Che il mondo zuccheroso delle bambole fosse al centro di piccoli alterchi quotidiani o di futili affari familiari, non si era mai visto. Almeno fino a quando Emma Dante, con una pluriennale esperienza nel campo dell’opera lirica, non decide di confezionare una produzione teatrale adatta ai palati più fini, rendendola innovativa dal punto di vista scenico pur rimanendo magistralmente ancorata all’estetica classicheggiante. Nell’ultimo lavoro firmato dalla regista palermitana, in scena nei giorni scorsi al Teatro Petruzzelli di Bari, non si avvertono discrasie spazio-temporali o superflui cenni ad una modernità che spesso sembra cozzare con la temperie culturale di secoli passati.
La sua celestiale Cenerentola, dai cromatismi argentei e turchini, accompagna lo spettatore in un orizzonte estemporaneo e a tratti onirico, dov’è possibile cogliere l’eco del capolavoro di Charles Perrault del 1697 intitolato Cendrillon e italianizzato in Cenerentola o Cenerella, al quale vanno aggiunti gli interessanti libretti d’opera di Charles Guillame Etienne e Francesco Fiorini, musicati da Nicolò Isouard (1810) e Stefano Pavesi (1814) rispettivamente intitolati Cendrillon e Agatina, o la virtù premiata. Se dunque la celeberrima fiaba dello scrittore francese costituisce l’ipotesto per eccellenza di un racconto nato originariamente da una tradizione popolare che ha conosciuto rimaneggiamenti e molteplici versioni da oriente ad occidente, è con il dramma giocoso di Gioacchino Rossini, su libretto di Jacopo Ferretti, che si assiste alla trasposizione e alla conversione della vicenda da un piano eminentemente narrativo ad uno squisitamente musicale. Che ha il potere di ammaliare per le briose sonorità in crescendo e i passi baldanzosi di giovani ballerini i quali, assieme ai protagonisti, perdono i connotati umani divenendo per la regista giocattoli ad ingranaggi mossi dal continuo saliscendi del carillon della vita.
Dopo l’armonica ouverture che fluidamente si dispiega per una manciata di minuti, all’apertura del sipario il pubblico si proietta nello sfarzoso allestimento scenico importato dal Teatro dell’Opera di Roma. Nel sontuoso palazzo di don Magnifico (Pablo Ruiz/Giuseppe Esposito) Clorinda (Michela Guarrera) e Tisbe (Antonella Colaianni), figlie del tronfio nobilotto, si pavoneggiano dinanzi ad uno specchio rivolgendo sguardi sprezzanti alla sorellastra Angelina, ribattezzata ingiuriosamente Cenerentola (Chiara Amarù/Lamia Beuque) relegata ad una mortificante condizione servile. Condannata ad eseguire i lavori più umilianti all’interno della reggia senza la possibilità di riscattare il suo umile status, la triste fanciulla è invece un fiore, lontana dalle meschinerie di corte. La sua gentilezza non passa inosservata agli occhi di Alidoro (Mirco Palazzi/Davide Giangregorio), precettore del principe don Ramiro (Pavel Kolgatin/Juan de Dios Mateos) in cerca di moglie, che travestitosi da mendicante per spiare il comportamento delle tre ragazze, si presenta nell’enorme sala chiedendo l’elemosina.
È Angelina ad accoglierlo con benevolenza, porgendogli del caffè e rinfrancandolo dalla fame, a dispetto delle due sorelle dalle quali viene insultato e cacciato via. Le stesse infatti si accingono ad imbellettarsi, su consiglio paterno, per l’arrivo di don Ramiro, che di lì a poco sopraggiunge camuffato nei panni del paggio Dandini (Christian Senn/ Andrea Vincenzo Bonsignore). L’astuto principe, sotto le mentite spoglie di paggio, si innamora perdutamente di Cenerentola e non sembra dissuadersi dal nobile intento neppure quando malinconicamente confessa che “dolce speranza, freddo timore dentro al suo cuore stanno a pugnar”. Ferreo nei propositi, coriaceo e nobile d’animo, riesce a vanificare i piani di don Magnifico e delle sue due figlie Clorinda e Tisbe, pronte a suggellare le nozze, in nome di un amore etereo che acquisisce concretezza solo nel finale, attraverso la redenzione e la ‘conversione’ di chi tanto aveva osteggiato la loro unione, perché “della fortuna instabile trionfa la bontà“.
Ma cosa rende accattivante l’opera rossiniana approdata in terra di Bari sotto la direzione del maestro Fabrizio Quattrocchi? Nei labirintici intrighi di palazzo a spiccare è la polimorfia dei personaggi non facilmente cristallizzabili in un ruolo convenzionale. La loro poliedricità ben si accorda con uno spartito musicale sempre cangiante e orecchiabile, che tuttavia non perde mai in eleganza neanche nel punto in cui il dramma differisce nettamente dalla fiaba tradizionale: non viene fatto alcun cenno alla famosissima scarpetta di cristallo né alla fuga obbligata di mezzanotte. E’ menzionato uno “smaniglio“, un preziosissimo bracciale in oro e gemme su una fascia di velluto nero, che Cenerentola dona a don Ramiro prima di eclissarsi. Ma la forza dell’amore scardinerà le manie di onnipotenza di don Magnifico e delle sue due figlie, facendosi garante e stabilizzatrice dell’ordine. Si conclude nel migliore dei modi l’opera del genio di Pesaro, con quel perdono foriero di serenità che addolcisce gli animi e crea legami indissolubili. Una vittoria corale sull’orgoglio e sull’indifferenza, perché la famiglia “è un nodo avviluppato ed un gruppo rintrecciato” e sta a noi preservarne l’integrità.
Le foto della Cenerentola sono di Clarissa Lapolla