Dalla Parola alla chiacchiera il passo è breve

Una pubblicazione di mons. Fortunatus Nwachukwu offre lo spunto per una riflessione su un malvezzo di fedeli e pastori, più volte stigmatizzato dal papa

“Il vostro dire sia sì sì no no”, ché tutto il resto si sa donde viene. L’omiletica non sempre copiosa dei Padri della Chiesa. La retorica talvolta non proprio esempio di brevitas dei documenti papali durante i secoli. E però, insomma, la tradizione cristiana e cattolica ha quantomeno fatto sempre uso parco, misurato, controllato delle parole: alla stregua, volendo sintetizzare e quasi sorridere, del motto popolare “una parola è poco, due sono troppe”.

Ma è vero. Pensiamo al ruolo e alle parole del prete, del prete oggi. Fino al Concilio Vaticano II – per fare un esempio che forse a taluni sembrerà strano – non era il prete il protagonista visibile e fisico della messa (o del sacrificio eucaristico, se ancora può usarsi l’espressione): si faceva di tutto, paradossalmente, per celarlo, nonostante la barocca pompa e l’ondeggiar qua e là di solenni mantelli devotamente sorretti dagli imberbi caudatari.

Sulla scorta anche degli insegnamenti francescani (sì, francescani: qualcuno vada a rileggersi il passo delle Fonti, a proposito dell’oro che il poverello d’Assisi chiedeva espressamente per nobilitare le liturgie) la chiesa, pur elevando l’austerità dell’aria in una scenografia che era anche di ‘potere’, restringeva però lo spazio del sacerdote officiante a quello, assolutamente essenziale e determinante, della liturgia stessa, cui null’altro era demandato. Non di certo la logorrea attuale di molti preti dall’altare, spesso esercizio di mix tritacarne in cui infilarci possibilmente di tutto, meno – la generalizzazione è voluta – il ‘senso’ di quello che pur si va a leggere, a dire, a credere, a dire di credere.

Un Dio che si avverte lontano, proprio mentre la Parola ce lo fa sentire vicino. E questo perché dalla Parola si passa alla sua sorellastra degenere e minuscola, in tutti i sensi: la parola, se si vuole la chiacchiera. Una chiacchiera che tra i credenti poi continua, specie appena usciti dalla funzione.

“Sei d’accordo con quel che ha detto il prete?”. “Madonna (esclamazione, non già invocazione, ndr), hai sentito che ha detto il parroco. Ma è impazzito?”. E via dicendo. Pardon: chiacchierando. Sono gli esiti nefasti del protagonismo, questo sì, prettamente clericale cui si è dato vita negli ultimi decenni perché, se è vero che in passato la messa quasi sembrava un’espressione intimistica tra il sacerdote e l’altare (sembrava o poteva sembrare, tuttavia non era certo così), oggi la volgarizzazione è bella che compiuta.

E dalla Parola di Dio si passa alla parola del prete su quella di Dio o della parola del prete sulla propria, nel senso che ci si parla anche addosso. È la fotografia perfetta di una sorta di antropolatria interna ad un certo cattolicesimo ecclesiale: il divismo attorno al parroco di turno, che per statuto non si può criticare (specie da parte di chi poi si professa “cattolico del dialogo” ed una volta persino del “dissenso”); la lezioncina di fine esegesi vetero e neotestamentaria persino alle esequie, quando magari ad un parente prossimo dell’estinto il paradigma di quel particolare verbo greco, in quel momento, può legittimamente interessare poco; il sociologismo d’accatto di prediche condite magari dell’ultimo successo sanremese; i riferimenti velati o meno velati all’attualità politica – internazionale, nazionale o civica che sia -, che vanno bene, giacché quello del Vangelo è un messaggio che interessa anche il cittadino, ma che non possono essere esasperati. E via dicendo (rieccoci con l’espressione ma tant’è: ci calza a pennello!).

Tutti questi rischi sono stati denunciati, in parte, anche dall’attuale pontefice, quel Francesco che ogni tanto andrebbe slegato dalla retorica dei fan e ricondotto alle sue semplici parole. Il papa ha più volte criticato un certo presenzialismo ciarliero da parte dei sacerdoti, invocando tempi più stretti per le omelie, quantomeno l’uso di uno stile e di un linguaggio più diretti. Ma il papa ha spesso anche invitato a guardare l’essenziale oltre le parole, le parole tante volte inutili: le “chiacchiere”, appunto.

