C’è una scena verso la metà del nuovo film di Pedro Almodovar, Madres Paralelas, in cui Penelope Cruz entra in un negozio di telefonia di Madrid decisa a cambiare il numero del suo cellulare. Janis, così si chiama l’ultima incarnazione della quarantasettenne attrice spagnola (in omaggio a Janis Joplin, di cui la madre, morta giovanissima per overdose come la cantante, era un’ammiratrice), è molto agitata. Comprensibilmente, visto che ha appena scoperto di non essere la madre biologica della bambina che le è stata consegnata uscendo dalla sala parto, dove due madri avevano partorito contemporaneamente, e dove le neonate erano state fatalmente scambiate: errore tanto verosimile quanto abusato a fini narrativi, che la pur brillante Janis non ha ancora scoperto.
Cerca perciò la verità sulla bambina, e nel frattempo vuole rendersi irreperibile. Da chi? Non dal supposto padre, l’antropologo forense che ha promesso di aiutarla a scoprire la verità sulla fine del bisnonno portato via dai falangisti durante la guerra civile, come lì per lì si è portati a pensare, bensì dall’altra madre: la giovanissima Ana, la cui figlia (in realtà figlia di Janis) è morta improvvisamente nella culla.
“Che telefono ha?”, le chiede il giovane commesso. “Mmm… questo!”, risponde Janis porgendogli il telefono. Il ragazzo lo guarda e dice che, sì, è possibile cambiare il numero senza perdere alcun dato personale.
In questo passaggio apparentemente insignificante della sceneggiatura, scritta come sempre dallo stesso Almodóvar, c’è un’involontaria ironia. E forse anche una sottile ipocrisia. Lo spettatore ha infatti già visto più volte il logo sulla cover del telefono, che cambia colore quasi ad ogni sequenza al pari dei vestiti delle protagoniste; così come lo ha visto sui vari computer che appaiono in scena: dai modelli portatili al desktop, si direbbe che l’intera linea di prodotti di una nota azienda californiana venga nel film esibita. Per non dire della pubblicità a tutta la gamma di auto di un una nota casa giapponese.
Poi ci sono le ben visibili marche di macchine fotografiche (Janis è una fotografa di successo e ne possiede una batteria), una nota linea di cosmetici, e altri riconoscibili articoli di lusso. In generale niente di nuovo, per carità, dopo tutto la stessa Janis è anche una pubblicitaria. Ma per il cinema di Almodóvar, sì: è qualcosa che non si era mai visto. Possibile che il più famoso regista spagnolo dopo Luis Buñuel, dall’algido crinale del precedente Amor y gloria, autentico capolavoro del genere autobiografico, sia scivolato in una venale operazione di marketing?
È vero che quello tra cinema e pubblicità è un rapporto inestricabile: lo è stato fin dalla nascita della cosiddetta settima arte, quando gli stessi fratelli Lumière, nel 1895, girarono L’uscita dalla Fabbrica Lumière con l’ovvia intenzione di affermare il loro brand. Ma è inevitabile che, in un lungometraggio d’autore, tutti quegli ammiccamenti a prodotti commerciali finiscano per violare l’integrità artistica del film, minacciandone il suo valore estetico. Soprattutto se, a questa debolezza di superficie, ne corrisponde un’altra più intrinseca al film. Il cinema pop di Pedro Almodóvar non ha perso colore, solo una parte di spessore, per volerlo troppo artificiosamente acquistare.
Parallele sono per definizione due rette che non s’incontrano mai. Non è questo il caso delle due madri, che nella seconda parte del film s’incontrano, e vivono, per iniziativa della più giovane, una breve storia d’amore (proprio quando essa sta per evolvere in una relazione stabile, che darebbe all’unica figlia rimasta due madri, ricompare Arturo, l’antropologo forense, che ha finalmente ottenuto dalle autorità il permesso di riaprire la fossa comune in cui si crede giaccia il bisnonno di Janis; e la storia si conclude con il repentino ritorno di Janis alla eterosessualità, alla gravidanza, alla ricerca della verità sulla fine del bisnonno).
Ciò che invece non s’incontra è proprio quello che il regista avrebbe voluto intrecciare fino a fondere in un tema unico: il melodramma privato e la tragedia storica, la vicenda intima delle due madri e quella storico-politica della Spagna che deve ancora chiudere i conti con il proprio passato, dando nome e degna sepoltura a migliaia di vittime (si stima siano centomila) giacenti in fosse comuni: questione politica di primo piano a Madrid, oggetto della controversa Ley de Memoria Histórica approvata dal parlamento nel 2007, stante il governo Zapatero, poi sospesa di fatto dal conservatore Rajoy, quindi riformulata nel 2020 dal nuovo governo a guida socialista. Janis è una donna in cerca della verità, su sua figlia e sul bisnonno desaparecido: presente e passato, individuale e collettivo. Ma per quanto il regista cerchi di introdurre elementi che li avvicini, i due temi rimangono distanti, non si compenetrano, come un piede che non entra in una scarpa troppo stretta.
Madres paralelas rimane tuttavia uno spettacolo cinematografico di alto livello, per l’affascinante espressività delle inquadrature (Almodóvar è un maestro in questo) e per l’incontestabile bravura degli interpreti: dagli attori non protagonisti – l’iconica Rossy de Palma, in squadra con Pedro dai tempi di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, la virtuosa Aitana Sánchez-Gijón, nella parte di un’attrice-madre piuttosto stronzetta e tendenzialmente fascista, il versatile Israel Elejalde, amante e antropologo forense, cui è affidata l’ardua impresa di rendere coincidenti le parallele – alle due straordinarie attrici protagoniste. Penelope Cruz è particolarmente convincente nel momento di maggiore intensità drammatica, quando si trova a dover rivelare la verità alla più giovane madre; e ugualmente lo è quest’ultima, l’astro nascente Milena Smit, al suo secondo film. Sono soprattutto loro, le due attrici appartenenti a generazioni diverse, a salvare il film più commerciale e politicamente corretto del regista spagnolo.
Nella foto in alto, Penelope Cruz nei panni di Janis, protagonista di Madres Paralelas