Il giorno in cui Rosa ha deciso di riprendersi la sua vita

Un incontro fortuito con un'ex compagna di scuola, svela l'ennesima storia che dà senso alla Giornata contro la violenza alle donne, celebrata nei giorni scorsi

Siamo mente, cuore, sogni, occhi che rincorrono altri occhi, mani che intrecciano altre mani; forti come uragani ma fragili come cristalli preziosi. Siamo tutto e niente, la coincidenza degli opposti. Forza e dolcezza, passione e disincanto. Siamo donne. E non importa in quante altre battaglie saremo impegnate per guadagnarci una parità di genere spesso dimenticata, per la quale abbiamo affollato piazze e manifestato fino a notte fonda rivendicando i nostri diritti.

Non contano neppure gli sforzi profusi nello sradicamento di una mentalità che ci vedeva subalterne al sesso maschile, ma l’eredità che quel fascinoso periodo ha lasciato. Sorge spontaneo allora chiedersi perché, pur rimanendo sedotti da quei moti giovanili che nel ’68 predicavano l’emancipazione femminile e il sovvertimento dei ruoli tradizionali, l’attuale società sia ancora figlia di un’ideologia patriarcale che spesso pone a fondamento una mascolinità dannatamente tossica, dove l’ostentazione della virilità diviene talvolta esagerata e a tratti persino grottesca?

Ho incontrato Rosa qualche giorno fa a Ruvo; proprio lei, la mia ex compagna di scuola media, così dinamica e solare, dalla quale non mi sarei mai aspettata di ascoltare racconti tanto amari e dolorosi. Con Rosa mi è sembrato giusto e normale parlare dei nostri problemi, delle tante libertà e dei tanti diritti negati a noi donne. Discorsi fatti tante volte negli anni di scuola, tanto più attuali a sole poche settimane dalla Giornata contro la violenza alle donne. Una giornta da ricordare non tanto per la ricorrenza in sé, quanto per il valore simbolico che essa custodisce. Oltre a rendere giustizia alle tante vittime di femminicidio, rappresenta uno stimolo a non rimanere impassibili dinanzi ad una richiesta di aiuto, a non reprimere la rabbia, le urla, i pianti, le umiliazioni nutrendo la fallace speranza che in futuro non si ripetano più, ma a denunciare ogni forma di oltraggio che lede la dignità di una donna. Un atto di coraggio che non tutte le donne riescono a compiere dopo aver subito violenza, attanagliate come sono da quell’istinto materno di perdono che le induce a sorvolare sulla gravità dell’accaduto, arrivando addirittura a legittimarlo in nome della gelosia o dell’amore. Quale amore? Non è amore se fa male, se tradisce, se picchia, se umilia, se proibisce di indossare i vestiti preferiti, se non rispetta. No, non è amore ma abuso. Gli occhi vispi e neri di Rosa trasudano sincerità quando si appresta a spiegarmi la sua storia. Una storia che mi lascia senza fiato, senza la possibilità di controbattere ma con tanta voglia di riflettere.

Era il mio primo fidanzamento, avevo da poco compiuto diciasette anni. Ero una ragazza solare, vivace e molto socievole. Lui il mio opposto: silenzioso, riservato e timido. Eravamo una bella coppia. I primi mesi uscivamo, ci divertivamo e parlavamo molto. Le parole… Le prime che mi hanno ferito, che mi hanno plagiato. Un ragazzo possessivo e manesco non lo riconosci subito, inizia dalle parole, ti plagia, ti sottomette, ti fa credere che tu non abbia bisogno più di nessuno, che lui sia la tua unica ancora”, comincia così il suo racconto. “Iniziai da subito ad allontanare i miei amici, i miei genitori. Solo lui. Quando decisi di fare sport iniziarono le prime liti, le prime urla, perché il mister era un uomo, perché andavo a vedere le partite di calcio maschile, perché iniziai ad avere anche amici maschi. I litigi diventavano sempre più frequenti e i suoi comportamenti sempre più strani; mi urlava contro, mi strattonava e spintonava; il problema ero io. Tornavo a casa e piangevo di nascosto. Mi sentivo sbagliata, in colpa e delusa da me stessa”, il ricordo di quei giorni terribili.

