Fu il Salento che “rinnovò” agli ebrei la promessa di una nuova terra

Il campo di Santa Maria al Bagno, nel comune di Nardò, offrì ospitalità e assistenza a centinaia di ebrei sopravvissuti ai lager nazisti e diretti in Palestina

Nell’area del Mediterraneo, la Puglia è sempre stata una regione meta di profughi, esuli e fuggitivi. Una vocazione che è stata meglio compresa in tempi più recenti, con l’approdo di nuovi migranti in fuga verso le sue coste. È in Puglia, infatti, che dal 1991, e in ondate successive come quella del 1997, cominciarono ad approdare uomini e donne dall’Albania. Ed è sempre in Puglia che, alla metà degli anni novanta, vi furono gli arrivi dall’ex–Jugoslavia e, in tempi ancora più recenti, dai paesi del Nord Africa e dall’Africa subsahariana. Meno conosciuta, ma non per questo meno emblematica dell’anima accogliente della regione, è la vicenda degli ebrei stranieri che dal 1943, in seguito all’armistizio, ebbero come percorso privilegiato d’immigrazione ed emigrazione proprio la Puglia. Il Salento, per molti sopravvissuti alla shoah, divenne in quegli anni un luogo di rinascita e un vero e proprio “ponte per Israele”.

A Tricase, Santa Caterina di Nardò, Santa Maria di Leuca e Santa Cesarea Terme vennero ospitati soprattutto ebrei askenaziti che, nei campi gestiti dalle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione, si rinfrancavano e riprendevano le forze prima di proseguire il viaggio verso la Palestina. I campi sorgevano all’interno di ex strutture di internamento fascista, scuole, caserme, edifici pubblici o, più semplicemente, negli spazi ricavati dall’unione di case o ville, sequestrate agli abitanti del luogo. A Santa Maria al Bagno, sorse, probabilmente, il campo più grande, che le autorità militari indicarono con la dicitura Displaced Persons Camp numero 34. Come emerge anche dalle memorie personali dei profughi, pubblicate soprattutto a partire dagli anni novanta e oggi disponibili in un archivio online, la vita quotidiana all’interno dei campi del Salento era ben organizzata. I bambini e gli adolescenti che vi alloggiavano avevano diritto a frequentare la scuola (i più piccoli direttamente nel campo, quelli più grandi nelle scuole superiori del Comune più vicino) e i laboratori dei mestieri, dedicati spesso ad attività marittime e alla pesca. Oltre ad avere servizi fondamentali come orfanatrofi, ospedali e addirittura un ufficio postale, i profughi potevano professare in libertà la propria religione e seguire le proprie tradizioni.

I murali realizzati a Santa Maria al Bagno da Zivi Miller

Ron Unger, nato nel 1928 e giunto in Salento nell’ottobre del 1945, ha raccontato: “C’erano attività educative, culturali e corsi professionali. Venivano molte compagnie di teatro di strada e anche professori a fare lezione. Molti venivano dagli Stati Uniti e recitavano in yiddish e in inglese. Venivano anche delle compagnie teatrali yiddish che si erano formate in altri campi profughi. Quando arrivai in Italia la mia conoscenza della lingua non era granché, ma in Italia si perfezionò: era l’unica lingua che ci permetteva di comunicare tra noi profughi, dato che venivamo da varie località. Dalla Russia, dalla Romania, dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Germania, dalla Polonia”.

Il periodo trascorso in Salento fu, quindi, per i profughi un’opportunità di riabilitazione fisica e psicologica. Provati dalla persecuzione e dalle violenze subite, dalle fughe e dalla clandestinità, in questa nuova fase riuscirono a riscoprire il senso di vivere in comunità. La vicinanza al mare era un vantaggio che spesso viene sottolineato nelle testimonianze dei profughi che, dopo anni di sofferenze e di peregrinazioni, lo consideravano un vero e proprio miracolo. “Era un vero paradiso, dopo il freddo sofferto a Parma e in Emilia. Il clima mite fu un vero toccasana dopo gli inverni trascorsi a Sarajevo, in Val Padana e nelle Alpi Svizzere”: ha raccontato Al (Širo) Finci, nato a Sarajevo e giunto a Santa Maria al Bagno nel 1945.

