Se il mondo è un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte, la storia diviene lo “strumento” privilegiato attraverso cui conoscere le vicende umane. Non importa quanto essa sia inficiata dal dubbio radicale che la vita, già di per sé fragile e minacciata dall’oscura e costante presenza della morte, possa essere un sogno o un’illusione. A questo martellante interrogativo, che sembra serpeggiare silenzioso e attentare ad un’esistenza serafica e passiva, le creature letterarie di William Shakespeare non rispondono mai in maniera definitiva, offrendo ai posteri la possibilità di interrogarsi e lasciando aperto ogni varco di riflessione.
L’impeto con il quale la forza del male irrompe nella storia è parimenti vigoroso come l’energia creatrice e al contempo distruttiva dell’uomo che non indugia a mostrare i suoi limiti, le sue inquietudini e soprattutto la volontà di cedere ai colpi dell’amore, unico mezzo di elevazione spirituale, malgrado la passione rovinosa ed incoercibile. E in un teatro cinquecentesco come quello elisabettiano, che premia la riscoperta dei classici, sostituendo ai temi religiosi argomenti mitologici o di storia antica nonché una tragedia senechiana a tinte fosche, si sviluppa la liaison amorosa tra Romeo e Giulietta, forse una delle più celebri di tutta la letteratura mondiale, che Shakespeare tramutò in tragedia tra il 1594 e il 1597 attingendo alla novellistica italiana della prima metà del Cinquecento, conosciuta attraverso traduzioni e rielaborazioni in versi sia in francese sia in inglese.
Appartenenti a due nobili famiglie veronesi in lotta tra di loro, Romeo dei Montecchi e Giulietta dei Capuleti si incontrano ad una festa organizzata dal padre della fanciulla. Il loro è un amore subitaneo e ardentissimo, reciprocamente rivelato al termine del banchetto. Benché l’odio tra le due famiglie incomba sulle loro vite, con l’aiuto di frate Lorenzo i due giovani innamorati si sposano segretamente. Qualche ora dopo Mercuzio, fedelissimo di Romeo, viene ucciso da Tebaldo, cugino di Giulietta. Il novello sposo vendica l’amico uccidendo Tebaldo. Comminatogli l’esilio dal duca di Verona, Romeo – dopo aver trascorso la notte con Giulietta – si rifugia a Mantova ma a sua insaputa il vecchio Montecchi combina il matrimonio di sua figlia con il conte Paride. Per scongiurare il pericolo delle nozze forzate, frate Lorenzo invita Giulietta a bere una pozione che le garantisce una morte apparente. E quando Romeo scopre erroneamente che l’anima della sua amata è spirata in cielo, procuratosi un veleno potente, si reca sulla sua tomba per uccidersi. Ma Giulietta svegliatasi di lì a poco, si trafigge con un pugnale allorché il corpo del marito giace ormai esanime.
Giocando sulla contrapposizione tra due visioni d’amore agli antipodi, l’amore fresco e appassionato dei protagonisti e le bieche logiche di potere delle due casate nobiliari di Verona, il genio di Stratford-upon-Avon sovverte le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione care ai moduli letterari della classicità per abbracciare un arco cronologico più ampio e spazi differenti nello svolgimento di un’azione mai dominata dal fato ma dalla grandezza e dall’eroicità dei personaggi. Una vibrante sensualità, una spinta propulsiva verso l’eros che trova nell’intensità del linguaggio un alleato consapevole. E se, come suggerisce Romeo, “l’amore è un fumo prodotto dal vapore dei sospiri; purificato, è un fuoco che sfavilla negli occhi degli amanti; tormentato, è un mare che si nutre dalle lacrime degli amanti” (Atto I, scena 1 “love is a smoke made with the fume of sighs; being purged, a fire sparkling in lovers eyes; being vexed, a sea nourished with lovers’ tears”), fulmineo è l’anelito verso la morte, congedo da un mondo terreno ingiusto e brutale nonché mezzo di espiazione di tutti i mali.
Ma quando il dettato shakespeariano incontra nel 1865 la musica di Charles Gunod su libretto in francese di Jules Barbier e Michel Carré, l’apoteosi dell’arte drammatica è compiuta. Articolata in cinque atti, l’opera del compositore francese mantiene intatta la cifra stilistica del teatro shakespeariano riproponendo fedelmente il contenuto della tragedia in chiave musicale, a partire dal prologo di carattere informativo recitato dal coro per giungere ai ruoli secondari, ma non di minore importanza, svolti dalla nutrice e da frate Lorenzo, leali confidenti e sostenitori dei protagonisti. Peculiarità che si riverberano nella produzione dell’Opéra Comique de Paris “Roméo et Juliette“, con la regia di Éric Ruf, in scena al Teatro Petruzzelli.
Sotto la straordinaria direzione orchestrale dello spagnolo Jordi Bernàcer, sostituito per motivi di salute in alcune repliche dalla bacchetta della barese Roberta Peroni, a spiccare è la performance del coro che offre il benvenuto al pubblico con l’elegante giro di valzer L’heure s’envole in casa dei Capuleti, seguito da uno stuolo di ballerini e mimi nei panni di cittadini veronesi, parenti delle due famiglie, guardie, uomini della ronda e servitori che partecipano al giubilo del momento conviviale. In stato di grazia Tybalt (Tebaldo) interpretato dal giovanissimo tenore Valerio Borgioni, acclamatissimo nel Werther di Jules Massenet lo scorso aprile, la caparbia Antonella Colaianni (mezzosoprano) nei panni della balia Gertrude e la bellissima armena dai capelli corvini Ani Yorentz Sargsyan (soprano) nel ruolo di Giulietta durante il secondo cast, inondata da un fragoroso scrosciare di applausi prima nella famosissima aria Je veux vivre, poi nella celeberrima scena notturna del balcone e, infine, quando giace a terra morta dopo essersi trafitta con la spada di Romeo. L’eleganza scenografica che balza agli occhi dello spettatore ben si confà al raffinato lirismo dei dialoghi, accompagnati da una soave partitura musicale, che cede il passo a un timbro sonoro forte e cupo dinanzi alla disperazione della coppia.
Nel capolavoro shakespeariano riadattato in opera lirica a distanza di secoli non vige alcuna regola di contrappasso né è riposta qualche fiducia nella sorte, in virtù della strenua volontà di autoaffermazione che alberga in ogni uomo. Gli amanti non subiscono i contraccolpi del destino ma lo costruiscono con le loro mani. È proprio Romeo a sfidarlo con forza titanica in nome di una passione che non conosce tregua. E al cospetto di Giulietta esclama: “con le ali dell’amore ho volato oltre le mura, perché non si possono mettere limiti all’amore e ciò che l’amore vuole, amore osa” (Atto II, scena 2 “with love’s light wings did I o’er-perch these walls, for stony limits cannot hold love out, and what love can do, that dares love attempt”).
Le foto, relative all’opera in scena al Petruzzelli, sono di Clarissa Lapolla