Se siete indecisi su come organizzare il prossimo weekend, correte a visitare la mostra Collezionauta. Capolavori attraverso il tempo, allestita nel “grottone” di Palazzo Jatta a Ruvo di Puglia. Lo spazio espositivo, finora chiuso al pubblico, intende potenziare e diversificare l’offerta culturale del museo (attualmente chiuso per lavori di restauro), attraverso un percorso fra archeologia e storia del gusto, che si avvale delle preziose testimonianze, tra le più importanti nell’ambito del collezionismo ottocentesco, raccolte dalla famiglia Jatta. Ma prima di scoprire i tesori custoditi nella raccolta, facciamo un cenno alla storia del palazzo che li ospita, su cui, nell’ambito delle visite alla mostra, si è soffermato, in qualità di guida turistica, l’arch. Giuseppe Caldarola.
Progettato tra il 1840 e il 1844 dall’architetto bitontino Luigi Castellucci, Palazzo Jatta risente della temperie culturale di un’epoca caratterizzata da due eventi importanti. Il primo è l’arrivo a Napoli di Gioacchino Murat, nominato re da Napoleone Bonaparte, che porta nel sud Italia una ventata di aria francese non solo nel gusto ma anche nel linguaggio, grazie ad una serie di elementi artistici di gran pregio da individuare in un modello urbano principalmente a scacchiera che, a partire da Bari, comincia a diffondersi in vari centri della provincia (Trani, Bisceglie, Molfetta) con dimensioni minori. Il secondo è il periodo della Restaurazione, iniziato con il Congresso di Vienna (1814- 1815), che sancì il ritorno dei Borboni a Napoli con il re Ferdinando IV, promotore di alcune fondamentali innovazioni: una nuova infrastruttura urbana ottenuta attraverso una prima industrializzazione (ricordiamo le seterie di San Leucio, dove da una produzione manuale legata alle singole famiglie si passa a una produzione industriale), la creazione della prima ferrovia (la circumvesuviana con impianto a fune), la costruzione di strade per muovere velocemente le merci, una riforma agraria che in Puglia trasforma radicalmente un paesaggio costituito da grandi estensioni di colture cerealicole in agricoltura intensiva con uliveti, vigneti e mandorleti. Nel momento in cui si assiste al passaggio da un tipo di agricoltura estensiva ad intensiva, i proprietari riescono ad avere una maggiore disponibilità economica che consente la formazione di una nuova classe dirigente, la borghesia terriera.
Durante il regno di Ferdinando IV, a Ruvo viene aperto il tracciato di una strada, la Ferdinandea o Mediterranea, mediante la quale si urbanizza una parte della città che fino alla decade precedente, in cui era ancora in uso il circuito murario, doveva essere lasciata libera. Nella zona finora preservata per scongiurare il pericolo di eventuali attacchi esterni viene intercettata, dunque, una necropoli con tombe e tesori di diversa rilevanza. Al tempo, tuttavia, bisognava fare fronte alla mancanza di normative di tutela dei tesori: tutto ciò che proveniva dal sottosuolo diventava automaticamente di proprietà privata. Proprio a Ferdinando IV si attribuisce la prima norma di tutela del patrimonio archeologico con l’istituzione della Commissione dei Regi Scavi, col fine di sottrarre alcune delle campagne a uno scavo di frodo completamente deregolato come ad una movimentazione totalmente incontrollata di tutto il materiale rinvenuto.
L’opera della commissione sembra coinvolgere anche Ruvo, considerato il numero esorbitante di tombe e corredi funerari rinvenuti, nonché un’ingente quantità di pezzi di oreficeria (collane, monili, oggetti in oro, argento e bronzo) insieme a vasellame vario. La prima vera occasione di indagine e perlustrazione del suolo ruvese è offerta nel 1833 con il ritrovamento in Piazza Matteotti di una tomba a sarcofago di forma rettangolare, scavata in un banco di roccia che aveva tutto intorno al collo un raggio decorato continuo rappresentante un corteo di donne. Tuttavia la tomba fu ritrovata danneggiata poiché intercettata, nel corso del tempo, dalla costruzione di un pozzo che aveva completamente fracassato uno dei suoi lati corti. Tale fu l’interesse suscitato dal fortunoso rinvenimento di Piazza Matteotti che la commissione si recò più volte a Ruvo per condurre una serie di campagne sistemiche, comportando un aumento della fama del paese. Cosicché si era cominciata ad innestare un’abitudine in virtù della quale una collezione privata non poteva ritenersi completa fino a quando non si possedeva almeno un vaso proveniente da Ruvo.
