Quando nel 1985 Michail Gorbačëv divenne segretario generale del Pcus, l’Unione Sovietica era ancora l’impero del male. L’invasione russa del territorio afgano aveva determinato il boicottaggio alternato delle Olimpiadi di Mosca (1980) e di quelle di Los Angeles (1984). Sullo scacchiere europeo, le due superpotenze posizionavano missili nucleari a raggio intermedio: formalmente armi di deterrenza ma, in realtà, in grado di distruggere tutto il vecchio continente.
L’immaginario cinematografico del periodo coglie meglio dei trattati di politica il momento nel quale viene ad insediarsi Gorbaciov. L’America reaganiana ha già dato sostanza poetica al mito di Rocky Balboa che si batte contro il campione russo Ivan Drago. Il primo “occhi di tigre” e intensi allenamenti, il secondo figlio della tecnologia e soprattutto della farmacologia. Il combattimento avviene proprio a Mosca, alla presenza dell’intero politburo e persino di un simil-Gorbaciov, il quale peraltro risulta già estraneo, nello sguardo e nella prossemica, alla lobby dei generali tecnocrati sovietici.
Vince Rocky, ovviamente, e trionfa la democrazia. Il pubblico moscovita, incredibilmente inizia a tifare per il campione americano, trascinato dalla resistenza di Balboa e dal suo coraggio. Ma è il messaggio finale – le parole di Rocky subito dopo la vittoria – che rappresenta una formidabile chiave per capire quello che sarebbe avvenuto, di lì a poco, nello scenario geopolitico. Stallone dichiara: “quello che sto cercando di dire è che se io posso cambiare e voi potete cambiare… tutto il mondo può cambiare!”. In quest’ottica e con questo spirito l’ex attore hollywoodiano Ronald Reagan, inizia a dialogare, da presidente degli Usa, con il nuovo segretario del Pcus a Reykijavik: Michail Gorbačëv. Non più il vecchio burocrate sovietico ma un uomo “occidentalizzato” che inizia ad utilizzare i media come il suo mestierante “nemico”, senza risparmiarci la visione della coppia di stato felice: quindi a Nancy (la first lady americana) e Ronald si affiancano Michail e Raissa (la prima vera first lady sovietica).
In realtà Gorbačëv è consapevole che l’impero sovietico sta collassando sotto il profilo economico e che l’Armata Rossa non riuscirà più a contenere il dissenso dei Paesi dell’Est: dopo l’indipendenza dell’Ungheria e della Cecoslovacchia è il turno della Polonia e poi delle repubbliche baltiche. Così decide di iniettare dosi di democrazia all’esangue impero sovietico. Ma la glasnost (trasparenza) non può funzionare in uno stato totalitario. La storia insegna (ancora oggi) che l’unico mezzo di sopravvivenza per un paese non democratico è il pugno di ferro e l’autocrazia. Ogni spiraglio di libertà determina crepe nelle fondamenta.
Per Gorbaciov, infatti, non tardano a manifestarsi insidie e trabocchetti, preparati sia da chi vuole il ritorno all’antico sia da chi vuole il trionfo del mercato selvaggio delle risorse naturali di cui l’Urss è ricca. L’ultimo leader sovietico respingerà qualsiasi ricorso alla forza e consentirà la caduta del muro di Berlino senza opposizione e senza inutili resistenze. Non sarà altrettanto determinato nel respingere l’assalto di Boris Eltsin e degli oligarchi russi, impegnati nella demolizione della comunità degli stati indipendenti, che sul modello della Comunità Economica Europea, avrebbe dovuto, su basi paritarie, contribuire all’unità di un impero in fase di disgregazione.
Nel suo celebre discorso di commiato del Natale 1991, riprodotto nel film del 2019 Herzog incontra Gorbaciov, il leader sovietico, in modo crepuscolare, descrive la sua parabola politica con un semplice: ”avrei potuto semplicemente regnare…”
Nella foto in alto, Gorbačëv con Ronald Reagan