Il pupo di zucchero è un’allegoria della vita

Nello spettacolo al Kismet di Bari, la regista Emma Dante trasforma il ricordo dei defunti in un'imperdibile momento per riscoprire la gioia e la bellezza di ogni giorno

All’indomani dello spettacolo di Emma Dante, le emozioni sono ancora in circolo. Tornare a teatro è un continuo sperimentare sensazioni che difficilmente possono essere descritte. Condividere con lo spettatore vicino a te e, allo stesso tempo, con una platea intera un’emozione così importante è un’esperienza che va replicata il più possibile. Dovremmo tutti andare a teatro. Andarci quando si è tristi, spaventati, disorientati dai tanti avvenimenti della vita, e quando si è felici, splendidamente felici. Perché ogni emozione possa trovare il giusto coronamento e la giusta prospettiva.

Emma Dante è una grande regista e il suo Pupo di zucchero – in scena nei giorni scorsi al Teatro Kismet di Bari –  è per tutte le stagioni, pur avendo a soggetto il giorno del 2 novembre, commemorazione dei defunti. Interpretato in dialetto napoletano, lo spettacolo è un vortice di energia, un lungo sorso di vitalità e felicità. Un entusiastico rincorrersi di corpi che danzano, che corrono, che lanciano coriandoli e farina; un tributo alla vita che, nonostante i suoi dolori, è da gustare a pieno, perché non si sa quanto possa durare. Non si sa cosa possa riservare con i suoi inaspettati cambi di rotta.

Il protagonista (un Carmine Maringola in formissima) è un anziano signore, con panciotto e farfallino, che impasta il suo pupo di zucchero, il dolce dalla forma antropomorfa che per tradizione si mangia il giorno dei defunti. Non è mai solo in scena, a parte in qualche fondamentale momento. Perché a fargli compagnia sono i suoi cari, defunti anzitempo, eppure sempre presenti nei suoi ricordi. La storia si ispira ad uno dei più bei racconti di Giambattista Basile e al suo Lo cunto de li cunti, che la regista palermitana ha voluto mantenere nel suo dialetto originale. In questa storia, proprio perché è il giorno dei morti, i familiari del protagonista prendono vita, invadendo la casa e riportando un po’ dell’allegria perduta.

L’anziano, infatti, sono anni che vive una “solitudine che gli consuma l’anima”, come osserva egli stesso, rivolgendosi al pubblico. Fortunatamente, in quel giorno, solo per quel giorno, la casa è in festa: “solo il giorno dei morti, c’è un po’ di vita in questa casa” afferma l’anziano, provocando qualche risata tra il pubblico. Eppure, è proprio così. Le tre sorelle, Rosa (Nancy Trabona), Viola (Maria Sgro) e Primula (Federica Greco),  compaiono subito alle sue spalle, infrangendo il silenzio della scena con un canto angelico e con il tintinnio dei campanelli.

Poi entra in scena Giuseppe Lillo, suo padre marinaio, col suo pettine sempre in tasca e la sua sfrenata allegria e gioia di vivere. Sua madre (Stephanie Taillandier) che parla in francese, claudicante e piegata dagli anni, seguita da Pasqualino, interpretato da uno straordinario Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout. Una delle scene più belle, visivamente belle dello spettacolo, lo vede protagonista indiscusso mentre gioca con la massa e la farina, cambiandone la forma, amalgamandola e tenendola tra le mani, mentre il resto dei defunti suona tamburo e altri strumenti, ravvivando e doppiando musicalmente ogni suo movimento. Le sue espressioni facciali, i suoi movimenti scenici, l’agilità sul palco, sono indimenticabili e fanno pensare ad un furbetto Charlot o ad un folletto saltellante, dalle buffe smorfie e dai movimenti di un muto e dispettoso Pulcinella. Interessante la coppia degli zii, Rita (Martina Caracappa) e Antonio (Valter Sanzi Sartori), la cui relazione è violenta e insana, caratterizzata da un amore malato, come più volte sottolineato dal vecchio. Spumeggianti le scene in spagnolo con Pedro (Sandro Maria Campagna), perso d’amore per Viola.

L’anziano, seppur vorrebbe raggiungere i suoi cari, lotta, aggrappato alla vita, come appare in un altro intenso momento, in cui tira una catena che alla fine si spezza. Segno che non è ancora giunto il momento di varcare l’ultima porta. I ricordi si riaffacciano continuamente, portando la consueta allegria e pur alternandosi a scorci di mestizia. Spettacolare la scena finale, in cui ognuno appare con il proprio manichino. L’elemento più originale dello spettacolo è proprio l’uso degli oggetti: la farina, la massa, il tavolino, lo sgabello, la poltrona che vengono piazzati sulla ribalta all’occorrenza e, quindi, smobilitati per sottolineare vuoto e silenzio.

I costumi, molto belli, sono sempre di Emma Dante: memorabile la scena di balli e festeggiamenti, in cui la madre, il padre e Pasqualino indossano delle paillettes. Originale il gioco di luci di Christian Zucaro e le riproduzioni di Cesare Inzerillo, identiche ai personaggi sulla scena. Uno spettacolo di straordinaria bellezza. Uno inno struggente alla vita, di cui soprattutto di questi tempi si avverte un assoluto bisogno.

Le foto dello spettacolo sono tratte dal sito del Teatro Pubblico Pugliese