Per disegnare il futuro di Taranto serve il colore giusto

La città deve ripensare completamente il sistema produttivo e non può accontentarsi del piano di Acciaerie d'Italia, che non esclude rischi gravi per salute e ambiente

Non sono passate che poche settimane dalla Valutazione d’impatto sanitario dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) sui danni e gli ulteriori rischi per la salute, che già un altro rapporto, questa volta dell’Onu, torna a sottolineare il prezzo altissimo, in termini di malattie e morti, che i cittadini del capoluogo ionico sono costretti a pagare per la presenza delle acciaierie.

La produzione nell’impianto siderurgico ex-Ilva di Taranto ha compromesso la salute dei cittadini e violato i diritti umani per decenni, provocando un grave inquinamento atmosferico. I residenti che vivono nelle vicinanze dell’impianto ”soffrono di malattie respiratorie, cardiache, cancro, disturbi neurologici e mortalità prematura”. E’ quanto contenuto nel rapporto annuale ”The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment”, del relatore speciale delle Nazioni Unite sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito e sostenibile, David R. Boyd, d’intesa con il Relatore speciale Marcos Orellana sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e lo smaltimento di sostanze e rifiuti pericolosi.

Tra i luoghi più degradati in Europa occidentale, i Relatori hanno individuato proprio la zona dell’Ilva di Taranto che si trova nella stessa situazione di zone come quella di Quintero-Puchuncavi in Cile, Bor in Serbia e Pata Rat in Romania. Un’altra tegola che si abbatte sulla classe poltica che non hanno tenuto conto neanche della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo con la quale l’Italia, nel 2019, è stata condannata per aver violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare di alcuni cittadini. Sentenza che avrebbe dovuto innestare operazioni di pulizia e bonifica già nel 2021 ma poi rinviate al 2023, con azioni dei diversi governi che permettono all’impianto di funzionare

La relazione dell’Onu è perfettamente complementare al verdetto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità “Le emissioni nell’aria dell’impianto ex-Ilva, se tradotte in concentrazioni di pm (mix di particelle solide e liquide, ndr) sono causa di un eccesso di mortalità e di altri impatti negativi sulla salute, con relativi costi economici. Tali impatti sono proporzionali al livello delle emissioni nei diversi scenari considerati”. La Valutazione d’impatto sanitario per Taranto è stata commissionata dalla Regione Puglia e condotta dal Centro Europeo per l’Ambiente e la Salute dell’Oms con sede a Bonn, diretto da Francesca Racioppi. Uno studio, presentato nei giorni scorsi, di cui si dovrà sicuramente tener conto, specialmente alla luce del nuovo piano industriale annunciato a dicembre da Acciaierie d’Italia, joint venture tra la multinazionale ArcelorMittal e lo stato attraverso Invitalia. Piano che, parallelamente alla decarbonizzazione nei prossimi dieci anni, ha fissato l’obiettivo di produzione annua a otto milioni di tonnellate di acciaio.

Obiettivo che non solo appare inconciliabile con le linee guida dell’Oms ma che anche dal punto di vista industriale risulta di difficile attuazione. L’ex Ilva oggi è, infatti, in una condizione di estrema difficoltà; viaggia a scartamento ridotto, con ricorso massiccio alla cassa integrazione e due soli altiforni funzionanti, con un ritmo di diecimila tonnellate di acciaio al giorno, che sull’anno fermerebbero la produzione perfino sotto le quattro milioni di tonnellate del 2021, record negativo di sempre. Non è un caso che il premier Mario Draghi, solo qualche giorno fa, abbia convocato personalmente Franco Bernabè, il presidente di Acciaierie d’Italia, per chiedere chiarimenti sul futuro dell’impianto, sullo stato della produzione e sui livelli occupazionali. È stato Palazzo Chigi a far sapere dell’incontro e il sospetto è che si sia voluto dare un segnale in diverse direzioni. Il primo per rispondere all’allarme che arriva dai territori e dal fronte confindustriale, il secondo indirizzato al ministero dello Sviluppo economico che stava gestendo la partita, nei fatti scavalcato da Draghi, che ha voluto approfondire personalmente la situazione.

Lo stato si trova in una situazione imbarazzante. Bernabè è stato chiamato nel luglio 2021 al delicato ruolo di contrappeso ad ArcelorMittal, il colosso franco-indiano che – come molti sostengono – non ha alcun interesse a far sopravvivere l’Ilva e vorrebbe solo scappare. Al momento i risultati non sono incoraggianti e a maggio, stando all’accordo siglato con la multinazionale un anno fa, Invitalia dovrebbe salire al 60% di compartecipazione azionaria spendendo altri 680 milioni dopo i 400 già messi sul piatto e polverizzati nei primi mesi. Con Bernabè, Draghi ha voluto capire anche la reale necessità dei 575 milioni che, nel decreto Milleproroghe di fine anno, il governo ha deciso di dirottare dai fondi destinati alle bonifiche per tenere in piedi la fabbrica. Una mossa che non è piaciuta a mezzo arco parlamentare e che ha fatto infuriare i parlamentari pugliesi.

