Siamo avvinti in storie, in dolori e in fatti che sovrastano la possibilità di capire. Questo vale sempre. Nella vita, oltre la vita. In quel che vediamo, ammiriamo, soffriamo. È primavera, tutto si risveglia e però c’è qualcuno che muore. La luce illumina, quella stessa luce tante volte può spegnere. Può accadere un corto circuito, troppa luce può anche accecare. E c’è l’uomo, con la sua bellezza, le sue ferite, a chiedere, persino a se stesso, di capire, di poter capire. Ed anche qui la primavera può avere il suo senso. Quante volte ci chiediamo il senso di un segno esteriore, anche lucente e folgorante (ancora quella luce che nel suo darsi abbaglia), anche bello, anche vivo. Un segno di bellezza, quella bellezza che esplode in primavera. Ed esplode nella sua siderale distanza dal buio, pure suo amico vicino, prossimo.
Luce e buio non sono agli opposti, se non cromatici, se non visivi. Luce e buio sono effetto dello stesso sistema cosmico, hanno il loro “ordine”, sicuramente poco perscrutabile. Hanno persino una certa coesistenza fisica, sono dunque – le parole, ah se le parole fossero solo parole – connaturati luce e buio. Sono lì, insieme. Ora ridi, ora piangi. Di più: piangi e ridi o, persino, piangi ridendo e quante volte accade e in quel suo accadere venendo però eluso e nascosto come segreto dal suo stesso autore, interprete nell’unico momento di tracciabilità per l’altro, quello visivo, all’ultima curva della lacrima possibile e manifestabile.
È la vita, si dice: con essa anche la morte, un attimo prima, un attimo dopo, forse insieme ed anche quello quante volte non sembra ed invece la natura sempre lì a raccontarcelo ogni mattina, ad ogni alba, alba che aveva la notte, il buio, la morte, prima. E l’aveva al crinale che spesso non vedi, senza soluzioni reali di continuità: un prima che nemmeno diresti, tanto è in nozze radicali ed osmotiche con quella stessa incipiente luce. Luce che rimane a dirti la direzione, a dare l’opportunità agli altri di guardare il tuo volto. La morte è sempre la morte degli altri, per logiche ragioni. Se parli della morte, non è la tua. È solo se accade pian piano già durante la vita che può essere anche di tutti, offrendo segnali, condividendo l’aria, la luce ed il buio con i nostri fratelli e guardando però altrove, in quell’altrove pur legittimamente richiamato come diritto dalla nostra stessa vita.
E gli occhi? Non parlano gli occhi? Davvero un grande ‘gioco’, dove non ci sono vincitori e vinti e, meno che mai, innocenti o colpevoli. Ci siamo noi, noi con la responsabilità di non lasciare nessuno da solo. Una verità che dovrebbe valere quando il dolore si vede e quando non si vede. Oggi sappiamo che il dolore alberga in chi resta. Oggi e domani. E l’oggi buio può essere un domani di probabile luce. Sempre in quel crinale impercettibile, sempre tremendo e sempre tremando senza risposte, sempre però abbracciando la vita, quando la vedi e quando ti prende. Perché è la vita che ci prende, anche questo è un fatto naturale, un fatto di cui, in quel caso, non siamo autori e però protagonisti, interpreti. Possessori.
Sarebbe bello se solo di luce ed invece siamo figli anche del buio primordiale, quello che c’era prima di noi, già con noi. Nonostante quel buio veniamo alla luce. Maurizio non ha visto la sua ultima luce (terrena) e se l’è portata con sé. Maurizio mancherà, anche quando un pensiero, forse improvviso, di sicuro civicamente necessario, lo riporterà vicino a noi. Ciao, Maurizio. Della nostra amicizia, delle nostre incomprensioni, dei nostri silenzi, del nostro stupendo esserci ritrovati continueremo a parlare e a parlarci, in qualche modo. Mi accompagnerà col sorriso (amaro, perdona il mio interismo ortodosso) il tuo messaggio audio di sfottò dopo il derby dello scorso 5 febbraio. “Maurizio, lasciami stare”, ti dissi con la faccina infuriata. Non è vero, vienimi a trovare sempre. Ancora un infinito abbraccio, carissimi Marilena (amica grande, donna lucidissima come poche), Francesco e Marco.