Lei frizzante, estroversa e bizzarra; lui schivo, solitario e diffidente. Perché se è vero che gli opposti si attraggono, loro ne sono la prova eloquente. Un incastro perfetto quello tra Enzo Iachetti e Vittoria Belvedere, protagonisti dello spettacolo di Peter Quilter, Bloccati dalla neve, che ha chiuso la stagione del teatro di Corato. In un grande cottage di campagna il misterioso Patrick, da sempre diffidente nei confronti dei suoi simili, si dedica alla lettura appassionata di opere letterarie che custodisce gelosamente nella sua libreria. Prigioniero di una routine priva di brio e di movimento, sorseggia un caffè appollaiato sul divano, beve avidamente una cioccolata calda, sgranocchia un tozzo di pane accompagnato da un formaggio greco e, con aria trasognata, ascolta un’opera lirica alla radio mentre impacciato improvvisa un dialogo con il suo mentore, Seneca, di cui conserva un elegante busto di marmo.
Forse è proprio dal filosofo cordovano, pioniere dello stoicismo, ad aver mutuato la propensione per uno stile di vita ascetico improntato alla solitudine e all’apatia, intesa nella sua accezione etimologica originaria come assenza di turbamento dinanzi alle passioni. Ma in una quotidianità condotta con calma soporifera irrompe la stramba e maldestra Judith, la quale bussa alla sua porta chiedendogli ospitalità in seguito ad una tempesta di neve che le impedisce di tornare a casa. Ai ripetuti dinieghi dell’insolente padrone di casa si alternano le battute mordaci della giovane donna condite da una buona dose di ironia e un elevato senso di humour che esorcizzano le preoccupazioni di Patrick.
La convivenza, causata dall’imprevista tormenta, si rivela particolarmente difficile fin dalle prime battute quando i due cominciano a guardarsi sottecchi, a bisticciare, studiare le reciproche mosse e gli eventuali contrattacchi da sferrare nei momenti di rabbia, ma si ritrovano inevitabilmente vicini a ridere come vecchi amici sulle follie di una giovinezza ormai perduta davanti ad un buon Nero di Troia e una pizza al “sapore di cartone”. È infatti proprio il cibo a battezzare la loro unione, rendendola progressivamente più solida: malgrado la sua riluttanza verso il genere umano, Patrick promette a Judith di essere pronto a soddisfare qualsiasi appetito culinario a patto che lasci la sua dimora, dove in tempi non sospetti regnava sovrana la tranquillità.
Perciò imbusta rapidamente una manciata di uova, un pezzo di formaggio e qualche altra leccornia intimandole di andare via. Ma Judith, refrattaria alle sue rimostranze, finge di salutare il suo ospite per tornare con una dolcissima torta alle ciliegie irrorata dal brandy. Se dunque primizie e vivande contribuiscono a colorare e a catalizzare il sodalizio tra i due protagonisti, il tratto distintivo che domina su una trama di per sé lineare è l’utilizzo della parola, un volano che agevola una riflessione più approfondita sulle relazioni interpersonali, sulla capacità di creare empatia malgrado temperamenti dissimili e soprattutto su quell’inconsueta abilità nel saper coltivare il valore della filantropia, caro ai greci, a scapito di un’infruttuosa e cupa misantropia.
Una benevolenza che affratella, che abbraccia e che abbatte il muro ingannevole della diversità con una fragilità che, se comune, si tramuta in forza propulsiva contro l’opprimente fardello della morte. Perché quando si sta con qualcuno non bisogna stancarsi mai di ripetere quanto si ha timore di perderlo: la paura è il collante che tiene uniti. Allora, cosa rimarrà di Patrick e Judith quando ormai la bufera di neve sarà cessata e il grigiore del cielo schiuderà le porte all’arancio dei raggi del sole? Non rimarranno che due buffi pupazzi di neve che fanno capolino dietro l’ampia vetrata della casa, spettatori sorridenti ed impassibili delle loro beghe, e un appuntamento all’indomani per un thè nell’abitazione di Judith al di là della campagna.