Grazie a quella norma, infatti, i fondi sequestrati alla famiglia Riva potranno essere utilizzati non solo per il “risanamento e la bonifica ambientale dei siti” riconducibili all’ex Ilva di Taranto, ma anche per consentire ad Acciaierie d’Italia, che gestisce oggi la fabbrica, di continuare a produrre acciaio e restare in vita puntando alla decarbonizzazione. I fondi in questione provengono dal sequestro eseguito dalla procura di Milano alla famiglia Riva: circa 1 miliardo e 200 milioni ritrovati in diversi trust nei paradisi fiscali. L’accordo tra le diverse parti in causa consentiva l’utilizzo di quei capitali per una serie di operazioni di bonifica sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Ed è sui primi che adesso si gioca una nuova battaglia. Il governo vorrebbe infatti utilizzare quel patrimonio non solo per le bonifiche, ma, più genericamente, per il “finanziamento di interventi e progetti”.

Come da sempre accade a Taranto, però, le prospettive industriali avranno ripercussioni tangibili sulla qualità della vita. Lo stesso studio dell’Oms, che certifica una significativa riduzione della mortalità e delle emissioni dal 2012 in poi, cioè dopo l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) successiva al sequestro giudiziario degli impianti siderurgici, non chiarisce se i miglioramenti siano legati anche al livello di produzione ridotto drasticamente rispetto al periodo precedente a quello di riferimento. Oggi, infatti, l’ex Ilva produce circa la metà dell’acciaio prodotto nel 2009.

L’Oms ha inoltre quantificato il danno economico dovuto alla mortalità prematura per l’area metropolitana di Taranto: da almeno 85 milioni di euro l’anno per la situazione pre-Aia 2010, passerebbe – ragionando sempre di scenari – a 53 milioni di euro per lo scenario produttivo intermedio dell’Aia 2012 e rimarrebbe, comunque, a 15 milioni di euro l’anno se fossero applicate le prescrizioni post-Aia 2015.

L’approccio utilizzato nello studio dell’Oms si limita ai soli adulti di età superiore ai trenta anni e non considera gli effetti sinergici dovuti all’esposizione a più sostanze chimiche contemporaneamente, né gli effetti aggiuntivi dovuti all’esposizione agli stessi contaminanti attraverso vie di esposizione diverse da quella inalatoria, come la contaminazione dei suoli, degli alimenti o delle acque, nonché l’impatto dei rifiuti urbani o speciali. Il suggerimento del team di esperti, quindi, è il seguente: “Si può concludere che qualsiasi ulteriore azione incentrata sulla riduzione del particolato – ma anche di molti altri inquinanti come metalli pesanti e diossine – potrebbe comportare un forte beneficio positivo per la salute e ridurre i costi associati”.

In realtà, la strada da percorrere per offrire a Taranto un futuro di sviluppo e benessere, nel rispetto dell’ambiente e quindi delle persone, è puntare ad una complessiva riconversione del modello produttivo su cui si basa l’economia del territorio. Occorrono iniziative che si pongano sulla scia del Progetto di Riconversione e Riqualificazione Industriale (PRRI) dell’area di crisi di Taranto, elaborato da Invitalia nel 2018, che prende le mosse dalla perdita di competitività del comparto siderurgico, con tutte le disastrose conseguenze sull’ambiente e sulla salute oltre che sul piano stesso dello sviluppo produttivo.

In quel documento si individua un’area di crisi industriale complessa nel territorio che comprende i comuni di Taranto, Statte, Montemesola, Massafra e Crispiano, puntando su interventi di sviluppo imprenditoriale, che pongano come obiettivi prioritari il rafforzamento del tessuto produttivo tramite riqualificazione delle produzioni, l’attrazione di nuovi investimenti finalizzati alla diversificazione produttiva e alla valorizzazione del patrimonio immobiliare non utilizzato dell’ASI e dell’Autorità Portuale, il potenziamento della logistica connessa alle attività portuali.

Un programma tradotto in legge e dotato di un finanziamento di 30milioni di euro, a cui hanno aderito numerose realtà aziendali del territorio. Un intervento da seguire e potenziare per un cambio di registro decisivo, in grado di aprire una pagina davvero nuova per l’ambiente e la vita dei cittadini. Sullo sfondo, intanto, resta il piano di rilancio, presentato due mesi fa in un vertice al ministero dello Sviluppo economico ma che né i sindacati né le autorità locali e neppure il parlamento hanno mai visto. Il futuro dell’ex-Ilva è, ancora una volta, avvolto in una cappa di fumo. Il governo deve decidere cosa fare davvero.

Le foto di questo articolo sono di Cosimo Calabrese: ritraggono i murali realizzati da artisti di tutta Europa a Taranto, nell’ambito del progetto TRUSt 2021