“Ad oggi, dopo otto anni, ho risanato molti traumi psicologici, ho imparato a dialogare durante una lite mentre prima mi zittivo o scappavo per paura di essere picchiata. Ho imparato ad esprimere la mia opinione e ad ascoltare le altre, ma porto ancora con me una bassa autostima e l’ansia del ‘nuovo’. La relazione è durata due anni e mezzo, anni in cui ho sempre negato, nonostante tanti avessero assistito alle urla, agli strattoni, ai pugni e calci”, prosegue Rosa.

Così per lei comincia la spirale dell’ansia, della depressione, con il ricorso al medico ma sempre continuando a negare a se stessa quello che accadeva: “Il dottore – spiega – mi prescriveva pillole e calmanti mentre io cercavo risposte e cause nel mio passato. Il mio ragazzo partí per l’estero e appena seppe dei medicinali iniziò a minacciarmi di morte. Lo bloccai ovunque e continuai la mia vita se così si può dire. Dopo anni, sapendo del suo ritorno, decisi finalmente di denunciare, avevo paura, ma le forze dell’ordine mi dissero che sporgere denuncia era un affare lungo e complicato e ci sarebbero volute troppe prove che io non avevo”.

“Piena di lacrime ed amarezza tornai a casa. All’epoca non conoscevo i centri antiviolenza e non se ne parlava molto. Ad oggi molti ricordi negativi sono stata cancellati inconsciamente dal mio cervello, ma molti aleggiano ancora in me. Ricordo quando una sera eravamo per strada e lui iniziò ad urlare: io scappai, mi rincorse, mi bloccò, mi prese dal collo e mi strattonò. Mi avvicinò ad un palo, mi tirò un pugno sullo sterno e mi spinse verso il palo facendomi sbattere la testa. Urlai, piansi dal dolore e scappai veloce verso casa. Per telefono lo lasciai, dopo due mesi ero di nuovo con lui. Non giudicatemi, l’amore è cieco, ti fa perdonare, credi al cambiamento anche di chi ti ha trattato così male, ci caschi sempre. Questo come tanti momenti, l’ho superato, ma non da sola, ho avuto bisogno del sostegno di una psicologa e dei farmaci per l’ansia”.

Se il prototipo dominante di uomo non rinuncia al culto della sua personalità per un’ossessiva smania narcisistica, resta sempre viva l’immagine della donna accondiscendente e completamente asservita alla logica maschile. Occorre però fare una precisazione: la remissività alla quale la donna viene educata non è sinonimo di debolezza, come di solito viene inteso, ma scaturisce dai principi che fin dall’infanzia le sono stati inculcati: l’essere una creatura debole, bisognosa di sicurezza e protezione da parte dell’uomo. 

Ma quando la misura è colma, quando da una presunta superiorità, l’uomo passa alle offese, alle minacce e poi alle mani il discorso cambia radicalmente. E’ allora che occorre avere la forza di chiedere aiuto. “Dopo sette anni della fine di questa relazione – conclude Rosa – continuo a seguire un percorso di terapia, perché le conseguenze a volte si moltiplicano a volte si diradano. Vorrei dire a tutte le donne che si trovano in difficoltà di chiedere aiuto. Ricordate, questo è un amore malato, possessivo, non è vero amore. Dovete farvi forza, chiedere aiuto ad un’amica, a una persona cara o ai centri antiviolenza, alle forze dell’ordine o al numero verde. Non potete rimanere zitte. Urlate! Abbiate il coraggio di farvi sentire!”.

I disegni, dedicati al tema della violenza sulle donne, sono dell’artista spagnola Hyuro