La sera del 17 gennaio 2017 a casa di Mino Devanna, dove si svolge una conferenza stampa indetta dal grande collezionista, per lamentare il mancato esercizio del diritto di prelazione da parte del Comune di Bitonto sull’acquisto di alcuni locali a piano terra del Palazzo Sylos-Calò, ospitante la Galleria Nazionale di Puglia, ho visto per la prima volta un’opera di Francesco Speranza che non conoscevo. Saranno state la circostanza, la confusione per la troppa gente presente o ancor più lo stupore nell’ammirare, in un istante, tante opere d’arte collocate sulle pareti di quell’ambiente domestico, fatto sta che non sono riuscito ad osservare con la dovuta attenzione quel dipinto.
Dopo aver concordato un incontro con la prof.ssa Valentina Leccese, nipote di Mino, ritorno a casa Devanna il 15 aprile 2017, con un gruppo di colleghi dell’Associazione Architetti di Bitonto, per visionare meglio il prezioso patrimonio artistico posseduto dal generoso collezionista. Rivedo nuovamente il quadro, ma non riesco ancora ad individuare il luogo raffigurato. Ciò nonostante prendo un appunto con una ripresa fotografica. La tela era sempre lì, esposta nella prima sala, all’entrata della dimora, di fronte alla porta d’ingresso e, seppur contornata da tante altre pitture, spiccava in particolar modo fra queste per le dimensioni e, soprattutto, per la vivacità dei suoi colori. Sembrava un invito ben augurale, iniziatico per cominciare un viaggio nell’arte dentro quella “casa museo“. Partendo da Speranza, l’amato artista bitontino, poi, si veniva rapiti nella visione di innumerevoli opere d’arte provenienti dalle località più disparate: una produzione artistica che affluiva dall’ambiente pugliese, dalle diverse regioni dello Stivale e persino dal territorio d’Oltralpe.
Due anni dopo, il 30 giugno del 2019, in occasione dell’inaugurazione della Sala Speranza presso la Galleria Nazionale di Puglia, doverosamente intitolata a “Girolamo e Rosaria Devanna“, considerata la donazione della cospicua e prestigiosa collezione, ritrovo il dipinto in mostra. Oramai appare chiara quella che è la sua collocazione definitiva. All’evento non si registra una grande partecipazione di pubblico; così ho modo di soffermarmi più a lungo sulla tela e apprezzarne i minimi dettagli. Con tutta calma finalmente riesco a fotografare un particolare significativo: la parte costruita in alto a sinistra, che rappresenta l’unico indizio per identificare l’ambiente ripreso dall’artista. E, tuttavia, ciò non basta a sciogliere il nodo. Continuo ad ignorare il titolo e l’anno di esecuzione.
Col passare del tempo, torno a riesaminare i miei appunti fotografici, ma senza addivenire alla soluzione. Finché recentemente mi contatta una carissima amica disposta a cedermi in dono dei libri che appartenevano al padre. Neanche a dirlo! Felicissimo mi fiondo a casa sua. Tra i tanti volumi alcuni cataloghi di Francesco Speranza, nei quali, in bianco e nero, è illustrato il dipinto: si tratta di Campagna di Bitonto, un’opera del 1948. Rincasato con il prezioso bottino, riprendo a sfogliare uno dei cataloghi e a ben guardare il dettaglio della porzione edificata arriva finalmente l’intuizione: una folgorazione! Ora è tutto chiaro. Riconosco il luogo nella discesa di Via Megra segnata dal muro di recinzione del Liceo Classico, che fu già del complesso conventuale dei Teresiani. Con l’osservazione del sito nella modalità 3D di Google Earth ne ho conferma: il punto è proprio quello in cui via Megra incrocia Via Chiancariello.
Dunque dopo Paesaggio Italico (leggi qui) del 1932, e Panorama del mio paese (leggi qui) del 1939, Speranza ci regala ancora una veduta sulla Lama Balice: questa volta non verso la città, ma ripresa dalla città, cioè dalla parte opposta rispetto alle due opere citate. Una vista privilegiata, che solo un artista con un approccio fotografico poteva cogliere, così come del resto anche il punto di vista dell’inquadratura lo è. Il punto, nello specifico, si trova sul tratto finale della rampa di Via Sant’Andrea, che permette l’accesso alla città antica da Via Solferino. Di lato vi è l’alto edificio sorto su quello che una volta era il lungo bastione piatto sulle mura di cinta (leggi qui), posto in corrispondenza della piazzetta interna Fortinguerra. Un ambito prediletto dal pittore, se si pensa che appena un anno prima dalla realizzazione di quest’opera, di lì a pochi passi, aveva tratto spunto per il suo lavoro La scala a Bitonto, nella vicina Corte Giovanna di Aragona.
Con l’opera Campagna di Bitonto, come suggerisce il titolo stesso, Speranza ci restituisce quella dimensione agreste dell’ambiente naturale della Lama Balice, leggibile mediante l’ordito degli orti e la trama dei campi, che si adagiano sulle pendici della lama, sul versante più dolce del solco erosivo carsico, oltre quella piccola parte costruita raffigurata. Tra i terreni coltivati compare addirittura l’alveo del torrente Tiflis, evidenziato con il color marrone, ed anche il lembo di terra sotto il muraglione che sostiene Via Solferino, disegnato nell’Ottocento dall’architetto Francesco Lerario, oggi invece sempre più frequentemente disseminato da cumuli di rifiuti.
