Il cireneo che è in ognuno di noi

Tra desiderio di espiazione e mano tesa al prossimo, il noto personaggio del vangelo sfila il Sabato Santo nella processione della Pietà a Ruvo di Puglia

Incede lento e solitario con il capo chino, aggiogato al peso di un’enorme croce di legno che solca le sue spalle e leviga l’asfalto. Nessun cenno di sofferenza o di arrendevolezza; a parlare sono i suoi occhi spenti e malinconici che si intravedono fuggitivi dalla pavera (o cappuccio) nera che ne oscura interamente i connotati. Non ha un nome né un volto, il suo abito corvino fissato in vita da un semplice cingolo rimanda a una vita di stenti che anela al riscatto grazie alla penitenza o ad una riflessione pervasiva sul dolore. Quel dolore che affonda la carne come una lama tagliente e penetra nel cuore, assestandosi lì, greve ed immutabile per molto tempo, ottundendo i sensi prima di trasformarsi in una sofferenza universale che avvicina empaticamente gli uomini, li accomuna e li rende solidali contro la morte.

 

Perché ci si sente un po’ cirenei quando qualcuno invoca conforto. E non importa di che entità sia il male che sta combattendo, se sia bisognoso di una carezza, di un abbraccio o di un valido sostegno morale. Ciò che conta è lenire i suoi affanni, alleggerire il suo fardello facendocene carico e insieme percorrere, passo dopo passo, la strada della rinascita, lì dove è possibile. I greci la chiamavano συμπάϑεια (sympathia), quella capacità di immedesimarsi nella condizione dolorosa di qualcuno e talvolta di soffrirne insieme. In senso cristiano, però, questo termine così vitale e poliedrico non ha un diretto corrispettivo ma potrebbe forse ritrovarsi nella parola “fratellanza”, quello straordinario spirito di coesione che ci unisce nella buona e nella cattiva sorte, senza indugi o prevedibili dinieghi.

La summa dei valori cristiani inclini alla generosità e al supporto verso il prossimo è racchiusa nella figura del cireneo, l’uomo che secondo i vangeli aiutò Cristo a trasportare la croce sul monte Golgota, dove poi venne crocifisso. A Ruvo l’azione del cireneo è rievocata il giorno del Sabato Santo durante la processione della Pietà. Ad aprire il mesto corteo è dunque un uomo con il corpo e il viso totalmente nascosti, la cui identità è nota solo al priore, che, con uno scapolare al collo raffigurante un teschio, trascina una croce di 60 chili, costruita artigianalmente disponendo perpendicolarmente due possenti travi fissate da enormi chiodi al cui punto di intersezione viene legato un grosso cingolo.

Le mani nerborute del cireneo, che affrontano il peso della croce riparate da guanti neri, non sono sempre le stesse. Ogni anno, infatti, il priore Pino Villani – che ci rivela tutti i segreti di questa figura dai contorni tetri ed enigmatici – riceve con cura ogni aspirante candidato, il quale racconta con commozione gli aneddoti più dolorosi della sua esistenza e le motivazioni che lo hanno spinto a maturare questa decisione. La scelta effettuata dal priore è decretata in base alla gravità del loro vissuto oltre che al rispetto al requisito non secondario di fisicità: il Cireneo deve essere alto almeno 1.70 e godere di buona salute.

Tante sono le esperienze che Villani conserva nella sua mente. Tra queste ricorda emozionato gli occhi gonfi di lacrime di un giovane affacciatosi nella sagrestia della Chiesa del Purgatorio (da cui esce il simulacro della Pietà) per riferirgli della morte improvvisa della sua promessa sposa, il suo angelo. E Pino, in quella circostanza, non esitò a garantirgli che per quell’anno il cireneo sarebbe stato lui, rinfrancandolo temporaneamente da un senso di colpa e di impotenza lungo una vita.

Esiguità di parole e tanta voglia di concretezza, senza sfociare nello sfarzo e nel folklore. Sono queste le linee guida enunciate dal priore ruvese, tassello fondamentale per la Confraternita del Purgatorio dal 1998. Il suo è un impegno costante che porta in alto il nome della comunità ecclesiastica anche nel campo della beneficenza grazie a contributi economici a sostegno delle famiglie in difficoltà e dei bambini ricoverati al reparto oncologico del policlinico Gemelli di Roma, rinnovando il messaggio di misericordia e di speranza che da sempre ha contraddistinto la chiesa, raduno dei fedeli per suffragare con la preghiera le anime dei morti nel lontano 1600, quando la città di Ruvo fu colpita da una terribile pestilenza. Con il capolavoro di Giuseppe Manzo del 1898, noto con il nome di Pietà, il paese saluta i riti della settimana santa per accogliere gioiosamente il trionfo della Pasqua. Appuntamento, quindi, a domani con la vivace processione di Cristo Risorto e lo scoppio della Quarantana. Auguri, Ruvo!

Le foto sono di Raffele Paparella