A questo scenario culturale si ascrive la famiglia Jatta, la cui collezione privata è l’unica rimasta a Ruvo rispetto alle cinque maggiori che hanno avuto destini diversi: alcune sono andate completamente smembrate per successioni ereditarie, altre sono state vendute fuori, altre trafugate soprattutto a ridosso della seconda guerra mondiale, altre purtroppo perdute. C’è tuttavia un’ulteriore questione su cui soffermarsi, prima di concentrarsi sul criterio espositivo seguito per questa mostra. A partire dai due fratelli Giovanni e Giulio Jatta si imposta un metodo di conduzione delle campagne di scavo, poi portato avanti dal nipote Giovannino Jatta, e un procedimento di lettura interpretativa dei vasi che permette alla ricca famiglia ruvese di diventare punto riferimento per gli studi legati all’archeologia.
L’esposizione, dunque, vuole raccontare lo spirito collezionistico della famiglia Jatta impostatosi nell’Ottocento e perpetuatosi nel tempo fino ad arrivare alle generazioni odierne. L’interrato del palazzo, noto come “grottone”, è organizzato in modo da portare in mostra nella corsia centrale alcuni dei reperti, testimoni della passione per il collezionismo da cui è scaturita la creazione del museo privato, divenuto nel 1933 Museo Archeologico Nazionale; nelle corsie laterali è disposta una serie di oggetti appartenenti ai vari membri della famiglia che, in realtà, raccontano i loro interessi paralleli, lavorativi, di speculazione intellettuale o di vita quotidiana. Non è un caso che all’architetto Luigi Castellucci gli Jatta non chiedano solo una residenza di famiglia, atta ad ospitare vani di servizio e vani di rappresentanza legati al quotidiano, ma anche una casa-museo con finalità culturali.
Lungo l’asse centrale, infatti, l’ “architetto borghese” dispone due luoghi principali: sul lato sinistro il museo e sul lato destro la biblioteca; da una parte un luogo dove poter conservare le numerose “meraviglie” e dall’altra un posto dove poterle studiare attraverso i testi di riferimento. Nella biblioteca si conservano circa 10.000 volumi di archeologia, medicina, botanica, economia, insieme a testi giuridici, a seconda non solo delle passioni e degli interessi ma anche dei metodi lavorativi dei singoli membri della famiglia. Sono circa 2.200 i reperti che compongono il museo, tutti collezionati dai committenti dell’intero nucleo familiare: Giovanni Jatta, Giulio Jatta e sua moglie Giulia Viesti. Ma ad abitare realmente questi luoghi è il figlio Giovannino (detto anche Giovanni Jatta Junior) che si preoccupa di ordinare la collezione nelle sale e di scrivere il catalogo della stessa.
Nella corrispondenza tra il primo Giovanni Jatta e sua cognata Giulia, lo stabile era denominato Palazzo dei Palmenti del Purgatorio, poiché in questo sito esisteva un altro edificio. Dal nome si evince che la famiglia aveva acquistato un appezzamento di terra direttamente dalla confraternita del Purgatorio e che questa superficie doveva essere adibita alla costruzione di un edificio rurale, utilizzato per la conservazione e la lavorazione di prodotti agricoli, i cosiddetti palmenti, che nella maggior parte dei casi erano depositi di mandorle piuttosto che di olio con annesso frantoio. Un luogo di produzione in uno spazio direttamente collegato con il giardino, principalmente utilizzato come deposito di mandorle. Lungo le corsie si osservano, infatti, oggetti di uso quotidiano legati alla vita agraria: selle con le iniziali dei vari Giovanni Jatta, targhe provenienti dall’azienda agricola delle Matine, altre provenienti dalle grandi masserie costruite all’interno dei vecchi latifondi Jatta. Vale la pena ricordare come, in seguito alla riforma agraria, cambiano anche le strutture delle masserie: da quelle basse da campo, usate come deposito di cereali, se ne cominciano a costruire con all’interno spazi produttivi destinati a frantoio piuttosto che a cantina. Nel caso degli Jatta, per esempio, è loro la commissione di Torre del Monte, trasformata in questi anni in sala ricevimenti, della masseria Polvino, attuale agriturismo, della tenuta Ciccio Ficco progettata nel 1886 dall’architetto Pomodoro.