Il paesaggio rurale tratteggiato da Speranza, nello straordinario panorama, non esiste più. Il luogo, nel tempo, è stato completamente trasformato dall’inesorabile azione di espansione dell’uomo: il paesaggio oramai compromesso è fortemente urbanizzato. Insomma una questione annosa che si può parafrasare citando il testo di una canzone di tanti anni fa: “la dove c’era l’erba ora c’è una città“, e vista la gran quantità di rifiuti abbandonati in zona viene pure spontaneo chiedersi: “e quella Lama in mezzo al verde ormai dove sarà?“. L’inquadratura oculatamente scelta dall’artista conteneva già, di per sé, un impianto compositivo abbastanza preciso e ben strutturato, decifrabile attraverso l’ordito particellare dei campi, mediante il quale s’intravede quella che, invece, col tempo, è divenuta la trama del sistema viario urbano dell’area, che si sviluppa parallelamente a Via Chiancariello, partendo dall’incrocio di Via Megra in giù, con Via Piglionica e la Traversa Megra, oppure ortogonalmente con Via Pantaleo.
Il punctum del quadro, ovvero quello che in fotografia è il segno distintivo dell’immagine, ossia ciò che colpisce l’osservatore, è l’orto centrale rettangolare dal tono verde piuttosto vivace e inconfondibile. Il bordo superiore è orlato con un verde differente e segna, in senso orizzontale, la linea mediana del quadro, sottolineata fra l’altro dalla presenza di alcuni pali. Il limite inferiore, invece è marcato da una strada poderale, che collega due pagliai posti all’estremità e contornati da macchie arboree. Sotto la strada poderale è raffigurata, con un segno calligrafico piuttosto singolare, una cocevola punteggiata di ortaggi a ciuffi.
Le qualità che Speranza manifesta con quest’opera sono davvero notevoli e si possono apprezzare su diversi registri. Il dipinto, difatti, non appare interessante, solo da un punto di vista meramente artistico, e come già detto, qui o in altre occasioni, anche per l’approccio fotografico, intrinseco all’artista, ma assume una certa rilevanza pure per le doti che Speranza dimostra nella rappresentazione di orti e cocevole. Il pittore con grande sapienza svolge quasi un esercizio di ricerca sulla grafia da adottare per le diverse tipologie di ortaggi e, come un cartografo, studia il giusto segno per raffigurare simbolicamente le colture. Qui davvero il tratto si fa segno, la linea semplice affidata all’interpretazione dall’artista viene rafforzata dalla gradazione cromatica, mediante l’utilizzo dei vari toni di verde e punteggiature e rigature di bianco.
Speranza con questa prospettiva presa dal vero, da un lato, sembra interessato a restituire una rappresentazione realistica della natura, perseguendo quella concezione di paesaggio basata sulla semplice mímesis. Il paesaggio raffigurato, appunto, è abbastanza fedele alla realtà, e colto in tutta la sua essenzialità assume quel carattere che è proprio del pittoresco. D’altro canto, invece, aspira a sperimentare il superamento del dato realistico, mirando ad una visione lirica ed emozionale, capace di imprimere all’opera la forza di un impatto emotivo, sovvertendone quindi il senso, nel quale si potrebbe più cogliere l’eco del sentimento romantico. La concezione del paesaggio romantico, infatti, punta a rivelare, per mezzo della riproduzione degli elementi naturali, uno stato dell’anima: questo è un postulato che coincide innegabilmente con la pittura di Speranza. Così come nella pittura romantica l’occhio non è più il protagonista ma è il tramite del sentimento, allo stesso modo nel paesaggio di Speranza, che si sostanzia d’una visione interiore e s’ammanta anche di significati simbolici, il protagonista è l’anima.
La cornice campestre del dipinto è rivitalizza da Speranza con l’inserimento di alcune silhouette. Due figure percorrono la strada bianca di sinistra, corrispondente oggi a via Pantaleo. Due pastori, dislocati in fondi e con sfondi diversi, conducono al pascolo un gruppo di pecore: uno, sopra, nel terreno dove si trova il pagliaio centrale, l’altro, sotto, in un campo stranamente incolto tra una cocevola e l’alveo del torrente Tiflis. Infine, nello stesso campo, in un angolo, spiccano altri due individui. Infondere vita ai suoi dipinti era un obiettivo a cui l’artista spesso tendeva. In questo caso, però, non credo fosse tanto dettato dal fatto che egli trovasse pittoresca la vita contadina, quanto dal fatto che il pittore provasse una profonda affinità con gli umili e i poveri, e probabilmente in quella condizione si identificava o riconosceva una parte di sé.
Con questo capolavoro il maestro integra in una contraddizione dialettica la poetica del “pittoresco”, appartenente allo spirito illuminista, e la poetica del “sublime” che fu del romanticismo. Il testo, scritto da Speranza, segue nella grammatica la logica del pensiero pittoresco, ma nella sintassi esprime un ideale di paesaggio di matrice romantica. La campagna è vista come una sorgente di stimoli a cui corrispondono sensazioni che l’artista interpreta e comunica: idea formulata chiaramente dalla poetica del sublime, tutta incentrata sul sentimento, che deriva, innanzitutto, dalla contemplazione e s’impone, poi, sui sensi. Questo aspetto sensoriale Speranza lo elabora e chiarisce con la propria tecnica mentale e manuale, e guida la società ad una esperienza migliore, facendo opera educativa. Ecco perché con questo capolavoro il maestro scrive in modo inequivocabile il suo testamento sulla Lama Balice, prescrivendone gli usi e le modalità dei suoi possibili sviluppi.
Nella foto in alto, “Campagna di Bitonto” 1948 di Francesco Speranza – Galleria nazionale di Puglia Girolamo e Rosaria De Vanna