Rinnovabili in Puglia? Nè nel mio giardino nè nel mio mandato

Mentre si parla di indipendenza dal gas, sono quattrocento i progetti di impianti per la produzione di energia green che, come denuncia Legambiente, risultano bloccati

“Scacco matto alle fonti rinnovabili”. È il titolo del dossier pubblicato da Legambiente a gennaio 2022, diverse settimane prima dell’invasione russa in Ucraina e prima che l’Italia (come molti paesi europei) si trovasse di fronte alla necessità di emanciparsi dal gas proveniente dalla Russia in tempi relativamente brevi. Nel dossier, l’associazione ambientalista elenca in maniera molto dettagliata i motivi per i quali, nel paese del sole e del vento, le rinnovabili faticano a decollare: per una burocrazia ingarbugliata e farraginosa ma anche per i blocchi imposti da amministrazioni locali e regionali, da comitati nimby (non nel mio giardino) e nimto (non nel mio mandato). Una lettura che, alla luce dei recenti avvenimenti, risulta essenziale per capire dove intervenire se davvero si vuole spingere sull’installazione di fonti rinnovabili: ad oggi l’unica soluzione davvero credibile per ridurre la quota di gas nel mix energetico italiano.

Il parco fotovoltaico realizzato a Troia (Foggia) dalla danese European Energy. I più grande del Paese

In Puglia sono ben 396 i progetti di impianti di energia da fonti rinnovabili (FER) in esame, tra piccoli e grandi, in zone marginali e non. Alcuni anche in zone destinate alla produzione agricola. Tra questi, quelli in aree Sin (Sito d’Interesse Nazionale), che risultano attualmente bloccati per la mancanza delle analisi di rischio sui terreni agricoli interessati. Ciò che succede ad esempio a Brindisi, dove Legambiente propone, sulle due fasce accanto all’asse attrezzato di trasporto del carbone da dismettere (nei pressi della centrale Enel), la localizzazione di un impianto fotovoltaico di 300 MW con accumulo e parziale produzione di idrogeno.

I progetti da FER in Puglia vengono valutati utilizzando, oltre a quanto previsto dal D.Lgs. 152/06 e s.m.i. anche alcune norme e regolamenti regionali come il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, che definisce chiaramente le aree non idonee. Il piano, benché negli anni aggiornato, risente però del tempo trascorso, basandosi su una concezione della distribuzione dell’energia datata e non in linea con le tecnologie oggi disponibili. Il regolamento regionale n.24 del 30.12.2010, ad esempio, nell’individuare le aree non idonee all’installazione di impianti da fonti rinnovabili, lascia spazio a casistiche di sovrapposizione di più fattori di tutela e di idoneità, come avviene nel caso delle aree interessate da produzioni vinicole Doc e Docg.

Se da un lato, quindi, si definiscono i criteri metodologici per l’analisi degli impatti cumulativi dati dalle nuove installazioni da fonti rinnovabili, dall’altro, non riuscendo ad avere un aggiornamento costante degli impianti autorizzati o in fase di valutazione, di fatto si impedisce tale valutazione, creando lunghi contenziosi fra gli enti competenti al rilascio delle autorizzazioni (Regione, Province, Città Metropolitane, Comuni).

Parco eolico di Gravina di Puglia (Foto Getty Museum)

“In Puglia esistono normative datate che non tengono conto dell’evoluzione dello sviluppo tecnologico attuale e negando di conseguenza qualsiasi novità legata ai vantaggi dei sistemi rinnovabili”, dichiara Ruggero Ronzulli, presidente di Legambiente Puglia. “Si dice sempre che la Puglia sia autosufficiente dal punto di vista energetico ma non è propriamente così. Una sua autosufficienza la Puglia ce l’ha – prosegue – ma la metà della potenza è data da fonti fossili derivanti dalla centrale di Cerano di Brindisi e da quella mista di Candela. Interloquendo continuamente con l’assessore regionale allo Sviluppo economico Delli Noci, abbiamo sempre ribadito la necessita di riaprire la discussione sul Piano Energetico Regionale per evitare di lasciare tutto nelle mani dei Comuni e ritrovarsi con le distese di fotovoltaico nel Salento o, nella zona di Foggia, gli effetti serra dell’eolico”.

