Avverto forte l’esigenza di riattualizzare, di ricordare quel passato. Non finisco mai di cercare una spiegazione al mio perenne chiedermi “perché?”, “come sia stato possibile?”. Questa è una storia che mi cova dentro tutto l’anno e che mi obbliga a scriverne proprio nelle giornate in cui ci ritroviamo tutti insieme a farne memoria. un tempo in cui emettiamo, ancora una volta, il nostro unico, severo, inappellabile giudizio. Di condanna! Inappellabile!
Il 27 gennaio 1945 il campo di concentramento di Auschwitz e Birkenau fu liberato dall’Armata Russa. Una scoperta indegna, ben oltre qualsiasi umana immaginazione. È l’epilogo della disfatta della follia tedesca, la fine della seconda guerra mondiale, epilogo del “secolo breve”. Ne scrivo, ne riscrivo con sofferenza, ma come obbligo morale, per assolvere ad un dovere di testimonianza. Per urlare tutta la mia rabbia, il mio dolore e la mia ferma condanna per quella devastante ferocia, per quel crimine perpetrato così lungamente contro l’umanità.
Quei luoghi, accompagnato da una guida polacca che parlava benissimo l’italiano, li ho visitati per un giorno intero. Eravamo in quattro. Nel campo due piccoli altri gruppi. Dominava il silenzio. E il freddo. Tanto freddo, fuori e dentro l’anima. La guida parlava lentamente, quasi sottovoce. Poche informazioni, come a non voler destare la pace di quel milione e oltre di deportati, che di lì erano stati fatti evadere, liberati, “passati per il camino” dei forni crematori, sempre accesi, notte e giorno.
Iniziai la visita col fare subito domande; ma la guida, con uno sguardo dolce mi disse: “Non abbia fretta. Vedrà tutto. Non c’è bisogno che io parli”. Così mi ritrovo, ogni anno, in quei campi. Ho detto campi? Nooo! Nei lager di Auschwitz e Birkenau. Solo, avvolto nel mio caldo piumino, con la mia sciarpa di lana che mi avvolge il collo, i miei guanti che mi tengono calde le mani, con i miei scarponcini che affondano nella neve che il gelo notturno ha reso un’unica lastra di ghiaccio. Un crepitio sordo, l’unico rumore in quella distesa di baracche e filo spinato.
E mi ritrovo immobile dinnanzi a quel vagone ferroviario fermo lì, unico, testimone solitario, lasciato abbandonato proprio alla fine di quel binario morto che ha condotto milioni di persone alla morte. Ho detto vagone? Nooo! In realtà, tutti carri bestiame, carri merci, con finestrini alti, senza vetro, un po’ di paglia sporca sotto i piedi, stipati come sacchi, per riscaldarsi alla meglio. Ma non trasportavano animali, non trasportavano bestie o merci. No. Trasportavano uomini e donne, piccoli e grandi, bambini di ogni età. Tutte persone! Quel vagone lasciato lì, vagante, con la neve sul predellino, ghiacciata, senza orme. Con il pesante gancio uncinato di ferro che lo apriva o lo chiudeva solo dall’esterno. Ad opera di soldati armati, pronti a sparare.
Mani pietose hanno deposto qualche rosa rossa su quella neve. Spiccano e stridono quei colori. Urlano quelle rose rosse dal lungo stelo. Qualche foglia ancora verde e tante spine. Circondate da filo spinato e con corrente elettrica. Trappole mortali. Una rosa rossa, deposta da mani pietose, come a voler lenire angosce e dolori, come a voler cancellare quelle mostruose atrocità subite, muti, con un dolore infinito.
Il freddo di febbraio è sempre con temperature sotto zero. Meno sette gradi, il giorno della mia visita al campo. Freddo, tanto freddo. Siamo in Polonia. Senza vento e ben coperto, non lo percepisci. Lo senti al tramonto, di sera quando le ombre diventano più nere del freddo e coprono il campo fatto di lunghe baracche di legno.
Tante foto, tanti filmati documento, tanti film ce l’hanno fatto conoscere quell’orribile campo, in tutta la sua mostruosità. Entrare in una baracca, vedere come erano fatte, coperte solo da uno strato di tegole. Ti senti circondato da quei visi, da quegli occhi vivi che incrociano i tuoi, carichi di sofferenza, non rassegnati, sempre pieni di speranza. Corpi freddi che si riscaldavano stretti in tre in un posto, fatto di due tavolacci, forse sufficiente per uno.
