Quel raffinato mix di musica e parole chiamato “Werther”

Regia, orchestra e allestimento restituiscono a pieno il fascino dell'opera di Massenet, ispirata al celebre romanzo di Goethe, in scena al Petruzzelli

Un connubio elegante di musica e parole pervade il Werther di Jules Massenet, dramma lirico in quattro atti su libretto di Édouard Blau, Georges Hartman e Paul Milliet ispirato al romanzo epistolare di Johann Wolfgang Goethe I dolori del giovane Werther del 1774, opera cardine dello sturm und drang che inaugura la feconda stagione del romanticismo tedesco. Quel tumultuoso ripiegamento interiore sublimato da una natura ospitale, in cui l’eroe si spoglia del ruolo convenzionale per scandagliare minuziosamente i meandri della sua anima, si riverbera con leggiadria nell’ultima produzione del Teatro Petruzzelli sotto la regia di Stefano Vizioli e l’impeccabile direzione orchestrale di Giampaolo Bisanti.

Su un allestimento scenico essenziale che sfrutta alla perfezione il rigore prospettico grazie all’utilizzo di colori tenui, si snoda la delicatezza di un sentimento d’amore poliedrico ma imperituro, declinato in devozione fraterna, mezzo di elevazione spirituale e virtuosa onestà tra due rivali. Un raffinato lirismo che affiora già dai primi istanti con il soave canto di Natale intonato dal piccolo coro di voci bianche (“Vox Juvenes” diretto da Emanuela Aymone) e si dipana per tutta l’opera fino allo struggente commiato alla vita di Werther, riverso morente sul letto con il petto trafitto dai colpi di pistola che lui stesso si è inferto, mentre ode disperato la confessione della sua Charlotte.

La graziosa creatura, interpretata magistralmente da Caterina Dellaere, sembra incarnare dalle prime battute il prototipo della donna di un tempo, paziente e materna nei confronti dei suoi fratellini e di sua sorella minore Sophie (Veronica Granatiero) e rispettosa della morale tradizionale che le impone di ossequiare la promessa di matrimonio fatta a suo marito Albert (Pierluigi Dilengite). Modellata sull’ideale latino della pietas, quella forma di devozione silenziosa verso la famiglia, il divino, la patria, Charlotte si dibatte tra volontà di azione e impossibilità di concretezza. Dinanzi al giuramento fatto prima della morte di sua madre, ella si mostra insofferente e vacillante ma non viola mai il legame coniugale pur serbando nel cuore il rimpianto di un’unione mai sbocciata.

Quella con Werther (Valerio  Borgioni), infatti, si mantiene una relazione intensa fatta di sguardi, ritrosie, partenze ed addii ravvivati da un fitto carteggio epistolare pregno di un amore nobile, ma pur sempre platonico. L’unico momento in cui i due si ritrovano furtivamente è suggellato da un inno alla bellezza e alla letteratura in una dimensione preromantica cui Werther allude declamando i versi di Ossian da lui appassionatamente tradotti. Le sue carte scivolano sul pavimento, le luci si fanno gradualmente soffuse, l’impavido protagonista, malgrado il fervore iniziale, è vittima di se stesso e del sentimento che lo tiene avvinto.

Quella tempestosa smania d’amore che nasce dalle viscere e si tramuta in lamento straziante è spento dal volere di un fato avverso ed ineluttabile a cui tenta vanamente di sottrarsi. Werther procede tragicamente verso la sua rovina, laddove l’unica arma per riscattare una dolorosa esistenza dedita all’amore, oltre la richiesta del perdono, è il suicidio. Non gli resta che assommare alla sofferenza dello spirito, una penitenza corporale con la quale purificherà la sua anima dal peccato. Le luci si spengono, cala il sipario su una delle storie più belle della lirica francese. Una pioggia di applausi accompagna la standing ovation per tutto il cast. Onore a chi, come Werther, trova il coraggio di lottare nonostante tutto!

Le foto del “Werther” in scena al Petruzzelli di Bari sono di Clarissa Lapolla