via, Herman giura amore eterno a Liza. Tra i due irrompe una passione che divampa nell’oscurità ma si dissolve lentamente affiorando solo a singhiozzi.

La spontaneità del sentimento svanisce quando la smania di onnipotenza e di danaro assalgono il protagonista, in balìa di un male ineluttabile che avanza e prende piede al cospetto della vecchia signora. Un brivido, una vertigine, un’ossessione malcelata da un tormento sussultorio senza tregua, un’insaziabile bramosia di guadagno che stringe il cuore in una morsa d’angoscia. Herman si introduce nuovamente nell’appartamento della contessa per estorcerle il mistero delle tre carte, ma l’anziana, sgomenta e ammutolita, muore terrorizzata. Il suo spirito non indugia a ricomparire al suo assassino inconsapevole per risolvere il mistero delle tre carte. Furente e schiavo del gioco, l’eroe tragico si avvia verso la sua rovina.

ll soprano Elena Bezgodkowa in una scena dell’opera

Egli dapprima ripudia Liza, che si suicida gettandosi nelle acque del fiume Neva, poi si procura volontariamente la morte pugnalandosi sotto gli occhi dei presenti, dopo aver sfidato e perso contro il rivale d’amore Eleckij. Su Herman incombe il peso di una vendetta latente comminata da un deus ex machina tutto al femminile che lo tempesta fino al triste epilogo, regalandogli per un’istante l’illusoria felicità di essere vincitore delle prime due poste di gioco, il tre e il sette di picche, ma perdendo tutto con la terza poiché, in luogo dell’asso vaticinato dallo spirito della ricca ereditiera, tra le mani si ritrova l’orrida effige della stessa, che ora ha anche un nome: La Dama di Picche.

A questa misteriosa creatura letteraria, prodotto della fervida immaginazione di Aleksandr Puškin che nel 1834 scrisse un omonimo romanzo, il compositore russo Pëtr Il’ič Čajkovskij dedica la penultima delle sue dieci opere, su libretto del fratello Modest, debuttando al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo nel 1894. La sua è una musica che infiamma scorrendo ruvida e impetuosa nel vortice della psiche umana, fino a lambire la quiete. Una partitura orchestrale complessa dove a dominare sono le tonalità cupe e roboanti degli ottoni e dei fiati, ravvivate dal tocco armonico degli archi e dal movimento brioso del coro, spettatore coinvolto e consapevole della mutevolezza della sorte.

Alla splendida Dama di Picche andata in scena al Teatro Petruzzelli non manca proprio nulla. Il capolavoro registico di Uwe Eric Laufenberg, importato dal Hessisches Staatstheater di Wiesbaden, con il quale il tempio dell’opera barese intrattiene un prezioso rapporto di collaborazione, offre al pubblico la possibilità di immergersi tra le pagine del racconto di Puškin o del libretto di Modest Čajkovskij presentando su un pannello nero ampie porzioni di testo durante i numerosi cambi di scena. Quella scenografia traboccante di una perfezione quasi cinematografica avvolge e sconvolge i personaggi turbati da un enigma che resta irrisolto. Il gioco di luci dal vivido rosso al verde intenso sfuma nel fioco bagliore del giallo, suggellando il significativo passaggio degli stati d’animo dei protagonisti. Il raffinato comparto scenico ben si presta all’espediente tragico, attraverso il quale i personaggi divengono eroi e antieroi di sé stessi, artefici o vittime del proprio destino.

Superba la prova dell’orchestra diretta dal maestro Michael Güttler parimenti alla monumentale performance del tenore Aaron Cawley nei panni di Herman e del soprano Elena Bezgodkowa nelle vesti di Liza. Limpido e ben scandito il fraseggio del mezzosoprano Romina Boscolo, che guadagna la standing ovation del pubblico con la brillante interpretazione della vecchia Dama di Picche. Un’estasi sensoriale che battezza l’udito come canale di trasmissione privilegiato, dal fitto tramestio dei cambi di scena ai sinuosi passi di danza di bellissimi ballerini seminudi, dal volteggio delle carte che si adagiano dolcemente sul tavolo di gioco all’apoteosi del belcanto. Un dramma capace di estrinsecare la potenza immaginifica dell’osservatore e di scardinare ogni vessillo di prevedibilità. Perché la vitalità dell’arte si esplica nella caparbia rielaborazione di contenuti già noti riadattandoli sotto altra forma o assecondando il gusto dell’epoca.

E, alla stregua dei demiurghi, i fratelli Čajkovskij firmano un capolavoro senza tempo depositario di una morale che serpeggia ancora nella vita di tutti i giorni. Quel velato invito alla parsimonia e alla moderazione ricorrente sia nel dettato di Puškin sia nel libretto d’opera non impedisce al lavoro di Laufenberg, ripreso in questa sede da Silvia Gatto, di concedersi una maggiore libertà interpretativa nella scelta dell’ambientazione: non più il settecentesco Giardino d’Estate dello zar Pietro il Grande bensì un generico e timidamente vagheggiato Novecento. Qualche sottile variazione anche nella resa del finale: Herman, folgorato dall’immagine in chiaroscuro della vecchia contessa, viene risparmiato dal suicidio ma giace abbandonato a se stesso, privo dell’affetto dei suoi cari e dell’amore di Liza dalla quale invoca il perdono. La follia squassa le sue membra dilaniando un’anima che anela alla redenzione.

Nella foto in alto, il soprano Elena Bezgodkowa nelle vesti di Liza e Aaron Cawley nei panni di Herman. Le foto della “Dama d Picche”, in scena al Petruzzelli, sono di Clarissa Lapolla