Si conta che, in quegli anni, nell’ospedale di Leuca nacquero circa trecento bambini ebrei: una vera e propria “seconda generazione” di sopravvissuti alla shoah nata nell’Italia del secondo dopoguerra. Figli di giovani madri, che venivano al mondo a pochi metri dalla spiaggia, circondati dal sole e dall’odore del mare. Oltre quattrocento, invece, furono i matrimoni celebrati nel solo campo numero 34 nel giro di nemmeno due anni. Uno di questi fu quello di Zivi Miller: un rifugiato taciturno, schivo, che aveva avviato una lavanderia, avvalendosi della collaborazione della sua vicina di casa, Giorgia My, che lo aiutava, sgravandolo del carico di lavoro che aveva accumulato nel corso dei mesi.

Un’immagine dei profughi ebrei a Santa Maria al Bagno, nel comune di Nardò

La donna riuscì ad aprire un varco nel cuore dell’uomo. Con lei Zivi si confidò, raccontando le atrocità che aveva dovuto subire durante gli anni di quella tragica guerra che gli aveva strappato figlio e moglie dalle braccia. Giulia e Zivi si innamorarono, si sposarono nel comune di Nardò e poi decisero di andar via insieme in direzione di Israele. L’uomo, che prima dell’olocausto si guadagnava da vivere facendo il pittore, imparò a dare forma ai suoi pensieri, con un pennello e un po’ di colore, anche durante la permanenza a Santa Maria al Bagno. Scoprì una casupola abbandonata nei campi incolti che costeggiavano la cittadina e lì si rifugiò realizzando dei bellissimi murales. Opere che non mettevano in scena alcun terrore, nessuna delle atrocità che Zivi aveva vissuto nei campi di concentramento ma comunicavano l’impellenza di guardare avanti e di raggiungere la Terra Santa. La necessità di avere una meta, una terra propria. Un sogno che accomunava tutti i rifugiati.

Fino al 2005, l’unica realtà che ha custodito e divulgato questa pagina di storia locale è stata l’Apme (Associazione Pro Murales Ebraici), nata negli anni Novanta con la missione di salvaguardare proprio quei murales realizzati da Zvi Miller durante la sua permanenza in Salento e diventati il simbolo della “rinascita” degli ebrei in Puglia. L’amministrazione comunale ne dispose il distacco e il restauro, impegnandosi a trovare un luogo più idoneo alla loro esposizione. Grazie anche all’impegno di diverse personalità, tra cui Paolo Pisacane, la storia di questi murales cominciò ad acquisire una discreta rilevanza internazionale permettendo a centinaia di uomini e donne privi di un ricordo diretto delle vicende di emigrazione dei loro parenti (poiché, assieme ai genitori, fin dai primissimi anni di vita, si trasferirono in Israele) di venire a contatto con il proprio passato in età adulta.

Un’opera dell’artista bitontino, Francesco Sannicandro, dedicata ai prigionieri dei lager nazisti, nel Museo della memoria di Nardò

Nel 2005, in occasione del Giorno della Memoria, il presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferì alla città di Nardò la medaglia d’oro al merito civile, con la seguente motivazione: “Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di eletti valori civici”.

A fine ottobre del 1946, i profughi furono avvisati dell’imminente chiusura delle strutture e a dicembre, nonostante i campi fossero ancora in piena attività, cominciarono le operazioni di registrazione, finalizzate all’organizzazione dei trasferimenti (la chiusura fu anche sollecitata da alcune vigorose proteste organizzate dai proprietari delle ville che erano state requisite per formare i campi). In quel breve lasso di tempo, furono più di quarantamila gli ebrei che transitarono dai campi del Salento prima di rifarsi una vita in Palestina. Tra di loro, anche futuri protagonisti delle vicende politiche dello stato d’Israele, come Dov Shilansky, deputato al Parlamento d’Israele dal 1977 al 1996 e poi presidente di quello stesso parlamento dal 1988 al 1992.

In alto, una foto di profughi ebrei a Santa Maria al Bagno