Papa Francesco con mons. Fortunatus Nwachukwu

E cosi un brillante uomo di chiesa, il nigeriano mons. Fortunatus Nwachukwu, nunzio apostolico in Trinidad e Tobago, osservatore permanente della Santa Sede presso più istituzioni di livello mondiale (Onu, Organizzazione mondiale del commercio, Organizzazione internazionale per le migrazioni), su questo tema ha pensato bene di scrivere Parola abusata. Il chiacchiericcio nell’insegnamento di Papa Francesco, un volumetto edito dalla Tipografia Vaticana, e per la cui stesura si è avvalso della collaborazione del giornalista Franco Deramo

Un opuscolo che ha trovato un efficace ‘sponsor’ proprio in papa Francesco. A fine anno, infatti, prima delle feste natalizie 2021, al termine del tradizionale discorso di auguri ai cardinali e vescovi della Curia Romana, il pontefice ha presentato alcuni titoli scelti come doni per i suoi collaboratori, invitandoli a leggerli e a “non lasciarli in biblioteca”. Ed ecco proprio il libretto di cui parliamo: l’autore, ha illustrato il papa, “ha fatto una riflessione sul chiacchiericcio, e mi piace quello che ha dipinto, che il chiacchiericcio fa che si sciolga l’identità”.

Il piccolo saggio, a sua volta, fa sue molte delle posizioni del papa stesso sulla tematica. Vale una lunga citazione papale, emblematica. “Quando noi vediamo uno sbaglio, un difetto, una scivolata, in quel fratello o quella sorella, di solito la prima cosa che facciamo è andare a raccontarlo agli altri, a chiacchierare. E le chiacchiere chiudono il cuore alla comunità, chiudono l’unità della Chiesa. Il grande chiacchierone è il diavolo, che sempre va dicendo le cose brutte degli altri, perché lui è il bugiardo che cerca di disunire la Chiesa, di allontanare i fratelli e non fare comunità. Per favore, fratelli e sorelle, facciamo uno sforzo per non chiacchierare. Il chiacchiericcio è una peste più brutta del Covid! Facciamo uno sforzo: niente chiacchiere. È l’amore di Gesù, che ha accolto pubblicani e pagani, scandalizzando i benpensanti dell’epoca. Non si tratta perciò di una condanna senza appello, ma del riconoscimento che a volte i nostri tentativi umani possono fallire, e che solo il trovarsi davanti a Dio può mettere il fratello di fronte alla propria coscienza e alla responsabilità dei suoi atti. Se la cosa non va, silenzio e preghiera per il fratello e per la sorella che sbagliano, ma mai il chiacchiericcio”.

Così il papa all’Angelus del 6 settembre del 2020. La parola è “veicolo di comunicazione”, ricorda nell’introduzione Nwachukwu, è “parola di Dio, parola nostra”. E così il volume, attraverso rifermenti alla parola in senso biblico, teologico, con rapidissime pennellate arriva poi a sviscerare il pensiero e l’insegnamento di papa Francesco sul tema. Lo fa in pagine semplici, di raccordo tra diverse citazioni di Francesco, già del 2013, magari afferenti anche alla semplice unità interna della Chiesa.

”Portare il Vangelo è annunciare e vivere noi per primi la riconciliazione, il perdono, la pace, l’unità e l’amore che lo Spirito Santo ci dona” (udienza generale del 22 maggio, appunto, 2013, anno dell’elezione del papa). Il chiacchiericcio, illustra l’autore, si basa su “disinformazione, diffamazione, calunnia”. Tanti i suoi volti. Una vera e propria “patologia contro la santità”, asseriscono queste pagine, sulla scorta anche di un famoso discorso alla Curia romana del papa, in occasione degli auguri natalizi di quello stesso 2013.

Esiste poi un “terrorismo delle chiacchiere”, giacché le chiacchiere sono anche “guerre”, ha spesso detto Francesco. Certo, è anche vero che pure Francesco parla. Secondo alcuni, troppo. Si pensi alle interviste durante i voli verso i Paesi oggetto delle sue visite. Parole a braccio che, in non pochi casi, hanno fatto discutere. Fuori dal protocollo, già da questo papa seguito molto poco, esiste questa possibilità al fraintendimento o alla difficoltà di chiarezza e lucidità.

Più di venti, infine, le occasioni pubbliche in cui Francesco ha parlato, criticamente, del chiacchiericcio. Quasi tutte riportate integralmente nel libro. Ma eccoci alla fine del testo. “Sorprende il suo modo di associare il semplice parlare male con l’atto terroristico, di omicidio e di guerra”. E poi: “Non si può dubitare che questo pontefice riconosce che il Vangelo si diffonde spesso con il sangue dei martiri, non solo delle vittime del martirio cruento, ma anche di quelle del martirio mediatico”. Così Nwachukwu nelle sue conclusioni.

Nella foto in alto, papa Francesco