«Chi è Beppe Fenoglio?» domandai abbassando il libro. Mancavano due mesi all’esame di maturità, e la professoressa d’italiano, vedendomi seduto in cortile a leggere Uomini e no di Vittorini, con il libro alzato per proteggermi dal sole (o per provocare il prof di educazione fisica, uno di quelli che il fascismo è morto con Mussolini, e per questo perennemente in lutto), passando aveva esclamato: «Bufano, faresti meglio a leggere Beppe Fenoglio!».
LA PROFESSORESSA CHE MI FECE SCOPRIRE FENOGLIO
La mia preferita tra gli insegnanti rallentò appena il passo per rispondermi: «Uno scrittore piemontese, il migliore tra quelli che hanno scritto della Resistenza. Ne parleremo presto».
Nella nostra antologia d’italiano, la sezione dedicata alla letteratura del secondo dopoguerra era divisa in quattro capitoli: “Il neorealismo”, “La crisi del neorealismo”, “La neoavanguardia”, “Altri scrittori di vario orientamento”. Dopo mesi passati sui grandi scrittori del primo novecento, avevamo appena cominciato ad affrontare il neorealismo, leggendo brani di Giacomo Debenedetti, di Mario Rigoni Stern, e di Carlo Levi. Nelle poche settimane che rimanevano ci aspettava la parte dedicata al “romanzo realistico”: prima Francesco Jovine, poi, tra Vasco Pratolini e Pier Paolo Pasolini, Fenoglio.
Lessi le pagine a lui dedicate cominciando dalla nota introduttiva: «Lo scrittore nel quale tuttavia la poetica del neorealismo si presenta in modo più schietto è forse Beppe Fenoglio, nato ad Alba nel 1922 e morto a Torino nel 1963». Detto da Carlo Salinari, autore dell’antologia insieme a Carlo Ricci, doveva essere un bel complimento! Infatti, più avanti, il primo libro dell’albese veniva definito «una grande rivelazione». Seguivano due brani: La caduta di Alba (l’ultima parte del primo racconto) e L’imboscata (non il romanzo che oggi porta questo titolo, in quel tempo ancora inedito, ma l’ultimo capitolo di Primavera di bellezza). Come sussidio didattico, seguiva un’analisi del testo svolta da Gina Lagorio (proveniente dal suo pioneristico Castoro). Colpi di fulmine ne avevo di frequente in quel periodo, ma con l’albese fu un caso particolare.
UN COLPO DI FULMINE
Cinque lustri più tardi mi avrebbe preso un altro colpo (non di fulmine), quando, scorrendo un vecchio, mal leggibile microfilm con l’edizione romana dell’Unità del 1952, scoprii che a scrivere che Fenoglio, con il suo primo libro, aveva compiuto una cattiva azione, era stato proprio Salinari. E la prima persona a cui lo feci notare fu proprio Gina Lagorio. Eravamo nella sua grande e bella casa milanese, e lei, che già mi aveva permesso di fotocopiare tutte le lettere di Fenoglio in suo possesso, solo a quel punto si decise a farmi leggere una commovente lettera di Salinari a lei indirizzata, dal tono insieme contrito e fiero. Per rispetto, pubblicando le Lettere, ne avrei citata soltanto una parte.
Dunque, dopo aver letto i due brevi testi di Fenoglio, corsi in libreria e comprai l’Oscar Mondadori con i Ventitré giorni della città di Alba e La malora. Sulla copertina, sotto il titolo e la silhouette di un gruppo di uomini armati, c’era scritto: “Avventure partigiane sullo sfondo delle Langhe. Guerra, amore, morte in un paesaggio antico che vive la pena degli uomini”. Perfetto! Lessi l’intero racconto sulla presa e perdita di Alba, e l’inizio mi ricordò subito qualcosa.
Pochi mesi prima, per il mio diciottesimo compleanno, mi avevano regalato una selezione ragionata della Biblioteca Giovani Einaudi. L’aureo cofanetto conteneva l’Ivanhoe di Walter Scott, La conquista del Messico di William Prescott, i Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, La Certosa di Parma di Stendhal, e i Racconti della guerra franco-prussiana di Guy de Maupassant: forse perché era il più breve, o forse perché parlava di guerra, fu questo il volume che lessi per primo. E il primo racconto, Boule de suif, cominciava con la descrizione di una singolare sfilata di militari, tanto singolare quanto quella dei partigiani per le vie di Alba descritta da Fenoglio: lo stesso punto di vista, la stessa ironia, la stessa tonalità della frase. Mi sembrò di essere entrato miracolosamente nel laboratorio dello scrittore.