Una situazione stagnante al punto che persino la notizia arrivata dal consiglio dei ministri dello scorso 10 marzo, che ha sbloccato la realizzazione di sei nuovi parchi eolici in Puglia, Basilicata e Sardegna, è stata giudicata da Angelo Bonelli di Europa Verde come “un segnale infinitesimale rispetto a quello del quale avrebbe bisogno l’Italia”. Quattro di questi sei impianti sono previsti sui Monti Dauni: uno da 43 megawatt nel comune di Castelluccio dei Sauri, uno da 58,5 megawatt nei comuni di Cerignola e Orta Nova, un altro impianto nel comune di Sant’Agata di Puglia da 39,6 megawatt e infine nel comune di Troia quello da 121,9 megawatt.

I progetti in Puglia discussi in consiglio dei ministri erano inizialmente dieci, ma Dario Franceschini avrebbe patteggiato per 4 (quelli, tra l’altro, di dimensioni minori). Ad agitare gli animi è stato soprattutto il parco eolico offshore (cioè non sulla terra ferma, ma in mare) che si vorrebbe realizzare nel basso Adriatico, a 12 chilometri dalla costa pugliese, e che comprenderebbe 90 aereogeneratori per un totale di 1.350 MW.

I rotori per la produzione di energia elettrica nel mare di Taranto

Secondo fonti consultate dal giornale online Open, e finora non smentite, tutti i ministri si sarebbero opposti allo sblocco dell’iter. Come pure il governatore Michele Emiliano che si è ripromesso, pur non avendo competenza diretta in materia, di incontrare l’azienda che propone il parco eolico tra Santa Cesarea Terme e Santa Maria di Leuca, per verificare se sia possibile “mitigare l’impatto ambientale” o, addirittura, evitare di realizzare il parco in quello specchio di acqua.

Al di là del caso specifico, è chiaro da tempo che esiste una campagna anti-rinnovabili che vede esponenti dell’industria fossile marciare accanto a sedicenti ambientalisti. L’effetto combinato di questi due fenomeni si traduce in quello che è stato definito il nuovo negazionismo climatico: l’inazione a vantaggio delle fonti fossili. I 125 GW di richieste di connessione di rinnovabili alla rete nazionale dimostrano che un enorme potenziale di investimento e di impresa verde esiste anche in Italia, ma è bloccato da lobby, burocrazia e opposizioni basate per lo più su argomenti capziosi.

Una marea di procedure ferme da anni che determina un collo di bottiglia negli uffici amministrativi, che colpisce soprattutto eolico e poi idroelettrico e fotovoltaico. L’abbandono dei progetti da parte dei proponenti è sintomo della grave patologia che affligge il sistema a livello nazionale. Ritardi imputabili alle amministrazioni ma anche dinieghi e contenziosi, fanno sì che il 46% dei progetti presentati, pari al 22% della capacità elettrica, siano stati ritirati negli ultimi tre anni.

Una serie di ostacoli che stanno mettendo a rischio il raggiungimento degli obiettivi climatici europei che prevedono una riduzione del 55% delle emissioni, al 2030, rispetto ai livelli del 1990 e una copertura da rinnovabili del 72% per la parte elettrica. Un obiettivo preciso per mantenere la temperatura al di sotto del grado e mezzo e che l’Italia con i suoi 0,8 GW di potenza media annua installata negli ultimi sette anni rischia di veder raggiunti non prima del 2100. Eppure, sottolinea Legambiente, se anche solo il 50% delle rinnovabili oggi sulla carta arrivasse al termine dell’iter autorizzativo, la nostra penisola sarebbe già a buon punto sulla strada per raggiungere gli obiettivi climatici europei.

Nella foto in alto, il parco eolico offshore in via di realizzazione a Taranto