La democrazia americana è ancora in pericolo dopo Capitol Hill?

Il saggio inchiesta dei giornalisti Bob Wooword e Robert Costa "Pericolo" svela i retroscena del colpo di stato ordito da Trump per non cedere il Campidoglio

L’assalto di Capitol Hill, avvenuto a Washington lo scorso 6 gennaio, è senza dubbio tra le notizie più cliccate del 2021, non fosse altro che per l’enorme impatto mediatico che ha avuto in tutto il mondo. Incoraggiata da Trump, una folla violenta prese d’assalto il Campidoglio impedendo per breve tempo la certificazione della vittoria alle presidenziali di Joe Biden. Superato il “trauma”, rimane lo sbigottimento per la gravità dell’episodio. Che non può essere archiviato senza una riflessione su quello che ha significato, significa e significherà in futuro per la democrazia americana.

Indipendentemente dall’esito della vicenda, l’assalto ha certamente inferto una batosta all’immagine degli Stati Uniti come “patria della democrazia” a livello mondiale e “faro della civiltà”, affermatasi in Occidente tra Ottocento e Novecento. La reazione politica del Congresso americano non si è fatta attendere; per la seconda volta l’ormai ex presidente Trump fu sottoposto a impeachment: il 13 gennaio votarono a favore in 232, mentre in 197 si espressero per il no e 4 furono gli astenuti furono.

Dei 232 sì, 10 provenienti dal Partito repubblicano furono pilotati da Liz Cheney, figlia di Dick Cheney vice presidente conservatore sotto George Bush. Il capo di accusa fu “incitamento all’insurrezione”, poiché Trump aveva istigato l’assalto al tempio della democrazia americana. Scopo dell’impeachment non era solo condannare bensì interdire definitivamente il presidente uscente dall’esercizio delle cariche pubbliche e impedirgli di presentarsi nuovamente come candidato dei repubblicani alle presidenziali del 2024. The Donald, tuttavia, riuscì a farla franca perché i democratici non riuscirono a trovare gli ultimi 17 voti dei repubblicani necessari per far passare l’impeachment al Senato.

A fronte di questo quadro, dovremmo porci alcune domande che risuonavano a più riprese anche nella stampa internazionale: la superpotenza Usa era instabile e giunta al collasso? Era davvero possibile che nei suoi ultimi giorni al potere Trump riuscisse a minare la democrazia americana e l’ordine mondiale costruiti con fatica dal secondo dopoguerra in poi? Sarebbero intervenute davvero le forze armate? Che stava succedendo?

Prendiamo le mosse da questi interrogativi per parlare di “Pericolo” (2021, pp. 508), reportage dei giornalisti Bob Woodward e Robert Costa, entrambi firme di punta al Washington Post. Il saggio, pubblicato in Italia da Solferino-Corriere della Sera, trasforma un fatto di cronaca in una pagina di storia studiata e analizzata in centinaia di ore di interviste con oltre duecento protagonisti e testimoni dei fatti raccontati. Già all’indomani del voto del 3 novembre 2020, prima che Biden si insediasse alla Casa Bianca il 20 gennaio 2021, furono diversi i tentativi di delegittimare il democratico uscito vincitore (secondo la teoria complottista “Stop the Steal” c’era stata una frode per impedire la rielezione di Trump).

La ricostruzione, «dettagliata, impietosa e a tratti inquietante»[1] di Woodraw e Costa non minimizza assolutamente la rivolta del 6 gennaio come un semplice incidente di percorso, un esempio dell’occasionale “confusione” democratica ma che lo raffigura come un attacco pianificato, coordinato e sincronizzato, sferrato al cuore della democrazia statunitense, con lo scopo precipuo di abbattere il governo e impedire la certificazione costituzionale di un’elezione legittima vinta da Joe Biden.

I supporters dell’ex presidente Donald Trump si radunano intorno a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021 (Ph. National Geographic)

Un «tentativo di golpe a tutti gli effetti», nonché un atto di «alto tradimento» secondo il generale Mark Milley, capo di stato maggiore delle forze armate del Paese. Trump ha compiuto «un’azione gravissima, illegale, immorale e contraria all’etica. Ha messo in atto un colpo di Stato contro di noi e nessuno ha alzato un dito alla Casa Bianca o altrove», rivela Nancy Pelosi, deputata democratica alla California e, in qualità di speaker alla Camera, seconda in linea di successione per la presidenza dopo il vicepresidente Mike Pence.

In realtà, «mezzo mondo era in fibrillazione», avrebbe detto in seguito Milley. Già mesi prima la Cina era entrata in grande allerta riguardo le intenzioni degli Stati Uniti; i cinesi erano convinti che Trump si sarebbe giocato il tutto per tutto, creando ad arte una crisi per potersi presentare nelle vesti di salvatore della patria e aggiudicarsi un secondo mandato. I dati raccolti dall’intelligence statunitense hanno dimostrato che i disordini del 6 gennaio non avevano allarmato solo la Cina, ma spinto anche Russia, Iran e altre nazioni a monitorare con la massima attenzione gli sviluppi militari e politici americani.