Su un primo tavolo dell’esposizione si raccolgono i cosiddetti vasellini che fanno riferimento alla “stanza delle terrecotte” del museo, in fase di restauro. Qui venivano conservati i pezzi ritenuti di minor pregio perché meno decorati e meno ricchi di particolari, risalenti ad un periodo compreso tra l’VIII e il VI secolo a.C., che comprendono ceramiche dello stile geometrico della pittura vascolare ionica. Come per “terrecotte” anche il termine “vasellini” aveva un’accezione dispregiativa: identificava, infatti, una serie di oggetti di piccole dimensioni molto spesso poco decorati e di non grande qualità che i collezionisti “dovevano” acquistare sia perché venivano venduti in blocco sia per accaparrarsi pezzi d’arte più pregiati. A questa tipologia appartengono contenitori per unguenti, oli e balsami, lucerne, altri oggetti di varia natura che venivano venduti insieme ai vasi, pezzi a forma di coppa impiegati come bicchieri da vino (kantharoi) collegati al momento del banchetto.
Come attestano le parole di Giovanni Jatta (“la speculazione de’ scavamenti cominciò allora a porsi di moda; ma nell’anno 1822 giunse al furore e fu portata ad un punto da non potersi oltrepassare”) le campagne di scavo a Ruvo erano diventate sistematiche. Si continuava a scavare giorno e notte ininterrottamente, in maniera tale che non si lasciasse incustodita nessuna area e si portasse alla luce qualsiasi pezzo d’arte per timore che qualcuno arrivasse prima e si impadronisse di quegli oggetti che via via stavano emergendo. A quel punto è egli stesso a chiedere l’intervento della Commissione dei Regi Scavi. Partono da Ruvo alla volta di Napoli tutti gli oggetti di oreficeria che vanno automaticamente a confluire nelle collezioni reali, nonché in direzione di Taranto, dove tra gli ori custoditi al MArTA (Museo Archeologico Nazionale di Taranto) ritroviamo numerosi monili provenienti da Ruvo.
Ma la cifra peculiare e distintiva degli scavi ruvesi si ravvisa nei bicchieri, un tempo tenuti nella terza stanza del museo dedicata ai grandi vasi. Si conservano quindi diverse tipologie di recipienti: brocche per la mescita del vino (oinokoi) dalla forma molto stretta con figurazioni animali, teste maschili, femminili o di fauni, menadi, divinità. Legate al tema conviviale sono anche piatti con raffigurazioni di pesci appartenenti al rituale delle libagioni: l’offerta funebre che si faceva sul corpo del defunto dopo la morte con piatti di primizie e massa lievitata. Il tema marino si collega ad alcuni interessi della famiglia: uno dei figli di Giovanni Jatta, Giuseppe Jatta, è un entomologo, si dedica allo studio dei molluschi marini e sua è la scoperta di inventariazione di una seppia che vediamo ritratta su uno dei piatti. Si susseguono poi oggetti utili allo studio dei licheni, con relativi strumenti ottici e alcune rappresentazioni di atlanti: questi sono strumenti provenienti da Mauro Jatta, allievo e assistente del premio nobel Camillo Golgi cattedratico all’università di Pavia, nonché uomo di valore. Si dice, infatti, che durante la prima guerra mondiale le truppe non potessero partire al fronte senza il suo consenso e che lo stesso fosse il promotore delle prime campagne vaccinali.
Dopo aver passato in rassegna alcuni oggetti di Antonio Jatta, fondatore dell’azienda agricola delle Matine, (bottiglia Campione, timbri con cui venivano impresse le etichette delle bottiglie, alcune delle strumentazioni per misurare il grado alcolico, il grado zuccherino e il grado di acidità; oggetti legati alla caccia provenienti da Parco del Conte), l’attenzione si sofferma su una bacheca contenente monete urbiche. Tra il V e il IV secolo a.C. Ruvo possedeva una moneta autonoma, un privilegio che veniva concesso solo ad alcune città da parte di Atene. Su uno dei lati delle monete si trova raffigurata proprio la civetta simbolo della più fiorente città dell’Attica. I rapporti commerciali così floridi con la regione greca sono dimostrati dalla presenza di vasi provenienti da quella zona, come il cratere di V-IV secolo a.C. raffigurante il commiato di un guerriero dal figlio che gli porge l’elmo, lasciando ai suoi aiutanti il compito di porgergli l’armatura. A questi si aggiungono recipienti di fattura corinzia e altri di derivazione apula. Questi ultimi venivano posti all’interno dei corredi funerari. Il culto dell’aldilà prevedeva che al defunto spettasse una vita molto simile rispetto a quella appena conclusa; così, accanto al corpo esanime si collocavano oggetti di uso quotidiano che rinviavano al ruolo sociale ricoperto in vita, come l’armatura per gli uomini, elementi della sfera domestica per le donne.