La guida racconta e descrive telegraficamente. E tu rivedi le immagini di quei miracolosi filmati che gridano all’umanità quell’urlo di dolore che noi siamo stati capaci di procurare ai nostri fratelli ebrei e non solo. Cinque lunghi anni. Di pazzia, di follia, di sadismo, di violenze. Orrore di ogni tipo. Ricordo che la villa del comandante di quel macabro posto era di poco oltre l’alto muro di cinta. Posta su di una collinetta dominava tutta l’ampia distesa del lager, vero campo di sterminio. Aveva figli quel milite. Tornava a casa dai suoi, attraversando una piccola porticina.
Di qua padre amorevole a giocare coi figli, di là a seviziare, a torturare e a portare alla morte con inaudita crudeltà piccoli e grandi. Arrivati in quei carri ferroviari, stremati, dopo un lungo viaggio, i deportati venivano fatti scendere sulle banchine nei pressi delle docce, lì condotti per essere subito “sterilizzati”. Militi armati, con cani da guardia aizzati, li dividevano, li picchiavano, valutati a vista, in validi o invalidi, maschi o donne, utili, non utili, incuranti dei rapporti parentali che li univa e ora li divideva per sempre.
Era l’inconsapevole momento dell’addio fra mariti e moglie, genitori e figli, nipoti e nonni. L’ultimo sguardo di chi è costretto a partire per primo da quel posto, con il desiderio, la speranza di rivedersi. Le SS sperimentarono che la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio era il metodo più efficace per arrivare alla “soluzione finale” il più rapidamente possibile. Ogni giorno ne venivano uccisi oltre 6.000. Condotti nelle docce, nudi, a braccia alzate per far entrare il più alto numero di persone, la stanza veniva saturata da monossido di carbonio prodotto con motori diesel. Proprio ad Auschwitz, si sperimentò il gas Zyklon B in pastiglie: diventava letale una volta esposto all’aria.
Il museo ne mostra alcuni sinistri esemplari. La sede del Museo è a Birkenau. Non ti aspetti di vedere quello che vedi: montagne di scarpe di tutti i tipi, da donna, da uomo da bambino. Che tenerezza queste: il corpicino che le indossava ha camminato anche lui verso il “camino”, per attraversarlo e congiungersi alla mamma in Cielo, con i fratellini, le sorelline, gli amichetti. Alcune scarpette bianche, alcune di colore rosa, modello occhio di bue, o alla bebè. Ingannati: pensavano di andare in un posto degno di rispetto, per far magari anche festa. Le osservi, pensi. Ricordi quel modello, visto in foto, magari indossati da mamma.
Nella stanza accanto una montagna di valige: di cartone, di pelle, di tutti i formati, con l’indirizzo di casa del proprietario, con etichette semi stracciate. Valige che non sono state trafugate dalle SS, le scartate, evidentemente non hanno fatto in tempo. In un angolo anche cesti di vimini di tutte le grandezze, di tutti i tipi. Si la roba migliore, i vestiti più belli, la biancheria intima, specie femminile, preselezionata, preopzionata è presa dai capi. Magari, qualcuno ne avrà fatto dono a sua moglie, alla sua fidanzata, alla sua amante, ai suoi familiari. In tempo di guerra manca tutto e tutto ciò che si trova serve, è merce preziosa. Nascosta o miseramente negata la provenienza. Pudore e mal celato senso di colpa. Il gusto dell’orrido.
In altra stanza trovi tovaglie di lino e tovaglioli ricamati, asciugamani di lino, di fiandra, di cotone bianco o avoriato, con orlo a nodi, con nappine o treccine, alcuni finemente ricamati a mano. Anche alcuni tallèd o tallit, chiamati anche scialle di preghiera. E’ l’indumento rituale ebraico per la preghiera. Nel lager si è anche pregato. Si sono celebrate clandestinamente anche le feste più importanti. Quel telo, solitamente di lana, seta, lino o cotone, ma anche in fibra sintetica, di varie grandezze, è più o meno decorato e dotato obbligatoriamente di frange ai quattro angoli. Le frange servono per adempiere il comandamento espresso dalla Torah: “metterai delle frange alle quattro estremità del mantello con cui ti copri” (Libro del Deuteronomio 22:12). Sono formate da quattro fili doppi, in modo da risultarne otto, uno dei quali più lungo, che si avvolge intorno agli altri; sono legate in un determinato numero di nodi, corrispondente al valore numerico delle lettere che compongono il nome di Dio.