C’era il rischio aggiuntivo che Trump fosse in cerca di quello che Milley chiamava «il suo momento Reichstag», dove il riferimento esplicito era all’incendio della sede del Parlamento e al terrorismo di strada con cui Adolf Hitler, nel 1933, aveva consolidato il potere assoluto per sé e il partito nazista. Da cultore della storia, il principale rappresentante delle forze armate del Paese in quei giorni trovava allarmanti parallelismi tra la vicenda di Trump e quella di Richard Nixon.

L’ex presidente Usa Donald Trump, all’indomani dell’assalto a Capitol Hill (Ph. Italia Libera).

Divenuto sempre più irrazionale e isolato e in preda alla disperazione, nell’agosto 1974 quest’ultimo era stato costretto a dimettersi dalla presidenza in seguito allo scandalo Watergate. L’allora segretario della Difesa James Schlesinger aveva diramato un ordine a tutti i capi militari di non seguire alcuna direttiva emanata dalla Casa Binaca o dal presidente Nixon, in quel momento sotto impeachment, senza prima essersi consultati con lui stesso: per contenere Trump e sorvegliare nel modo più rigoroso possibile tutte le linee di comunicazione militari e della catena di comando, sarebbe servito, secondo Milley, «un colpo alla Schlesinger».

Trump, dunque, come Nixon? Le due situazioni non sono neanche paragonabili, perché mentre il secondo fu costretto a lasciare la carica, i repubblicani del 2020 furono tutti conniventi con la «grande menzogna» trumpiana e, anziché «ripudiarla»[1] l’hanno abbracciata trasformandola nella loro politica ufficiale. Anzi, secondo il parere della speaker della Camera e non solo, si sarebbero dovuti attuare contro quell’«uomo completamente pazzo» i provvedimenti del Venticinquesimo Emendamento affinché qualcuno nella leadership repubblicana potesse prendere il suo posto alla presidenza.

Tutte le interviste sono state condotte dai due giornalisti del Washington Post seguendo la regola giornalistica del deep backgroud, vale a dire usando tutte le informazioni ma non rivelando la fonte da cui provengono. Nemmeno i presidenti Trump e Biden si sono lasciati intervistare.

Joe Biden, 46° presidente degli Stati Uniti, accusa Trump di avere messo su una rete di bugie, a un anno dai fatti di Capitol Hill. (Ph. Meteoweek.com)

E se il 6 gennaio fosse stata una prova generale? «Potremmo aver assistito al primo atto di quella che in futuro potrebbe diventare una tragedia», ha detto Milley al suo staff. L’ex presidente non è andato affatto in letargo. Per tutta l’estate del 2021 ha continuato a tenere comizi in stile campagna elettorale nelle aree rurali degli Stati Uniti: «Non abbiamo perso. Abbiamo vinto le elezioni due volte. Ed è possibile che dovremo vincere una terza volta. Altri quattro anni. Non ci piegheremo!», annunciò The Donald in un suo comizio del 26 giugno a Wellington, in Ohio, davanti a diecimila sostenitori con cappellini e cartelli con lo slogan SAVE AMERICA! Un’occasione per mostrarsi forte o desiderio di potere assoluto?

L’esistenza di Trump continua a permeare la Casa Bianca e persino gli appartamenti presidenziali. Biden ha continuato a tenere d’occhio Trump pur non pronunciando mai il suo nome. I presidenti vivono nell’ombra incompiuta dei loro predecessori. Un altro fra questi fu Gerald Ford nel 1974. Definì il Watergate un «incubo nazionale». Il Watergate scomparve, ma Nixon no. Il suo rimedio fu concedere la grazia a Nixon alienandosi le simpatie dell’opinione pubblica e suscitando lo sdegno dei suoi elettori che non lo riconfermarono alle presidenziali del 1976. Biden ha detto che non avrebbe mai graziato Trump, ma si è trovato di fronte allo stesso dilemma di Ford: come far andare avanti il Paese? Come conquistarsi la propria presidenza?

Gli Stati Uniti non hanno mai vissuto una crisi istituzionale come quella attuale. La fiducia nel Congresso è ai minimi storici. L’estrema destra si è infiltrata nelle forze dell’ordine, mentre gli Usa sono classificati dall’International Institute for Democracy and Electoral Instance sempre più come una «democrazia in recessione»[2]. Questo stato di profonda incertezza (anocracy), inoltre, a parere degli esperti aumenta esponenzialmente il rischio di nuovi episodi di sangue come il tentato colpo di Stato del 6 gennaio.  «Siamo sull’orlo di una nuova guerra civile? Trump riuscirà di nuovo a imporsi? Ci sono limiti a ciò che lui e i suoi sostenitori potrebbero fare per riportarlo al potere?», si domandano Woodward e Costa. «Il pericolo rimane», concludono.

Nella foto in alto, i supporter dell’ex presidente The Donald si radunano davanti al Campidoglio il 6 gennaio 2021.


[1] Ivi. Alexander Stille, Democrazie in recessione sul Tpi, n. 29 dicembre 2021-6 gennaio 2022.

[2] Si veda l’articolo di Costanza Rizzacasa D’Orsogna, L’America oggi alle prove generali della guerra civile, in Letture del ‘Corriere della Sera’.


[1] Cfr. Battista Gardoncini, “Il Pericolo” di Woodrow e Costa: le ultime ore di Trump alla Casa Bianca l’assalto a Capitol Hill, da Italia Libera 15 gennaio 2022.