Passai alla Malora, trovandoci uno scarto di stile, e subito dopo a Primavera di bellezza, cominciando dalla misteriosa dedica in inglese: una ragazza angelica, una foto lacerata (perché?), un praticello vicino a Santo Stefano, capelli neri, e un favoloso pettine dal manico di madreperla. La copiai in un quaderno e la feci vedere alla prof d’inglese, senza dirle di chi era. Lei mi gelò dicendo che era scritta male.
FENOGLIO IN CONFRONTO CON MAUPASSANT ALLA MATURITA’
Portai Fenoglio all’esame di maturità: un confronto tra Fenoglio e Maupassant. Ma l’amata prof d’italiano, che mi aveva incoraggiato, non era in commissione. Al suo posto c’era, come membro esterno, una suora. Una suora, però, che sapeva il fatto suo. Conosceva il racconto di Maupassant e quello di Fenoglio, e di Fenoglio conosceva bene La malora. Il tema del patriottismo delle prostitute non la interessò particolarmente, preferì parlare del secondo libro. Mi chiese come si chiamava il protagonista, come si concludeva il racconto, e mi lasciò andare, insoddisfatto, sorridendo soddisfatta.
Contavo di rifarmi con Fenoglio all’università. Dopo aver letto tutto quello che di lui si poteva leggere, impallinato da Una questione privata, il colpo di fulmine era diventata una passione, e come tutte le passioni difficile da gestire. Non sapevo da quale lato prenderlo, né riuscivo a concentrarmi su di un singolo aspetto. Alla fine del secondo anno tornai alla sfilata dei partigiani e decisi di chiedere un consiglio per la tesi.
Il mio professore, un ex partigiano garibaldino che aveva condiviso il primo giudizio di Salinari, ma che a differenza di questi non si era emendato, prese in mano l’Oscar Mondadori, lo girò, lesse la quarta di copertina che riportava un brano critico di Giansiro Ferrata, sorrise sornione, e disse: «Ferrata Corrige». Poi, restituendomi il volumetto, sbuffò: «Baaasta!». Era uscita da poco l’edizione critica delle Opere diretta da Maria Corti ed eravamo nel pieno della polemica sulla cronologia del Partigiano Johnny, polemica per cui, al convegno di Lecce del 1983, venne sfiorata una rissa simile a quella che ebbe luogo a Firenze quando tre artisti milanesi, guidati da Filippo Marinetti, irruppero al Caffè delle Giubbe Rosse un caldo pomeriggio di giugno del 1911. Solo la presenza di un’autorevole signora, nel Salento, consentì di scongiurare il peggio.
LA TESI SU FENOGLIO ALL’UNIVERSITY OF CONNECTICUT
Misi da parte la mia idea, ma solo temporaneamente, e qualche anno dopo, alla University of Connecticut, potei realizzare il sogno di scrivere una tesi su Fenoglio e la short story. Allora, per la prima, volta andai ad Alba.
Per più di vent’anni avevo percepito il capoluogo delle Langhe solamente attraverso lo sguardo e le parole di Fenoglio, l’unica immagine reale che ricordavo era una foto in bianco e nero della sua casa di Piazza Rossetti. A parte le torri e i tetti rossi non sapevo che cosa aspettarmi. Non volevo andarci da turista sprovveduto, e contattai previamente alcuni cittadini.
LA VEDOVA FENOGLIO
Il primo albese che conobbi fu la signora Luciana, vedova Fenoglio. Al telefono, inizialmente, mi disse che avrei potuto consultare il microfilm dei manoscritti alla biblioteca civica, che era tutto lì. Ma io la pregai per quello amor che i mena, e lei, forse perché venivo da lontano, finì con l’accettare di ricevermi, dandomi appuntamento alle dieci di mattina. Mentre camminavo verso la sua casa da piazza Mercato del Bestiame, dove avevo lasciato la macchina, ero emozionatissimo: mi sembrava di camminare per le vie di Macondo.