Come dire quello che provi a stare dinnanzi alla grande finestra del vano che conserva quel groviglio di montature per occhiali? Tutte senza lenti. Occhiali senza occhi. Occhi che hanno visto l’orrore e sono stati bruciati. Cos’è un faro spento nel tormento di una bufera che con le sue lunghe, alte onde si infrange su di esso e non riesce ad abbatterlo. Che vedi in quella finestra? Sembra un groviglio di ferro filato. Sembra. Guarda bene e vedrai gli occhi di chi li indossava che ti chiedono di non dimenticare. Rimani muto. Fai pure qualche foto. Poi, a testa bassa ti sposti nella stanza accanto. Prima di arrivarci, la guida ci chiede: in questa stanza, vi prego di non fare foto. Vi entro in punta di piedi. Che vedo? Una montagna di capelli. Trecce di ogni tipo, semplici, ornate da cordoncini semplici, colorati, di ogni tipo. Biondi, bruni, castani, bianchi. Bianchi, aperti, sciolti e a treccine. Di nonne amate, di mamme cercate con lacrime che non scendono più tristi dal viso, ma che scorrono nel cuore, senza che nessuno possa vederle o asciugarle. Amore rubato, strappato, carezze ai capelli, impossibili a farsi. Ma l’amore di questo si nutre, di questo vive. Mamma, nonna, dove ti trovo? Dove posso accarezzare i tuoi bianchi, lunghi capelli? I capelli decorano il viso, lo rendono ancora più bello, più caro.
Orrore: nell’angolo della stanza, per terra, arrotolati o aperti, stuoini, tappeti, tappetini, fatti con i capelli tagliati alle detenute appena arrivate nel lager. In fondo, nel lungo corridoio tante foto, bianco e nero, la maggior parte tratte da documenti: visi, persone, uomini, donne, giovani, bambini, anziani. Tutti morti, tolti alla nostra gioia, soprattutto a quella dei loro cari. Dolore infinito, frutto della crudeltà e della pazzia alimentata dalla ricerca di potere, da delirio di onnipotenza.
Prontamente sterminati per asfissia, nelle docce, altri deportati provvedevano a svuotare le camere a gas dopo aver accuratamente tagliato i capelli alle donne, ispezionato la bocca dei deceduti, alla ricerca di protesi dentali e di capsule di denti in oro. Altri detenuti passavano in rassegna gli abiti dei neodeportati, alla ricerca di documenti, foto, soldi, oggetti preziosi, anelli, collane, oro e pietre preziose, spesso trovate cucite e protette nelle fodere dei vestiti.
Nelle docce, nei forni crematori, una lugubre, dolorosa catena di montaggio di detenuti-inservienti che, dopo qualche giorno vedeva soppressi proprio quelli che erano stati destinati a tenerla ben funzionante, sostituiti da “forze fresche” inconsapevoli. Non bisognava tenere in vita testimoni che, non si sa mai, potevano parlare. Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa liberò 2.819 prigionieri ridotti allo stremo, tra cui 180 bambini, molti dei quali vittime degli esperimenti del medico Josef Mengele. È un piccolo numero, se raffrontato al milione e oltre di persone inghiottite da quell’enorme lager. Con gli Ebrei perirono anche migliaia di polacchi, russi, rom e persone di tante nazionalità. Auschwitz fu una vera e propria fabbrica di morte.
Nei capannoni, i soldati sovietici trovarono anche i trofei che i nazisti avevano raccolto per ricavarne denaro: migliaia di paia di occhiali, oltre 800mila abiti da donna, montagne di scarpe, cumuli di capelli. Orrore e dolore. Pensare che anche di fronte a tanto documentato orrore ci sono negazionisti. Chiesi alla guida: con loro che fare? “E’ bene che vengano a vedere con i loro occhi. Le parole non servono”. Infatti, in quel viaggio, più vedevi, più vedevi e ascoltavi, più sentivi, più tacevi. Annichilivi. Che dire? Dolore, dolore e stupore. Eppure, quella consapevolezza, a volte, pare affievolirsi. La celebrazione della Giornata non può essere ridotta ad una cerchia ristretta di autorità. Fu l’antisemitismo che generò i lager. Bisogna essere sempre presenti nella coscienza dei cittadini, penetrare nella loro cultura e far maturare naturale repulsione a simili farneticanti scelte. A partire dalla scuola, messa a dura prova dalla pandemia da Covid19.
Ora il testimone è nelle mani dell’Europa. La sua storia, che è stata impregnata di tanto male, sia occasione per una maturazione di consapevolezza: occorre una vera cultura della pace, senza limiti di razza, di religione, dando al bene comune, alla tutela della pace e della convivenza fra popoli una priorità irreversibile, per noi e per le prossime generazioni. Con Primo Levi grido anch’io: “Se questo è un uomo”.
“Forse, quanto è avvenuto – scrive Levi – non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: “comprendere” un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta e insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (e anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili.(…) Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.”
I disegni sono di Thomas Geve, il ragazzo tredicenne ebreo, che li realizzò dopo la liberazione da Buchenwald. In alto, “Di guardia nella notte solitaria”.