Cieli immensi e immenso amore. Quei giardini di marzo vestiti di nuovi colori, il treno partito alle 7.40, le emozioni impercettibili come il colore di una giornata uggiosa, quel “canto libero” che ancora oggi sei solo tu. Lucio, sognatore solitario, schivo e anticonformista, lontano dal “caravanserraglio massmediatico” (di cui ha parlato tante volte la grande Mina, sua fidata estimatrice), che pure a riflettori spenti non gli dava tregua. Un animo coraggioso ed inguaribilmente romantico, a cui è bastato elevare un “canto libero” per vedere germogliare dietro l’effimero muro della mediocrità giovani ideali affrancati dal peso di fantasmi passati e sorretti da un anelito d’amore. E quando s’alza il vento tiepido del sentimento Lucio lo respira rendendolo parte di sé; ne è pervaso, lo scandaglia fino a comprenderne la sua grandezza ma mai la sua origine.
Così, quel timido ragazzo nato a Poggio Bustone il 5 marzo del ’43, durante i bombardamenti tedeschi e le ondate di scioperi che obbligavano il governo fascista a numerose concessioni salariali, rappresenta già dalla fanciullezza per il padre Alfiero e la madre Dea una rivincita su un lutto che li aveva colpiti due anni prima, la scomparsa prematura del primogenito Lucio. Se la decisione di chiamare il futuro cantautore con il nome del fratellino morto a soli due anni costituisce l’unico viatico di riscatto da un periodo doloroso, a Lucio Battisti basta solo imbracciare una chitarra per divenire la massima espressione dell’arte musicale, forse la più feconda, a cavallo tra gli anni ’60-’70. È stato il cantore di un’epoca fitta di contraddizioni, quella del ventennio successivo al secondo conflitto mondiale, dove all’esigenza di rinnovamento politico e sociale si associa il bisogno di purificare l’animo dalle brutture della guerra.
E Lucio lo fa narrando l’amore in tutte le sue sfaccettature, le paure, le ansie di una generazione che scalpita di affacciarsi alla modernità. Che talento raro quello di essere capiti da tutti, dai garzoni che consegnano il pane in bicicletta fischiettando il ritornello della canzone preferita alle madri che chiamano a tavola i figli dopo una partita di pallone, dai medici agli avvocati sino agli scioperati benpensanti. Che vanto scorgerli assorti mentre ascoltano un brano che li rispecchia. A volte si ascoltano canzoni solo per sapere che qualcuno ci è già passato e, nell’ascolto, ci si sente figli di una stessa materia che ci spinge a cantare con le lacrime agli occhi.
Ma l’epopea del cantautore sarebbe stata così luminosa senza il sodalizio con Mogol? Una domanda a cui lo stesso, grande paroliere milanese non è in grado di rispondere con certezza. Ciò che resta a distanza di anni, è il ricordo di un’intesa fraterna, fatta di lunghi viaggi, condivisioni e sperimentazioni in campo musicale e compositivo. Molto più di un semplice rapporto di mecenatismo, al di là di ogni dinamica lavorativa e contrattuale, un’unione artistica terminata solo nel 1980 dopo circa 15 anni.
In una piazza sfavillante per la festa in onore della Madonna del Rosario, Giulio Rapetti in arte Mogol guadagna il palcoscenico e si gode l’ovazione del pubblico ancor prima che lo spettacolo cominci. E stupito esclama: “accidenti, quanti siete!“, dopo aver promesso al pubblico di insegnargli a comporre una canzone e a comprenderne il significato. Al compositore serve solo dare un cenno al tastierista Dario Troisi che, scaldando la platea, intona l’incipit del capolavoro poetico e musicale del 1970 intitolato Emozioni. A luci soffuse sulla scena incede silenziosamente Gianmarco Caroccia, il giovane cantautore di Fondi, allievo di Mogol che ricorda davvero molto sia nell’aspetto sia nel timbro vocale Lucio Battisti.
Parte da qui il “laboratorio poetico” della ditta Mogol-Caroccia, impegnata da qualche anno a riproporre l’atmosfera degli anni ’70 nelle piazze o nei teatri attraverso una ricca kermesse di spettacoli, dove la parola cede il passo alla musica e viceversa in un legame mutuale ed armonico. “Quando scrivo canzoni ci metto dentro la mia vita“, confessa Mogol, raccontando la storia di un ragazzo combattuto tra la voglia di vivere un nuovo amore e l’ombra del passato, di quei giorni trascorsi con “lei” che pendono dal soffitto come stalattiti, segno di una ferita difficilmente marginabile. Come può uno scoglio antico arginare un mare tumultuoso di freschezza? si chiede ripetutamente nel brano del ’72, Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi.
Un interrogativo insistente che torna sotto altra forma nel ritornello de I giardini di marzo (1972), dove il poeta si estranea dal mondo domandando a se stesso “che anno è, che giorno è, questo è il tempo di vivere con te“. Versi immortali grazie ai quali Mogol rievoca l’infanzia, quando giocava a pallone in una stradina di campagna che separava la sua abitazione dall’enorme distesa di granturco visibile all’orizzonte. Dopo le briose Un’avventura (canzone con la quale Battisti debutta a Sanremo nel ’69, conquistando il nono posto in classifica) e Dieci ragazze, Fiori rosa fiori di pesco, Il tempo di morire, che suggella la totale dedizione all’amore sebbene si rischi di perdere una motocicletta 10hp tutta cromata pur di guarire un cuore malato, spazio a Una giornata uggiosa e Anche per te dedicata a tre figure femminili – una suora, una prostituta e una ragazza madre – che il paroliere sente di dedicare a tutte le donne ucraine fuggite dall’orrore della guerra ed in particolare ad una famiglia da lui stesso ospitata.
Gli fa male pensare di non riuscire a offrire un aiuto maggiore e, seguendo le parole della canzone, si rattrista: “io resto lì“… immobile. Ma la musica riattacca e Mogol sulle note di Il mio canto libero, di Una donna per amico e Con il nastro rosa rivela al pubblico in “gran segreto” le scappatelle della giovinezza, gli amori e le “conoscenze di una sera”, presentando poi l’inedito di Caroccia Un Vero Amore, che richiama alla memoria -specie nelle prime battute- il ritmo di Nessun dolore del 1978. E ancora il poeta della canzone italiana e il suo prode scudiero, che ha saputo ben raccogliere il testimone del vasto repertorio battistiano, invitano l’intero staff a salire sul palco e a cantare insieme a loro il brano probabilmente più conosciuto di quel florido periodo di collaborazione agli albori degli anni Settanta.
Riff di chitarra e basso di Marco Cataldi e Alessandro Patti, colpi di batteria di Luca Monaldi e si viaggia a ritroso con La canzone del sole, al termine della quale il sindaco di Terlizzi, Michelangelo De Chirico, e l’amministrazione omaggiano Mogol e Caroccia con prodotti tipici pugliesi e un’artistica oliera. Mogol saluta e va via tra gli applausi, mentre Caroccia rimane a cantare con un pubblico in estasi che lancia bellissime celosie argentee delle quali è adorno il palco. Eppur mi son scordato di te e 7 e 40, accompagnati dal meraviglioso suono del sax di Olimpio Monaldi, chiudono una serata densa di emozioni, quelle che ogni volta riviviamo nel nome e nel segno del “nostro caro angelo“, Lucio.