Il mestiere bello ma ingrato di produrre un film

Domenico Procacci spiega al Bif&st che chi finanzia il cinema comanda di più in America mentre nel nostro paese si lascia maggiore libertà a registi e sceneggiatori

In Italia, il produttore conta poco. O comunque conta meno che in America. Il che porta a delle conseguenze”. Sentir parlare un produttore, al termine della visione di un film di grande successo, come Il passato è una terra straniera, fa sempre un certo effetto, perché permette di approfondire e apprendere dinamiche che altrimenti non si conoscerebbero. Le parole di Domenico Procacci hanno un certo peso nel dibattito – tra i più interessanti svoltisi nell’ambito del Bif&st – che verte sul ruolo del produttore in Italia. Ed effettivamente è così. Chi produce un film viene dopo una serie di figure: quella del regista, in primis, lo sceneggiatore e gli attori, “mentre in America, chi ha i soldi decide – spiega Procacci – il capitalismo investe ogni aspetto della produzione”.

Il tema del ruolo del produttore nell’industria cinematografica italiana ha probabilmente influito in negativo sul successo del cinema, perché al di là del capitale che impiega o dovrebbe rintracciare e impiegare, il produttore è una figura che fa da ponte tra la creatività degli artisti (regista, sceneggiatore e cast) e il pubblico. Capisce quello che gli spettatori desiderano dal prodotto cinematografico, cosa può spingerli ad entrare in sala. Una figura del genere ha, quindi, un’importanza enorme, perché va al di là delle velleità di quanti a vario titolo concorrono alla realizzazione di un film e rintraccia ciò che vende, in un mercato assai competitivo, in cui ad aver successo sono le major americane.

Il cinema americano ha un vantaggio enorme, da sempre. Eppure, abbiamo sempre saputo tenergli testa. In pochi conoscono Cabiria, per esempio. Il film di Giovanni Pastrone. Quella fu un’operazione intelligentissima. Era il 1914, proprio l’inizio della storia del cinema, e l’Italia aveva in mente di produrre un colossal. Per attirare il pubblico, l’intelligentissimo Pastrone coinvolse nella scrittura Gabriele D’Annunzio, che godeva di una straordinaria popolarità. I testi del vate portarono tantissima gente al cinema. Presto si diffusero i cartelloni cinematografici, arrivarono in America e lì i primi cineasti americani presero spunto per i propri film. Primo fra tutti David Griffith con ‘Nascita di una nazione’. Insomma, eravamo in testa, e grazie ad una mossa da produttore, da imprenditore, da intenditore delle masse”, commenta Procacci.

Eppure, il produttore nel nostro paese (ma è un discorso che si può estendere all’Europa), nell’attuale sistema cinematografico, viene dopo il regista e non c’è verso di cambiare le cose. Ciò porterà a periodi di grosse produzioni, di sfrenata ingegnosità e creatività, e a periodi di magra, in cui verranno proposti i soliti temi, triti e ritriti, in attesa che qualche sceneggiatore di talento proponga un’idea innovativa. “Già, che possiamo rapportarci con l’America è tanto – commenta il produttore del film Il passato è una terra straniera –: in alcuni momenti storici, addirittura, abbiamo fatto tremare il colosso americano. Per esempio, con film come ‘Roma città aperta’ o ‘La dolce vita’, che ci furono invidiati e imitati sul suolo americano. E comunque il film di Rossellini non ha avuto in Italia la popolarità che ci si aspettava; ma questo è un altro discorso, che riguarda la triste verità che non sempre un capolavoro vende bene”.

Daniele Vicari (foto dal profilo fb)

In riferimento al film di Daniele Vicari, regista di cui ha prodotto altri due film, Procacci ha espresso sin da subito la sua stima e la totale fiducia che ha riposto nelle scelte registiche del suo amico di vecchia data. “E’ importante provare ammirazione per il film che si sta producendo, specie perché è difficilissimo ricavare una trasposizione cinematografica di un libro, specie se è così bello. Si parte in netto svantaggio, perché si devono fare dei tagli, dei cambiamenti e spesso queste differenze non piacciono ai lettori. Ma i tagli si rivelano necessari. L’importante è non tradire lo spirito del libro, l’intenzione con cui è stato scritto, le emozioni dei personaggi, il loro profilo psicologico. Il regista non si deve sostituire allo scrittore. Deve capire la sua opera e mantenerne lo spirito, senza tentare di imitare. Quello sì che sarebbe un errore non da poco” commenta, ridendo, il produttore.

Ed effettivamente l’omonimo libro di Gianrico Carofiglio è stata una sfida non da poco, specie per il suo successo popolare. Sono molti i lettori che, nonostante la bellezza del film, non riescono a definirlo come meriterebbe, affezionati come sono al romanzo. È una sfida delicatissima e non sempre funziona. “Quello di cui però sono molto fiero è che questo ruolo del produttore in Italia non danneggia l’idea con cui viene concepito il film. Non è onesto cambiare un progetto solo perché il produttore dice di farlo, altrimenti minaccia il licenziamento. Questo accade ad Hollywood ma non in paesi di libero pensiero, come il nostro. Perché il pubblico non va solamente soddisfatto ma anche guidato. Va insegnato qualcosa di concreto sulla realtà, sull’arte, su tante di quelle cose. Questo dovrebbero fare gli intellettuali e questo dovrebbe fare il cinema, sempre. Al di là del guadagno e del successo del film: assecondare la sensibilità degli spettatori e insieme portarli a un sano sforzo intellettuale”, conclude Procacci.

In alto Domenico Procacci (foto dalla pagina fb del Bif&st)