Oggi, 6 gennaio, ricorre il primo anniversario dell’assalto a Capitol Hill a Washington. L’attacco ad uno dei principali “monumenti” della democrazia occidentale, durante gli ultimi giorni dell’amministrazione Trump, destò scalpore e sgomento in tutto il mondo. Era dal 1814 che Capitol Hill non subiva una simile aggressione: in quell’occasione gli inglesi giunsero ad appiccare le fiamme al Campidoglio. Se, tuttavia, l’episodio del 1814 trovava fondamento nelle questioni internazionali, con la guerra anglo-americana scaturita in parte come conseguenza delle guerre napoleoniche, l’attacco dello scorso anno non ha coinvolto una forza straniera ma una rappresentanza dello stesso popolo americano, quella dei più fanatici sostenitori di Donald Trump.
L’uso della violenza è spesso usata dagli yankee per risolvere controversie internazionali o per appianare complicanze sociali interne, come dimostra l’irrisolta questione razziale. La storia degli States ci insegna che la guerra ha fatto da sfondo storico ad intere generazioni di americani, divenendo non solo un tratto caratterizzante della politica estera di Washington ma ripercuotendosi in modo dissestante sulla società, causando fratture insanabili. La difesa da parte dei repubblicani del II emendamento e del diritto inequivocabile degli americani di possedere un’arma da fuoco contrasta con le convinzioni dei democratici. Questi ultimi, infatti, vedono in quella norma giuridica la base delle ostilità che frammentano gli Stati Uniti, teatro sin dalla costituzione di scontri razziali ed etnoantropologici. Appare, pertanto, corretto definire gli Stati Uniti una sorta di “universo cosmopolita”, fortemente eterogeneo e pieno di contraddizioni.
In passato sono stati guidati da Abramo Lincoln, il presidente che, durante la guerra di secessione americana, condusse alla vittoria l’Unione contro i paesi confederati abolendo con il XIII emendamento la schiavitù. In quel periodo l’America era divisa in due fazioni, così come lo è oggi. Difatti, come evidenzia il giornalista del Washington Post, Carlos Rozada, la principale eredità che il tycoon ha consegnato al suo successore è stata la polarizzazione dell’opinione pubblica (anche se il percorso era già stato tracciato) e la conseguente spaccatura degli Stati Uniti nei colori blu e rosso che rappresentano rispettivamente il Partito Democratico e il Grand Old Party (Gop). Circa un anno fa, l’accademico statunitense Francis Fukuyama, autore del celebre saggio La fine della storia e Mosbacher Director of Stanford University’s Center on Democracy, in un suo pezzo apparso sull’autorevole rivista Foreign affairs ammoniva la classe politica americana. Il neocon Fukuyama rifletteva sull’assoluta mancanza di visione della classe politica statunitense, incapace di portare a compimento una serie di riforme che andavano dalla fiscalità all’occupazione al sistema sanitario.
Come effetto di ciò, a suo dire, ne sarebbe derivata la frustrazione della popolazione yankee e la conseguiente nascita di movimenti populisti e nazionalisti che hanno determinato un vulnus nella fragile democrazia americana. La sua previsione fu, poi, confermata dalle elezioni del 2016 che videro la vittoria di Trump e il suo insediamento alla White House. Da lì in poi si sarebbe creata una spaccatura che avrebbe diviso ulteriormente l’America. Gli anni di Trump sono stati caratterizzati da una continua propaganda politica di cui il principale bersaglio è stato il Partito Democratico, colpevole, secondo l’ex presidente, di avergli alienato il consenso della parte moderata della middle class americana. Non solo: Trump definiva il partito dell’ex presidente Barack Obama una pedina al soldo dei lobbysti del mainstream mediatico, del cinema hollywoodiano, delle università e dei centri culturali
In realtà, per “par condicio”, anche Trump nel corso del suo quadriennio presidenziale ha subito offese dai suoi avversari. Tra le accuse più incandescenti dei democratici vi erano quelle di considerare il partito di Lincoln un’istituzione che realizzava un’agenda politica mirata a favorire gli interessi delle grandi banche di Wall Street, dei petrolieri e dei grandi fondi di investimento internazionali.
Le battaglie politiche e ideologiche dei due principali partiti non hanno mai conosciuto una tregua. Anzi, all’indomani della vittoria, nel novembre del 2020, di Joe Biden su Donald Trump nella corsa presidenziale lo scontro tra i due partiti si è fatto più acceso. Trump, non riconoscendo la sua sconfitta, ha gettato un’ombra sulla vittoria di Biden, appellandosi ai suoi sostenitori, per la verità molti, in quei giorni che separavano l’election day dal fatidico 6 gennaio. Nel giorno dell’epifania, una folla incontrollata marciò spedita verso il Campidoglio al grido di “U.S.A.!”. I sostenitori che accolsero l’appello di Trump riuscirono senza particolari difficoltà a penetrare nel Parlamento, causando disordini e violenze. Come riporta l’autorevole New York Times, i fallimenti dell’intelligence rispetto all’accaduto sono stati imperdonabili. Tre giorni prima dell’assalto a Capitol Hill un rapporto dell’intelligence descriveva, con tono quasi profetico, gli sviluppi che, di lì a sei giorni, si sarebbero realizzati: “A differenza delle precedenti proteste post-elettorali, gli obiettivi dei sostenitori di Trump non erano necessariamente i manifestanti oppositori al tycoon, come in precedenza, quanto piuttosto il congresso stesso, con una data già definita, vale a dire il 6 gennaio”.
La superficialità con la quale l’intelligence si occupò della vicenda è nota a chi da casa ha assistito ad un episodio di straordinaria follia. Le conseguenze dell’assalto avrebbero potuto avere ripercussioni ancora più serie, considerando che quel giorno al congresso erano presenti Mike Pence, vicepresidente uscente degli Stati Uniti, diversi parlamentari e alcuni ufficiali di polizia. Quegli avvenimenti causarono l’avvio di un secondo impeachment ai danni di Trump che, per la cronaca, non sortì alcun effetto. A distanza di un anno, ritornando a parlare dell’episodio di Capitol Hill, Trump ha rinnovato i suoi attacchi, dichiarando alla stampa di esser stato vittima di brogli.
Il suo ruolo nella politica americana sembra non essersi ancora concluso. In un contesto politico nel quale è assente una figura carismatica all’interno del Gop, la sua presenza resta ancora forte. Non solo: la sua uscita di scena è stata vista come un “martirio” dalla frangia estrema del partito repubblicano. Questi elementi preludono ad un ritorno in grande stile dell’immobiliarista yankee nella prossima campagna presidenziale, programmata per fine 2023. A noi non resta che attendere gli sviluppi. L’importane prova del midterm di quest’anno ci offrirà un quadro più chiaro rispetto alle possibilità di vittoria dei repubblicani da qui ai prossimi anni.