Si rilevano delle differenze, tuttavia, tra i vasi di produzione attica e i vasi di produzione apula: i primi hanno il tema figurativo su entrambi i lati e facevano parte dell’apparato decorativo delle case ancor prima che il defunto morisse, i secondi sono perfettamente riconoscibili perché sul retro del vaso è rappresentato il defunto all’interno di un tempietto, quindi venivano commissionati in occasione di una morte. Tra i tanti crateri l’attenzione si concentra su quello contenente la raffigurazione della regina Niobe punita dagli dei per essersi vantata della sua fecondità, una scena di amazzonomachia e centauri nel registro superiore, un tempietto all’interno del quale è rappresentato il defunto con cavallo e pezzi di armatura a far capire che la tomba era quella di un guerriero, circondato dal ritratto di coloro che portano l’offerta funebre.
Osservando le vetrine allestite nelle ampie stanze del grottone, troviamo anche il primo registro di visita al museo, il manoscritto del catalogo, la chiave che apriva la collezione, i trenini di Luigi Jatta, giochi da tavolo per passatempi, oggetti legati al viaggio, atlanti, valigie, set da barba e un acquerello prestato per questa mostra dal seminario vescovile di Molfetta ritraente la tomba delle danzatrici. Spiccano altresì gli imponenti vasi in esposizione, ritrovati a Ruvo negli anni ’80 in via Madonna delle Grazie, che afferiscono alla cosiddetta tomba Guastamacchia, dal nome del firmatario della concessione edilizia. Questo nucleo di reperti, mai messo in mostra, confluirà nel futuro Museo Civico quando saranno completati i lavori di ristrutturazione del Convento dei Domenicani.
Conclusione in bellezza con il Vaso di Talos
Una volta ammirato il cratere delle Esperidi, le sacerdotesse di Era che vivevano all’interno del loro giardino con un albero dai pomi d’oro protetto dal drago Latona, si passa infine al pezzo più importante della collezione Jatta: il Vaso di Talos, riprodotto da Giovanni Jatta su carta velina e pubblicato sui bollettini di corrispondenza archeologica. La difficile interpretazione del mito non aveva consentito una grossa riproduzione: ritroviamo infatti solo una copia di bottega conservata nel museo di Atene, uno specchio con la medesima raffigurazione e delle monete. Le peculiarità del vaso di V secolo a.C. proveniente da Atene che ancora oggi balzano agli occhi sono: la rappresentazione del gigante.
Nella storia dell’arte si dice che sia stato Michelangelo a introdurre la cosiddetta “figura serpentinata” cioè la possibilità di guardare una statua a tutto tondo senza avere un punto di vista privilegiato. Fino a Michelangelo la scultura era fatta frontalmente, lateralmente o di tre quarti. Michelangelo invece permette alla scultura di espandersi e di guardarla tutta intorno. Questo vaso infatti racconta una figura che si attorciglia su se stessa superando il punto di vista bidimensionale delle pitture vasocolari, rappresentate come se ogni parte del corpo avesse uno scatto meccanico. La bottega del V secolo a.C. in cui era stato realizzato il vaso probabilmente era aperta agli influssi della medicina ippocratica e agli studi anatomici di questo periodo. Lo stato di conservazione. Originariamente il vaso fu ritrovato frantumato ma il criterio ottocentesco imponeva che fosse preservata la forma intatta. Dopo un primo restauro ottocentesco in cui si erano riuscite a mascherare le parti mancanti, il nuovo restauro degli anni novanta preservava solo le parti originali, mentre venivano asportate le integrazioni successive.
Si conclude così il lungo e fascinoso viaggio nel passato che concilia secoli di storia nazionale con le scoperte archeologiche della nostra terra, a cui sempre saremo grati per la sua enorme ed inestimabile ricchezza.
Nelle foto, tratte dalla pagina fb del Museo Jatta, alcuni reperti in mostra a Palazzo Jatta