La signora fu subito gentile. Dopo rapidi convenevoli, mi fece strada in un piccolo soggiorno dove ebbi un’improvvisa epifania, come la madeleine immersa nel tè, causata, nel mio caso, non da un profumo o da un sapore, ma dalla vista di un mobile: il buffet. Per forma, colore, e tipo di legno, era identico a quello che c’era nella casa di mia nonna, dove ho vissuto la mia infanzia: nella parte bassa si tenevano i piatti; il ripiano centrale era occupato dalla grande radio a valvole termoioniche (la stessa dalla quale, durante la guerra, mia mamma e i suoi fratelli avevano ascoltato Radio Londra) e da qualche libro; la parte alta, con i vetri scorrevoli, da bottiglie, tazze e bicchieri. Il buffet della signora Luciana, invece, era interamente occupato da cartelle contenenti i manoscritti di suo marito e da libri.
La signora mi chiese quale cartella volessi consultare. Senz’altro – risposi – quelle dei racconti. Lei tirò fuori con pazienza due cartelle, mi chiese se volevo un caffè, e mi lasciò solo a studiare i manoscritti. Leggendo e prendendo appunti (i primi telefoni portatili erano ancora soltanto telefoni) ci rimasi fino a mezzogiorno e mezzo, quando arrivò la figlia Margherita, la seconda albese che conobbi. Era l’inizio autunno del 1995, nei successivi sette anni ci tornai almeno altrettante volte, e ogni volta la signora Luciana mi preparò il caffè.
IL MAESTRO UGO CERRATO
Non in Alba, ma a San Benedetto Belbo, poco dopo conobbi il maestro Ugo Cerrato. Mi aveva dato appuntamento alle 3 del pomeriggio in piazza («Quale piazza?» gli avevo chiesto al telefono, e lui aveva risposto con una risata). Calcolai male i tempi del viaggio da Firenze, in Panda: arrivai alle 5, e lo trovai ancora lì, in piedi, ad aspettarmi. Rimanemmo insieme fino alla mezzanotte, poi tutto il giorno seguente, in giro per le Alte Langhe. Le poche frasi appuntate nel taccuino che avevo con me mentre cenavamo nell’ultimo locale ancora aperto di San Benedetto testimoniano che, quando ci sedemmo a tavola, già non ero sobrio: muore nella battaglia di Valdivilla… non c’era nessuno che parlasse l’inglese… Johnny e Jerry sono la stessa persona… 6 quaderni, la mamma ne regala due a uno svizzero… Paola era alla cascina di Nieve… erba ciularina… Dormii in una minuscola camera senza bagno sopra la sala dove avevamo mangiato, la finestra era giusto di fronte al campanile, che per tutta la notte continuò a suonare l’ora. Appena fece giorno mi alzai, scesi a Belbo, risalii l’altro versante, e raggiunsi Cadilù. Mancavano sia la pioggia sia la sposa, ma la vista di San Benedetto, colpito dai primi raggi del sole, era magnifica. Grazie a Ugo e a sua moglie Luciana, di lì a poco avrei conosciuto Gina Lagorio, Marisa e Walter Fenoglio, altri amici di Beppe. A tutti loro ho voluto molto bene.
LA CARTELLA DELLE TRADUZIONI
Tornato dalla signora Luciana (avevo ormai acquistato confidenza con la catalogazione), una volta consultai la cartella con su scritto Traduzioni. Tre fogli dattiloscritti, in particolare, attirarono la mia attenzione, e ne trascrissi nel quaderno il paragrafo iniziale: «Ci fu lavoro straordinario per tutti i cantieri e arsenali del Mediterraneo. Dappertutto, per mesi e mesi, si curvava legno, si cucivano vele e si martellavano chiodi. E contemporaneamente si pregava per il buon esito dell’impresa. Pregava il Papa a Roma, pregava Filippo nell’Escorial, pregavano frati e suore, pregavano le prostitute di Barcellona e di Venezia, pregavano i miei antenati e i vostri».
Forse fu il riferimento alle prostitute di Barcellona e di Venezia a farmi scrivere sul bordo: Fenogliano! Era il racconto che avrei intitolato La veridica storia della Grande Armada, pubblicato da Einaudi nel 2003 insieme ad altri tre racconti fantastici (anch’essi provenienti dalla cartella Traduzioni), e poi di nuovo, nel 2007, in Tutti i racconti: l’edizione con la quale realizzai il progetto illustrato in conclusione della tesi.
Feci appena in tempo a portarne una copia alla mia professoressa d’italiano.
In alto, l’immagine di copertina delle Lettere di Fenoglio, realizzata da Andrea Serio